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WARWICK & SONS.
Law Book Binders ano Publisher*
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OPERE
DI
GIOSUÈ CARDUCCI
IT.
U EDITORE ADEMPIUTI I DOVERI
ESERCITERÀ I DIRITTI SANCITI DALLE LEGGI
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CONFESSIONI
E
BATTAGLIE
DI
GIOSUÈ CARDUCCI
BOLOGNA
DITTA NICOLA ZANICHELLI
( Cesare e Giacomo Zanichelli )
MDCCCXC
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^
RICORDO D'INFANZIA
Carducci. 4.
In Ritorniamo piccini!
libro di premio del Giornale per i bainhiui,
Roma, 1885,
Mia signora,
LLE dimande delle figliuole d' Eva
io credo che il più savio e sano
partito sia sempre rispondere no.
Questa volta, trattandosi di rim-
bambire per chiassO; non voglio parere villano.
10 della mia infanzia non ho memorie né belle
né buone né curiose.
11 mio più antico ricordo mi pone sùbito,
ahimè, in relazione con un essere dell' altro sesso,
come si direbbe con la lingua d' un certo uso,
che, secondo i manzoniani, dovrebbe anche essere
la lingua del buon gusto.
Mi ritrovo in un luogo né bello né brutto —
forse un giardinetto presso la casa ove nacqui — ,
a una giornata, né di primavera né d' inverno, né
d' estate né d' autunno. Mi pare che tutto, cielo
e terra, sopra, sotto e d' intorno, fosse umido,
grigio, basso, ristretto, indeterminato, penoso.
4 RICORDO D INFANZIA.
Io con una bambina dell' età mìa, della quale
non so chi sia o chi sia stata, dondolavamo, te-
nendola per i due capì, una fune; e mi pare che
cosi dicevamo o credevamo di fare il serpente.
Quando a un tratto ci si scoperse tra i piedi
una bella bòdda: è il nome, nel dialetto della
Versilia, d' un che di simile al rospo. Grandi am-
mirazioni ed esclamazioni di noi due creature
nuove su queir antica creatura.
Le esclamazioni pare fossero un po' rumo-
rose. Perché un grave signore, con gran barba
nera e con un libro in mano, si fece in su 1' uscio
a sgridarci, o, meglio, a sgridarmi. Non era mio
padre: era, seppi molto tempo dopo, un marito
putativo d' una moglie altrui alloggiata per certo
caso ivi presso.
Io, brandendo la fune, come fosse un fla-
gello, me gli feci incontro gridandogli: Via, via,
brutto, te! -
D' allora in poi, ho risposto sempre cosi ad
ogni autorità che sia venuta ad ammonirmi, con
un libro in mano e un sottinteso in corpo, a nome
della morale.
Ma veramente morale, per bambini, questa
storia non è.
Che vuole ci faccia io, signora? È storia. E ho
ubbidito.
PRIMO PASSO
Nel Primo Passo, Note autobiografiche di diversi,
Firenze, Carnesecchi, 1882;
e in Confessioni e Battaglie di G. ,C., Serie 1»S
Roma, Sommaruga, 18S2.
^^ L primo passo verso il numero
^^ dei più, cioè degli nomini stam-
'és pati, lo feci presto, e, da buon ita-
liano, con un sonetto, un sonetto
d'occasione; e quale occasione! per i coristi del
teatro di Borgo Ognissanti, o, salvo il vero, della
Piazza Vecchia. Era del 1852; e io studiavo, o, a
dir meglio, non studiavo affatto, filosofia dagli
Scolopii. Stavo vicino di casa in Via Romana con
Emilio Torelli stampatore, e già dei fedeli, dei ve-
ramente e onestamente fedeli, di F. D. Guerrazzi.
Egli mi chiese il sonetto. Come dir di no a un de-
mocratico del '48, che aveva tale una franca im-
postatura tra di soldato e di ciompo (egli fu
capitano dei municipali, e sua madre era piemon-
tese), e portava sempre uno smisurato cappello o
di felpa o di paglia, all' ombra delle cui grandi
ale poteva riparare una cospirazione? Diedi il so-
8 PRIMO PASSO.
netto; e fu stampato; anonimo. Non me ne ricordo;
ma ci doveva essere qualche frase d' Armonide
ElideO; o, meno arcadicamente, d' Angelo Mazza.
Il vero primo passo per altro, e questo con la
ferma intenzione di peccare, solamente non seguita
dall' effetto, lo avevo mosso qualche mese innanzi.
In quegli anni io scrivevo sempre: ammiravo il
bello da per tutto, cioè non capivo nulla. Ebbi in
una giornata di luglio il coraggio di mettere as-
sieme in tutti i metri che mi corsero per la testa
(nessun barbaro: allora, al più, rifacevo alcaiche
su'l modello del Fantoni) una novella roman-
tica. L' intitolai Amore e Morte. C era dentro un
po' di tutto — un torneo in Provenza — e il ra-
pimento della regina del torneo fatto da un cava-
liere italiano vincitore — e una fuga con dialoghi
al lume di luna tra gli abeti — e il fratello della
vergine non più vergine che raggiungeva gli
amanti in Napoli — e un duello — e la morte del
vago — e la monacazione della vaga — • e un suc-
cessivo impazzamento — e T annessa morte, dopo
la confessione in
Endecasillabi
Catulliani
Dolci per facili
Modi toscani.
(Rossetti, Veggente in solitudine).
Non téma, signor lettore ; non le infliggerò la pena
di fargliela leggere ; se bene la curiosità sua poco
discreta a voler conoscere i peccati di gioventù
PRIMO PASSO. 9
meriterebbe cotesto e peggio. Ricordo per altro
due strofe, quando la regina del torneo posava
una ghirlanda su *1 capo del vincitore che s' era
tratto r elmo :
Qui la bella di Tolosa
Del baron gli occhi fiso.
Poi tremante e vergognosa
Chinò gli occhi e sospirò.
Ma una fiamma al roseo volto,
Una fiamma le sali,
Quando il nero crin disciolto
Fra le dita errar sentf.
Finita che ebbi la novella verso le quattro d
sera, e il caldo era grande (come scrivevano
vecchi cronisti), pensai a farla stampare. Perché
no? Leggevo stampati tutti i giorni tanti versi
che mi parevano peggiori de' miei. U abate Ste
fano Fioretti pistoiese compilava allora certo fo
glio tra teatrale e letterario, intitolato non ricordo
pili se r Arpa o il Liuto o il Trovatore o il
Menestrello, o quale altro de' nomi d' oggetti di
spogliatoio melodrammatico che usavano ancora
su quegli sgoccioli del romanticismo. Mi manca il
tempo e la serenità dell' animo a raccogliere e
rendere i tratti di ciò che era allora 1' abate to-
scano: non prete del tutto, ma né men secolare:
molto arcadicamente o romanticamente letterato:
il cappello lungo; cravattina simulante il collare
sotto al solino imbiancato co'l turchinetto; abito
moderatamente talare tenuto aperto per lasciar
IO PRIMO PASSO.
vedere una catenella d' argento a mezzo la sotto-
veste abbottonata fin molto in su; tutto in nero,
s' intende; nero ed argento; in argento legate pos-
sibilmente le lenti, pomo d' argento o d' altro me-
tallo biancheggiante su la canna d' India; in fine
andatura un pò* solenne, ma con passi di mi-
nuetto e naso air aria. Il Fioretti del resto era
persona piacente, e galantuomo e buon com-
pagno : aveva V ufficio del giornale in un de' vi-
coli che rameggiano da via Calzaioli. Salgo le
scale con grande trepidazione: il direttore non
e' era, e' era la governante o la cameriera o
la nipote; non so in somma che cosa fosse pre-
cisamente. Il che mi piacque: non mica per la
cameriera o governante o nipote — che era del
resto un bel pezzo di ragazza, tipo fiorentino del
Ghirlandaio un po' volgarizzato — ma io, figu-
ratevi, ero troppo fresco d^W Amore e Morte e
della mia creazione di Gilda. Mi piacque, perché
cosi potei scrivere una lettera al direttore (a par-
lare mi sarei imbrogliato), con la quale gli lasciavo
e raccomandavo la mia novella: sarei tornato il
giorno dopo per la risposta. Tornai; e il piacente
abate con squisita cortesia mi fece capire che la
mia novella era troppo lunga e troppo letteraria
per un foglio come il suo.
Rividi poi, circa il '59, e più volte, V abate
Fioretti; e finimmo buoni amici. Mi dava o mi
mandava certe sue cantate storiche. Una, mi ri-
cordo, Gli Orti Oricellari a tempo dell' ultima
PRIMO PASSO. II
cacciata dei Medici da Firenze, fu musicata dal
Mabellini per i parentali a Niccolò Machiavelli ce-
lebrati in Pistoia la sera del 26 luglio 1863. E me
ne ricordo un' aria a più voci tra Palla Rucellai,
il Machiavelli figliolo e Zanobi Buondelmonti.
Palla
Ah . . . del ribelle moto
Còrremo ì frutti amari.
Machiavelli
Ai Medici devoto
Vedrem rOricellari?
Palla
Tutti i tiranni abomino,
Detesto al par di te;
Ma nella plebe instabile
Non so ripor la fé'.
BUOXDELMOXTI
Torna a regnare il popolo.
Che plebe vii non è.
lo gli lodai quella cantata. Sicuro! Gli ero debi-
tore dell' avermi risparmiato la stampa della no-
vella. Imaginatevi se i critici italiani avessero
poi scoperto che a sedici anni feci una poesia
romantica !
LE RISORSE
DI SAN MINIATO AL TEDESCO
E LA
PRIMA EDIZIONE DELLE MIE RIME
In Confessioni e battaglie di G, C, 2» serie,
Roma, Sommaruga, 1883.
OME strillavano le cicale giù per
la china meridiana del colle di
^ San Miniato al Tedesco nel luglio
)^ del 1857!
Veramente per significare lo strepito delle ci-
cale il Gherardini e il Fanfani scavarono dalla
Fabbrica del mondo di Francesco Alunno il
verbo frinire. E per una cicala sola^ che canti,
amatrice solinga^ sta. Ma, quando le son tante a
cantar tutte insieme, altro oh^ frinire, filologi cari !
Come, dunque, strillavano le cicale, etc. etc. !
Intorno intorno, i verzieri fortemente distinti dal
verde cupo delle ficaie; al piano, i campi nei quali
il verde cedeva più sempre al giallo biondo, al giallo
cenerino, al polveroso della grande estate ; di fac-
cia, r ondoleggiante leggiadria dei colli di Val-
darno somiglianti a una fila di ragazze che prèsesi
per mano corrano cantando rispetti e volgendo
l6 LE RISORSE
le facce ridenti a destra e a sinistra, — tutto co
testo viveva ardeva fremeva sotto il regno del
sole nel cielo incandescente. Spiccava tra il piano
e i colli non interrotta una fuga di pioppi, e tra
il frondente colonnato degli agili tronchi scopri-
vano e con la folta canizie delle mobili cime
ombreggiavano il greto del fiume, luccicante, sotto
lo stellone del mezzogiorno, di ciottoli bianchi.
Come strillavano le cicale in quella estate della
dolce Toscana!
Io non ho mai capito perché i poeti di razza
latina odiino e oltraggino tanto le cicale. Le han
dette roche, ed aspro e discorde il loro canto.
Fin Virgilio con loro non è più gentile.
Et caiìtii quernlae ruinpuìit arbtista cicadae:
e r Ariosto perde, per un momento, della sua
grandezza.
Sol la cicala col noioso metro
Le valli e i monti assorda e il mare e il cielo.
I greci le salutavano figlie della Terra, e le ono-
ravano emblema della nobiltà autòctona. Demos,
il popolo, comparisce, se mal non ricordo, nelle
commedie di Aristofane, coronato il capo di cicale
d'oro. Gli ateniesi anche ne mangiavano: io mi
contento di ammirarle.
Oh tra il grigio polveroso dei rami, e nei cre-
pacci gialH delle colline cretacee, e nelle fendi-
ture ferrugigne de' riarsi maggesi, oh care bestio-
line brune co' due grossi occhi fissi e co' tre occhi
DI SAN MINIATO AL TEDESCO. I7
piccolini vivi SU '1 dosso cartilaginoso ! Esse can-
tano quanto dura la perfezione del loro essere,
cioè fin che amano: cantano i maschi, le femmine
no: le donne sono sempre senza poesia. Comin-
ciano agli ultimi di giugno, nelle splendide mat-
tinate, quando la clemenza del sole nel suo
primo salire sorride ancora agli odoranti vezzi
della giovine estate, cominciano ad accordare in
lirica monotonia le voci argute e squillanti. Prima
una, due, tre, quattro, da altrettanti alberi; poi
dieci, venti, cento, mille, non si sa di dove, pazze
di sole, come le senti il greco poeta; poi tutto
un gran coro che aumenta d' intonazione e d' inten-
sità co '1 calore e co '1 luglio, e canta, canta, canta,
su' capi, d' attorno, a* piedi de* mietitori. Finisce
la mietitura, ma non il coro. Nelle fiere solitu-
dini del solleone, pare che tutta la pianura canti,
e tutti i monti cantino, e tutti i boschi cantino:
pare che essa la terra dalla perenne gioventù del
suo seno espanda in un inno immenso il giu-
bilo de' suoi sempre nuovi amori co '1 sole. A me
in quel nirvana di splendori e di suoni avviene
e piace di annegare la conscienza di uomo, e
confondermi alla gioia della mia madre Terra:
mi pare che tutte le mie fibre e tutti i miei sensi
fremano, esultino, cantino in amoroso tumulto,
come altrettante cicale. Non è vero che io sia ser-
bato ai freddi silenzi del sepolcro ! io vivrò e can-
terò, atomo e parte della mia madre immortale.
Oh felice Titone, uscito cicala dagli amplessi del-
Carducci. 4. 2
,l8 LE RISORSE
r Aurora ! e felicissimi voi, uomini antichi, i quali,
come la Grecia imaginò e raccontò il senno divino
di Platone, tutte le vostre vite spendeste dietro
la voce delle Muse, e per la voce delle Muse
tutto obliaste, anche V alimento e V amore, sin che
gli dèi impietositi vi trasformarono in brune cicale.
In Toscana e ih Romagna le cicale durano a
cantare, più sempre rade, è vero, e via via più
discordi, fino in settembre; e a me è avvenuto di
sentirne qualcuna a punto dopo le prime piogge
settembrine. Come si affaticava, quasi per un
senso di dovere, la figlia della Terra a pur can-
tare ! ma come era triste quello stridore di cicala
unica tra il ridesto sussurrio de' venti freschi e la
dolcezza del verde rintenerito ! E anch'io sono
oramai una cicala di settembre : non rimpiango
né richiamo né invidio ; soltanto tra le brezze
d' autunno ricordo gli ardori del luglio 1857 e le
estati della dolce Toscana.
II.
Veramente nel luglio del '57 io non strillavo
su' rami degli alberi, ma insegnavo retorica in
una stanza di un grand' edifizio monacale, a un
primo piano, scialba e disadorna, le cui finestre
spalancate (è meglio sempre godersi il sole fin
che ce n' è ; ci sarà da star poi tanto al buio ed
al freddo) guardavano allegramente una parte
del Valdarno inferiore. Eravamo a insegnar qual-
DI SAN MINIATO AL TEDESCO. I9
che cosa nel ginnasio di San Miniato, detto pom-
posamente liceo, tre compagni usciti allora allora
da Pisa. Pietro, filosofo giobertiano, forte a di-
sputare deir ente e a rompere con un colpo della
testa le impòste d' un uscio, insegnava umanità.
(terza ginnasiale), ed era il più anziano dei tre
e il più positivo : profilo di Don Chisciotte e buon
senso di Sancio Panza: rifaceva stupendamente!
gatti innamorati e miaulava le arie del Trovatore.
Ferdinando, più largamente noto co '1 nome di
Trombino, per avere in una ripetizione di let-
teratura latina trasformato allegramente cosi il
severo Frontino compendiatore delle Historiae
philippicae, insegnava grammatica (seconda e
terza), non senza molta e sospettosa meraviglia
del vecchio professore di grammatichina (prima),
un vero maestro con cravattona e pancia, con
mazza e scatola di tabacco: egli era in fondo il
più goliardo della compagnia, ma eseguiva le sue
maggiori scapataggini serio serio e in grande
quiete ; aveva de' rosei rossori di fanciulla, e
avrebbe potuto cantare come un pavone. Io, co-
nosciuto anche per Pinini, causa un raddoppia-
mento spostato nella coniugazione del verbo Tiiveiv,
insegnavo retorica (quarta e quinta), cioè facevo
tradurre e spiegare a due ragazzi più Virgilio e
Orazio, più Tacito e Dante che potessero; e but-
tavo fuor di finestra gV Inni Sacri del [Manzoni.
Il sotto-prefetto, del quale non ricordo il nome
ma veggo ancora l'ombra del lunghissimo naso,
ao LE RISORSE
nella visita che arrivati dovemmo fargli ci aveva
con tono di pietoso rimpianto avvertiti, che San
Miniato era luogo di poche risorse. Dei molti
significati di cotesto francesismo Pietro colse
il men proprio e più utilitario^ e faceva boc-
cucce: Trombino e io ci ammiccammo di sottéc-
chi; ridendo e pensando — Le risorse le trove-
remo noi.
E le trovammo. Innanzi tutto ci accontammo
presto con una brigata di giovanotti (come troppe
di simili ce n' era e ce n' è forse ancora per le
città minori e le grosse terre di Toscana); piccoli
possidenti e dottori novelli, che, vivendo del loro
poco e nella speranza dello studio e dell' impiego
futuro, passavano tutte le sante giornate a non far
nulla, o meglio a far di quelle cose che forse
sono le più degne e più proprie dell' hoìno sa-
piens ( almeno gli animali non le fanno), come sa-
rebbe mangiare e bere il meno male e il più spesso
possibile, giocare, amare, dir male del prossimo
e del governo. Noi tre abitavamo, sùbito fuori
Porta fiorentina, tutta noi, una casetta nuova, che
un oste tassoniano, ma non bolognese, detto,
credo per eufemia, Afrodisio, ci aveva appigio-
nato; e ci passava anche da mangiare a bonis-
simi patti. Io me la veggo ancora dinanzi co'l
poetico nome postole da noi di Torre bianca^
ma il vicinato la conosceva per la casa de* mae-
stri. E cominciava ad aver mala voce all' intorno,
per i molti strepiti. Ci si sentiva, pur troppo, di
I
DI SAN MINIATO AL TEDESCO. 21
notte e dì giorno, ogni qual volta, ed era spesso,
V allegra compagnia la invadesse.
Ave color vitii clari.
Ave sapor sinc pari!
Tua tios ùiebriari
Digncris potentia !
Tali erano, se non le parole, il senso e il signi-
ficato di quelli strepiti, e le invocazioni e le an-
tifone di quei misteri ; che non di rado erano pure
celebrati in pubblico nel caffè Micheletti o in una
osteriuccia a pie del colle su la strada provinciale.
Qualche volta anche andavamo alla méssa, in
domo ; e una di quelle mésse m' è ancora in me-
moria per la lieta illustrazione di certi quadri o
affreschi, che il capo più ameno della brigata re-
citava, menandomi in giro per le navate, in istil
bergamasco, contraffacendo il parlare d' una ven-
ditrice di castagne compatriotta del poeta Ber-
nardino Zendrini, e con un sistema critico di
perpetua comparazione tra la figura di San Giu-
seppe e quella del sotto-prefetto, che, tutto in nero,
ascoltava il divino ufficio nella prima panca.
Hinc mihi prima mali labes. Da cotesta ber-
gamascata e dalle mie smargiasserie di antiman-
zonismo mi si levarono intorno i fumacchi, e ben
presto mi avvolsero e tinsero tutto, d' una leg-
genda d' empietà e di feroce misocristismo. Assai
prima che l' imperatrice Eugenia avesse a inorri-
dire su i grassi venerdì santi del principe Giro-
lamo Napoleone e dell' accademico Sainte-Beuve,
22 LE RISORSE
corse per Valdarno una spaventosa voce, che io
il venerdì santo del '57' fossi sceso da San Mi-
niato alla taverna del piano, e all' oste sbigottito
avessi fieramente intimato: Portami una costola
di quel p.... di Gesù Cristo. È vero che in quel-
la anno io andavo pensando o andavo dicendo di
pensare un inno a Gesù con a motto un verso e
mezzo di Dante,
Io non so chi tu sie né per che modo
Venuto se' quaggiù;
ma è anche vero che quel venerdì santo io era
a Firenze, e quei mesi studiavo appassionata-
mente lacopone da Todi e annunziavo a tutti
la sua gran superiorità su '1 Manzoni e lo salutavo
Pindaro cristiano, e composi una lauda al Corpo
del Signore. Il che tutto non impedi che non mi
fosse avviato un processo; e un processo di tal
materia a quegli anni in Toscana poteva menar
lontani. Per fortuna che der57 anche e' era. in To-
scana, pur ali' ombra della cappamagna di Santo
Stefano, del buon senso parecchio e dell' onestà.
Dieci anni dipoi un giornalucolo fiorentino di
parte moderata, che forse forse a' tempi di Gian
Gastone avrebbe potuto correre il rischio di pas-
sare per arditello e spiritosetto, affermava che da
giovine io era stato anche clericale.
III.
Una seconda risorsa tra gli officii magistrali
di San Miniato erano gli amici, che nelle belle
DI SAN MINIATO AL TEDESCO. 2^
domeniche d' aprile, di maggio e di giugno cr
venivano a trovare da Firenze: il Nencioni, il
Chiarini, il Gargani. In quei giorni la Torre-
bianca spargeva intorno strepiti più gloriosi: un
romantico di buone intenzioni avrebbe potuto
dire che " fervea di canti, fervea di suoni „, e che
una fantastica aureola di luce, elettrica emana-
zione degli spiriti di tutte le nostre giovinezze,
nelle ore del queto e melodioso vespero la irra-
diava: io, per quello me ne ricordo, direi sem-
plicemente che facevamo un casa del diavolo.
Del resto io non ho mai sonato o giocato a' miei
giorni, né cantato o ballato mai, se non per burla ;
ma mi sentiva cosi bene del mandare a spasso
per que' brusii e per que' trepestìi le mie tristezze
selvatiche e di cacciarle dalla ròcca del cuore
(barocco misto, di Dante e del seicento ) bombar-
dandole a scariche di tappi saltanti ! Il Chiarini e
il Nencioni, non troppo avvezzi a cotesti fuochi
di fila, se ne tornavano la dimane a Firenze, con
uno sbalordimento ammirativo, che durava più
giorni, della ospitalità di San Miniato. Io, la sera
a una cert' ora, cantavo a loro due, come l'Aleardi
a Maria, la mia canzone più bella, V ultima fatta,,
per addormentarli ; poi, accomodatili a letto, uscivo
co '1 Gargani tacitae per amica silentia lunae.
Giuseppe Torquato Gargani (del Chiarini e
del Nencioni non ho a dire altro qui: tutti gì" in-
telligenti li conoscono, e tutti i buoni li amano)
mori d'amore e d' idealismo in Faenza il 29 mar-
24 LE RISORSE
zo 1862. Era un fiorentino puro; e pareva una
figura etrusca scappata via da un'urna di Volterra
o di Chiusi, con la persona tutta ad angoli, ma
senza pancia, e con due occhi di fijoco: io lo aveva
conosciuto a scuola di retorica, ridondante ed
esondante di guerrazziana fierezza. Poi, andato
per raccomandazioni di Pietro Thouar in Roma-
gna e proprio in Faenza maestro nella famiglia
di certi signori, vi si era convertito a un classi-
cismo rigidamente strocchiano; che, di ritorno
dopo tre anni in Firenze e praticando il Chiarini
e Ottaviano Targioni Tozzetti, aveva fortificato
con una cresima leopardiana e giordaniana. Ma
un classico, come s' intendeva allora, doveva es-
sere anche moderato, molto moderato, in politica;
e in questa, almeno quei primi anni, il Gargani
aveva serbato le memorie e le tradizioni del '49;
era un romantico-guerrazziano-mazziniano, arrab-
biato, intransigente, antropofago. E, tale pur es-
sendo, aveva V anno innanzi scagliato, scandalo
a tutta Firenze, una diceria su i poeti odiernissimi)
e traduceva nel più bello stile i sermoni di non
so quale abbate francese, li traduceva, con dili-
genza squisita anche di scrittura, in servigio d'un
prete amico suo che li predicasse; metteva insieme,
con la stessa diligenza di giudizio e di studio, e
sempre trascrivendo tutto nettamente co '1 suo bel
caratterino di erudito del settecento, una scelta di
lettere per un editore che né gliela stampò né
gliela pagò; componeva a cinquantine sonetti
r
DI SAN MINIATO AL TEDESCO. 25
amorosi in stile tra petrarchesco e foscolo-leo-
pardìano; e lavorava co'l Targioni all'edizione del
Volgarizzamento d^ Esopo per uno da Siena, del
quale scoprirono essi primi un più bel testo nella
Mediceo-laurenziana. A quegli anni s' era comin-
ciato in Toscana a dar fuori i testi classici con
miglior metodo critico che non usassero i vecchi
accademici e i nuovi mestieranti empirici; e di
tale miglioramento resta saggio pregevolissimo
r Esopo senese curato dal Targioni e dal Gar-
gani, pur cosi incompiuto come nel 1864 fu pub-
blicato dal Le Monnier. Io era qualche volta te-
stimone dei dotti e amorosi studi onde quei cari e
rari amici proseguivano il lavoro pe' sollioni fio-
rentini concentrati nella Laurenziana e per le notti
gelide e serene vegliate nella casa del Targioni^
in via san Sebastiano, non lungi al cenacolo guelfo
del buon marchese Gino. Né si limitavano quegli
studi a Firenze : non s' era, sto per dire, più si-
curi di movere un passo per un cantuccio di To-
scana, senza il pericolo di trovarsi davanti il Gar-
gani e il Targioni in caccia del gobbo frigio. Non
posso contare qui le mille bizzarrie delle quali
intramezzavano e rallegravano la loro esopiana
filologia. Basti dire che avevano mandati a me-
moria tutti i testi diversi, e il Gargani s' era in-
caponito a parlare da mattina a sera, a qualunque
proposito e in qualunque occorrenza, credo anche
di notte sognando, la lingua esopiana. E non ba-
sta. Bisognava vederlo e udirlo, Giuseppe Tor-
26 LE RISORSE
quato^ il quale nel suo catoniano classicismo aveva
ore d' irrefrenabile e sfrenata mattia, a far la mi-
mica della rana quando " si spogliò il sottano, e
tràssesi i calzari; e fermò i piedi in terra, e pò-
sesi le mani alle ginocchia; e istrinse i denti; e
levò il capo al cielo e gonfiò con tanta iniquità
alla terza volta; che le budella sue vanno per terra
et è crepata „. Cotale mimica egli eseguiva, par-
lando e atteggiando la sua etrusca figura in tutti
i modi più icastici e realistici; nella grande aula
michelangiolesca della Laurenziana; dopo che il
prefetto Crisostomo Ferrucci si fosse ritirato nelle
stanze di dietro. Che cosa di quelle scene pen-
sassero gli spiriti degli umanisti del quattrocento
e dei filologi del cinquecento imprigionati ne' vec-
chi codici; io non so : ma; sentendo il dirugginio
delle catene tra i plutei medicei, imaginavo e
credo fossero essi che digrignassero i denti per
dispetto e invidia di quella allegrezza onde noi
giovani celebravamo la filologia. Qualche tedesco,
che stava in disparte raffrontando testi d' Aristo-
fane; guardava e ammirava stupito e sospettoso,,
non fosse un qualche fantasma del commediografo
antico che gli si oggettivasse in una capricciosità
grottesca del rinascimento toscano.
Con tutto questo il Gargani era; ripetO; un re-
pubblicano di rigida osservanza; un puritano fe-
roce: il Nencioni lo disegnò più tardi per il Ma-
rat degli Amici pedanti. Io, allora neir apogeo del
classicismo greco-romano, non ammiravo gran
. DI SAN MINIATO AL TEDESCO. 27
fatto la eloquenza polìtica moderna e ammiravo
anche meno la poesia della rivoluzione. Onde, una
di quelle notti che, dormenti già gli amici nella
Torre bianca, io e il Gargani passavamo alla cam-
pagna tacitae per amica silentia hmae, seduto in
riva a uno stagno da cui saliva qualche borbottio
di ranocchi alla luna serena, inspirato dalla circo-
stanza e dai discorsi dell'amico, mi feci un tratto
a improvvisargli la epopea delle ranocchie, be-
stiole, del resto, che per amore d' Esopo gli do-
veano esser care. \J improvvisazione durò due
ore almeno : T amico, appoggiato a un pioppo,
ascoltava, ridendo d' un suo cotal riso un po'sten-
terellesco. C era nella epopea un' allocuzione tri*
bunizia del Gargani, stanco dell'aspettare e dispe-
rato del veder mai una rivoluzione in Firenze, ai
ranocchi dell' Arno : decasillabi. C' era la repub-
blica delle ranocchie, capitano del popolo Tor-
quato Gargani : versi sciolti. C' era la ribellione
delle cittadine gracidanti contro il Gargani fattosi
tiranno: marsigliese delle ranocchie: cominciava,
O figlie del pantan,
Marciam marciam marciara
Contro il tiranno uman,
Il capitan Gargan!
Le ranocchie pigliavano il Gargani, lo conse-
gnavano mani e piedi legato ai poeti odiernis'
simi loro nuovi alleati. Non ricordo poi come
finisse.
28 LE RISORSE
Qualche sera riaccompagnavo io il Gargani a
Firenze. Arrivati, passeggiavamo tutta notte di-
scutendo e questionando di edizioni critiche, del
Poliziano e di Esopo, e della monarchia e della
repubblica nella prossima rivoluzione. Cosi face-
vamo giorno. Quando il sole avea ridestato i co-
lori i rumori ef gli odori della vita in Mercato
vecchio, il Gargani sentenziava serio serio : A chi
vegliò tutta notte in solenni meditazioni confe-
risce alla mattina un galletto arrosto E cosi
s* entrava da Gigi. Come si soprannominasse Gigi
non lo dirò io : certa volta non so se un burlone
o r ordinanza d* un ufficiai piemontese s' affacciò
alla sua inclita cucina, dimandando : Sta qui Gigi
Porco ? — ET oste fiorentino, che non intendeva
partecipare, né men per procuratore, la gentilizia
genealogia di Cuccio Imbratta — Gigi son io, e
il porco sarà lei. — A noi Gigi si faceva innanzi
con la sua faccia di ciompo da bene e co *1 grem-
bialone, e — Che desiderano questi signori? —
Un galletto arrosto. — Segni di meraviglia, con
sùbita cortesia repressi. — Per V appunto èccone
qui uno fresco fresco e di primo canto, come un
abatino del domo. — E la bianca tovaglia era
distesa su '1 desco nero, e sopra vi troneggiava
r amabile sovranità del fiasco, e il nidore dell'ar-
rosto salia riempiendo di promesse la stanza e
confortando a noi i muscoli un po' rilassati dal-
l' umidor della notte. E mangiavamo il galletto, e
bevevamo del fiasco; e dopo le otto ci lasciavamo,
DI SAN MINIATO AL TEDESCO. 29
il Gargani avviandosi, con un inquieto can levriere
in guinzaglio, per 1' Esopo, e io alla stazione per
a San Miniato.
Domani è il giorno de' morti. O amico che
giaci muto e freddo nella fossa di Romagna, a te
certo non spiace che io rinno velli ancora per un
poco la memoria delle nostre belle estati fiorentine.
IV.
Un* altra risorsa, e questa un pò* più perico-
losa : m' innamorai.
Non si spaventino i lettori e non protendano
le braccia per deprecare dalle loro teste i nembi
di fiori o la grandinata di frasi o la pioggia la-
pidea di concetti che sogliono portare con sé le
meteore dell' amore ogni qual volta movano dalla
plaga della poesia.
Io, quando m' innamorai a San Miniato, gustai
la prima volta e sentii profondamente, e sento
ancora nel cuore, la segreta dolcezza e la soave
infinita malinconia del canto del cuculo.
Salute, o prediletto
Figlio di primavera! al mio pensiero
Augel non già, ma obietto
Invisibile, e suon vago, e mistero.
(WoRDswoRTH, tvad. di G. Chiarini).
Ohimè quanto chiasso e quanti sdilinquimenti
di tutti i poeti, fin turchi, per quel frinfrino di
scambietti vocali, per quel tenorino virtuoso de' bo-
3© LE RISORSE
schi; per quel flautetto e organetto pennutO; che
è r usignolo. E invece si vuol dare mala voce
al cuculo, perché la sua femmina depone e ab-
bandona le uova nel nido degli altri uccelli. Po-
veretta! e se ella fosse conformata a generare
soltanto e non a covare? A ogni modo non è lei
che canta, è il maschio. Egli viene alle nostre terre
nei novelli giorni d' aprile, e annunzia primo ai
campi ed agli alberi il rinascimento dei fiori e
r arrivo degli altri uccelli canterini, annunzia ai
giovani e alle fanciulle le belle sere della gioia,
dei balli e degli amori. Egli per sé non ne gode;
e, quando gli altri uccelli accorrono cinguettando
cianciando schiamazzando, si ritira in un albero
fosco o tra le ruine fiorite d' un vecchio edifizio,
e di là manda al sole e alle stelle i suoi sospiri
e i singhiozzi.
Il mio cuculo cantava dalla ròcca che Fede-
rigo II inalzò in vetta al colle di San Miniato,
e par che àncora minacci come labarda levata il
guelfo Valdarno. E forse a' bei giorni di casa sveva
i re Arrigo ed Enzo cantavano lassù in giovini
rime i loro amori:
Salutami Toscana,
Quella ched è sovrana,
In cui' regna tutta cortesìa.
E lassù dicono finisse, battendo della testa nei ma-
cigni della prigione, " ingiusto contro sé giusto „,
il cancelliere imperiale Pier della Vigna, primo
poeta d' arte nella lirica nuova italiana. E di lassù
DI SAN MINIATO AL TEDESCO. 31
cantava a me, anzi al cielo e alle stelle, nelle
sere di maggiO; il cuculo; e il mio cuore o da
una pagina di Virgilio o da un sentierello fiorito
€ illuminato dalla luna batteva e diffondeva e
sprigionava, negli intervalli tra un sospiro e 1' al-
tro dello strano uccello, un palpito, un pensiero
ed un lampo. — Cu — Sei tu la voce dell* amore
onde natura risponde consentendo ai sensi delle
sue emanazioni? — Cti — O sei la voce della
ironia che ella manda su '1 mistero dell' essere
nunzia della distruzione? —Cu — Che cosa è
r amore, o savio uccello? Bene o male? Sale egli
dalla terra a farsi stella, o cala dal cielo a farsi
verme? — Cu — Quanto dura la fede e la gioia
dell' amore, profeta uccello ? Dura ella la fede
quanto il fiorir della rosa e quanto lo schianto
del fulmine la gioia? — Cu — E quanto durerà
r amor mio, o uccello indovino ? — Cu, cu, cu,
cu, cu....
Io a questo punto non ricordai che le fanciulle
svedesi, dimandando al cuculo quanti anni ancora
han da passare prima eh' elle si maritino, se l' uc-
cello nella risposta ripete un dopo l'altro troppo
spesso i suoi versi, si danno a credere sveltamente
che allora egli. posi sur un albero magico e non
dica più il vero, ma faccia la burletta. E anche non
m'accòrsi che quel cuculo (or ora quasi mi pento
del bene che gli ho voluto e gli voglio) mi man-
dava il suo verso dalla parte di tramontana; che,
secondo il popolo svedese, è fatale annunzio di
32 LE RISORSE
tristezza e dolore per tutta la vita. E anche non
pensai che mentre il cuculo cantava io non avevo
in tasca né meno un soldo, e quando ciò avviene,
egli è segno, sempre secondo la saviezza svedese,
che quel pover uomo a cui tócca si troverà per
tutta la vita ad averne in tasca pochi o punti.
Pare impossibile ! ma quanto è savio e come ben
s'appone cotesto popolo che segui quel matto di
Carlo XII nelle sue corse a rotta di collo!
Cu, cu, cu, cu, cu. Io credeva dunque il cu-
culo mi avesse annunziato che V amor mio dure-
rebbe cinque anni. Mi parevano pochi, sciaurato
eh* io era! E non durò cinque giorni. — Tornavo
canterellando dentro V anima innamorata due bel-
lissimi versi del cancelliere imperiale, che la voce
del cuculo sonante in una odorosa sera di maggio
dalla torre della di lui morte mi aveva risuscitato
neHa memoria,
Oh potess' io venire a vo', amorosa,
Come il ladrone ascoso, e non paresse!
quando, rimesso il piede in città, mi abbattei nel
giovine marito — pancia precoce — della sorella
dell' amor mio. Mi entrò a parlare di molte cose,
e, tra le molte, anche della famiglia di.... Non
sarà mai che abbandoni alla stretta villana del
torchio il caro nome:
Ogni donna
Cosi nomata mi parca gentile:
DI SAN MINIATO AL TEDESCO. 33
mi pareva e mi pare. — Di' — interpellò la gio-
vine pancia — non ti sembra che la.... abbia il
collo un po' lungo? Dubito eh' eli' abbia a vivere
poco. — Oh — feci io, e non seppi . dire altro;
tanto quelle villane parole scesero a ferirmi come
un pugno su 1' epigastro. La dimane ricevei una
lettera secca secca: era la madre della.... che m' in-
vitava a interrompere le visite alla casa. E seppi
come le avessero dato a credere che io aspirassi
alla dote della figliuola con espressa speranza
della vicina morte di lei. Ah! — La giovine pan-
cia indi a un anno mori; e al solito fui pregato di
fargli r epitafio. Della mia bruna ebbi notizia, or
fa tre o quattr' anni, che ella viveva moglie di
un procuratore del re o d' un sostituto. O bruna
dai lunghi sguardi vellutati (o mi pareva)!
Oh se nel grembo a un'isola
O in un remoto speco
Chi die la vita agli angeli
Ti facea nascer meco!
Mi ricordo che ella diceva assai graziosamente
cotesti versi del Prati, i quali in altra, bocca mi
sarebbero di certo parsi detestabili. E la figura
di lei mi rifiorisce in mente quando leggo il
principio dell' Annunziazione di Olindo Guerrini;
se non che, ricordo bene, non ci era gran
materia ai paragoni co '1 " grano su i colli di Sa-
maria „.
Ma la storia del mio amore vuole anche un' ap-
pendice. Due o tre giorni dopo il congedo mi si
Carducci. 4. 3
34 LE RISORSE
fa innanzi uno dell' allegra brigata, e — Pinini, —
mi dice — so che hai rotto con.... Vuoi tu spo-
sare....? — E qui il nome d* una sua sorella; e poi
una minuta esposizione dei pregi, dei meriti, dei
titoli e degli appannaggi di quella signorina.
E mi ci volle del buono e del bello per riman-
darlo, non dico persuaso, ma addolorato, stupito
e stizzito che non avessi né voglia né bisogno di
mogli o di doti.
D* allora in poi T amore mi fu infausto. Le donne
per bene che si frapposero alla mia vita mi reca-
rono sempre disgrazia; quando non sanno che
altro dolore darmi o che altro dispetto farmi,
muoiono.
Oh cuculo di San Miniato, chi mi avesse detto
che tu cantavi da tramontana!
V.
Le risorse un po' per volta erano cresciute al
punto che Trombino e io non sapevamo più
(Pietro faceva cassa da sé) come riparare alla
abondanza. I mesi passavano arrecando dalla
parte di Dio foglie fiori e frutti alle colline ed
ai piani, ma non dalla parte nostra quattrini alle
tasche di Afrodisio: le liste del Micheletti cre-
scevano alte come i gigli nella convalle di Ge-
rico, ma non parimente candide. E con novanta
maledette lire codine al mese come seminare
DI SAN MINIATO AL TEDESCO. 35
quella rabbiosa aridità e come falciare questa lus-
suriosa vegetazione?
Una mattina Trombino mi entra tutto serio in
camera; e, senza preamboli, — Stampiamo le tue
poesie. —
Restai male. Dare qualche sonetto o canzo-
netta a un giornale o ad un almanacco di città
che nella sua modestia mi assicurasse con lo
spettacolo dell' io tipografato la discrezione del
segreto, dare un' ode o una laude spirituale in
fogli volanti per una festa di campagnoli che
non ne capissero sillaba, passi. Ma raccogliere ed
esporre io le mie poesie in un libretto a prezzo
come in un bordello, e abbandonarle ai contatti
del pubblico che le mantrugiasse e stazzonasse
come ragazze a cinque o a tre paoli, ohimè! Le
poesie, massime allora, io le faceva proprio per
me: per me era de' rarissimi piaceri della mia
gioventù gittare a pezzi e brani in furia il mio
pensiero o il sentimento nella materia della lingua
e nei canali del verso, formarlo in abozzo e poi
prendermelo su di quando in quando, e darvi
della lima o della stecca dentro e addosso rabbio-
samente. Qualche volta andava tutto in bricioli:
tanto meglio. Qualche volta resisteva; e io vi tor-
navo intorno a sbalzi, come un orsacchio rabbo-
nito; e mi v' indugiavo sopra brontolando, e non
mi risolvevo a finire. Finire era per me cessazione
di godimento, e, come avevo pur bisogno di go-
dere un poco anch' io, cosi non finivo mai nulla.
36 LE RISORSE
Dunque a Trombino aspettante, e che pur ta-
cendo parlava, dissi di no. Egli se ne andò, scrol-
lando la testa.
Ma Afrodisio, con la sua ruvida cera d' oste
tassoniano, fiottava da settentrione; il Micheletti,
con la ben rasa . pulitezza di un caffettiere gol-
doniano, poggiava da mezzogiorno; il Ristori
tipografo piccoletto, bruno e vivo come un bel
topolino, messo su da Trombino, offeriva un* edi-
zione economica e trattamento d' amico. Trom-
bino la vinse.
Cosi avvenne che ai 23 luglio del. 1857 le mie
rime uscissero alla luce del pubblico in San Mi-
niato al Tedesco pe' i tipi del Ristori, veterani
gloriosi dell' impressione, tanti anni a dietro com-
piuta, del Cadmo, poema di Pietro BagnoH. E ora
resta in sodo che io le diedi a stampare non
co'l superbo intendimento di aprire una via nuova
o di riaprire una via ve,cchia e né meno con
la modesta speranza d' incoraggiamenti da parte
del pubblico italiano, ma coli' intendimento onesto
e r ardita speranza di pagare i miei debiti.
Altro che ardita! sfacciata dovevo dire. Ma,
da poi che 1' amico fu sergente a San Martino e
al Volturno, e ora che è preside d'un liceo con
un barbone di quasi mosaica rispettabilità, posso
anche dire e giurare che la colpa fu tutta di
Trombino. La espiammo. I debiti, anzi che estin-
guere, dilagarono. Una mattina d' agosto dovemmo
fuggire di celato dalla Torre bianca. Afrodisio
DI SAN MINIATO AL TEDESCO. 37
c' inseguì in carrettella, il Micheletti per la posta.
Trombino tornò, io non tornai: ambedue; grazie
ai babbi e alle mamme, pagammo fino a un soldo.
E le Rime rimasero esposte ai compatimenti di
Francesco Silvio Orlandini, ai disprezzi di Paolo
Emiliani Giudici, agF insulti di Pietro Fanfani.
Ma oh come strillavano le cicale su la collina
di San Miniato nel luglio del 1857!
PREFAZIONI
Dal Libro delle prefazioni,
Città di Castello, Lapi, 1888.
ELL* idea venuta agli scrittori del
Capitan Fracassa di raccogliere
in librò alcune delle prefazioni che
óV -^ «'^^iV O io feci in gioventù per la Biblioteca
detta diamante di G. Barbèra, giudicheranno gli
associati di esso giornale, ai quali il libro è man-
dato in dono. E se, come temo, si annoieranno
alla lettura, non se la piglino, ne li prego, con
me, ma un po' coi signori del Fracassa, i quali,
secondo il solito degli amici, mi avran fatto fare
uno sproposito, e un po' più con un giornale
letterario di Torino, il quale un bel giorno si
mise a ristampare fresca fresca co' suoi venti-
cinque anni a dosso la prefazione alle Rime di
Gino da Pistoia. Il che, se può essere un segno
della disperazione a cui son venuti i giornali che
si ostinano a voler divertire il pubblico in Italia,
a me fu segno anche d' altro, che non vo' dire.
42 PREFAZIONI.
Del riprodurre quel mio scritto quel giornale non
si era degnato chiedere il permesso a me, ma a
chi non ci aveva, ch'io sappia, diritto; e veniva
poi inibendo a me e a chiunque la riproduzione
di esso scritto e di altri suoi simili. La cosa era
tanto lèpida, che io, incerto fino allora, mandai
sùbito a dire agli amici del Capitan Fracassa
raccogliessero pure in volume le prefazioni alle
Rime di Gino e d' altri del secolo decimo-
quarto, alle Poesie di Lorenzo de' Medici, alla
Secchia rapita di Alessandro Tassoni, alle
Satire di Salvator Rosa, ai Poeti erotici e
a' Poeti lirici del secolo decimottavo.
Delle quali ora, poi che il Capitan Fracassa
vuole una prefazione anche a un libro di prefa-
zioni, dirò quel tanto che può tornare in men
biasimo di me e di esse. È naturale.
IL
Nel 1858, lasciato d' insegnar retorica al ser-
vizio del comune di San Miniato e non avendo
speranza che il governo granducale mi lasciasse
egli insegnare più altro, mi ridussi a vivere con
la famiglia in Firenze. E se dovessi dire oggi
come vivessi, mi troverei imbrogliato: delle volte,
pare, non più d' una volta forse, a certe età, si
vive anche di nulla. Il Barbèra, allora in compa-
gnia di Celestino Bianchi, aveva avviato una bi-
bliotechina, come dicevano i fiorentini che diminuì-
PREFAZIONI. 43
scono tutto, di classici; e mi offerse di lavorargli.
Io dovevo curare la correzione filologica e tipo-
grafica del testo, annotare dove occorresse, far le
prefazioni: egli mi dava cento lire toscane per
tomo. Era giusto: il nome mio non aggiungeva
pregio o curiosità ai volumetti, i quali andavano
da sé per la novità del formato e la bellezza della
stampa. E per questo, e perché in quegli anni ad
altro e' era da pensare che alla letteratura, nes-
suno badava all' opera mia : né anche uno straccio
d' annunzio in qualche giornale. Potevo tirar via,
come molti mi consigliavano, e cavarmela con
due paginette di prefazione. Avrei guadagnato
più presto e di più. Io, no. La vocazione che mi
sentivo a scrivere volli consacrare con la ostina-
zione a dover far sempre meglio, o almeno il
più che io potessi. A tale rispetto per 1' arte, o
meglio per V officio dello scrivere, non so di es-
ser venuto meno mai : né v' è cosa che più m' of-
fenda del sentirmi schiaffar su '1 viso proposizioni
come queste — Qualunque cosa, pur che sia, ci
basta — . Ah, signori miei: se basta a voi, non
basta a me.
III.
Le Satire e poesie minori di Vittorio Al-
fieri furono il mio primo lavoro : imparaticcio mal
fatto. Meglio, intorno la Secchia rapita: quella
prefazione veggo ancora citata e seguito il testo in
44 PREFAZIONI.
recenti lavori da professori e giovani valentissimi.
Misi poi insieme le Poesie liriche di Vincenzo
Monti, e fu la prima edizione ordinata e intiera,
per avervi io raccolto i versi dei tempi repub-
blicani: che dette al naso alla polizia granducale;
onde il Barbèra a me — Badi, che la raccolta
r ha fatta Lei — ed io — S' intende.
Con più fatica fu condotta su' primi del '59
l'edizione delle Poesie di Lorenzo de' Medici; e
usci pochi giorni prima del famoso 27 aprile, che
mutò il governo in Toscana. Il granduca Leo-
poldo II, tornando da una passeggiata, credo
l'ultima, a Fortezza da basso, fece fermare la
carrozza innanzi alla tipografia del Barbèra a
comperare quel Medici. Pover'uomo: a sua cura
e spesa egli ne aveva fatto nel 1825 un' edizione
magnifica; della . quale io non dissi bene a ba-
stanza, perché egli era il granduca. Lavorando
intorno a Lorenzo, scrivevo a pezzi e brani la
canzone a Vittorio Emanuele. Ma nella prefazione
medicea non una scintilla dell' ardore che avvam-
pava tutto e tutti. Intesi anzi a scagionare quanto
potevo il Magnifico, e, contro le idee allora do-
minanti, a gittare i semi delle idee mie intorno alla
significazione e al valore del Quattrocento e del
Rinascimento, idee che poi svolsi in rime e prose
audaci anche troppo.
Il nuovo governo toscano co '1 nuovo anno
1860 mi avea mandato a insegnare greco e latino
nel liceo di Pistoia. E li, tra la tempesta eroica
PREFAZIONI. 45
di quella estate, annotai le Satire di Salvator Rosa
e le fornii d' una prefezione, la più elegante, acca-
demicamente parlando, delle mie prose; per am-
menda, quasi, della foga retorica onde sbrigliavo
la corale ardenza della democrazia cosmopolitica
neir ode Sicilia e la rivoluzione) che fu poesia
molto gustata da Giuseppe Civinini, tornante al-
lora in Toscana per aiuti alle geste del dit-
tatore.
Dopo di che un colpo di vento, mosso dalla
gran bontà di Terenzio Mamiani, mi lanciò,
senza mio merito ed aspettazione, nelF Univer-
sità di Bologna.
IV.
E ora, prima di passare alla mia seconda sta-
gion letteraria, un po' di risposta a chi mi do-
manda come pervenissi a compormi 1' esemplare
della mia prosa, qualunque siasi.
Ci vuol poco: co' i classici. Premetto che in
prosa specialmente io sono, come dicono i pe-
danti novatori, autodidattico. E confesso che mi
giovò di molto r esser cresciuto e ingiovanito
alla campagna, dove il popolo toscano parla
meglio, con purezza vigorosa di vocaboli, con
agilità elegante di scorci nella sintassi. Venuto
a città e a scuola, la natività non mi sarebbe ba-
stata più; perché la scuola in Toscana guasta
tutto; la scuola, e, nelle città, la presuntuosa tra-
4-6 PREFAZIONI.
scuraggine ciompa e T infranciosamento da par-
rucchieri. Non so come mi si rivelasse il trecento:
certo non me lo appresero né mio padre né i miei
maestri o i compagni di scuola, ai quali parca
barbarie. Il fatto è che a un tratto" mi sorpresi
innamorato dei trecentisti, non perché testi di
lingua vecchia, ma perché testimoni dell' uso vivo
d' un popolo giovine, forte, libero, quando aveva
ingegno, fantasia, passione, e veracità e dignità,
come non ebbe più mai. Pochi, credo, han letto
più di me del trecento; ma non usai fare estratti
di frasi, si la lingua di quegli scriventi compa-
rare per un lato a quella che parlavo io e sen-
tivo o mi ricordavo aver sentito parlare da' buoni,
e per un altro alla prosa del settecento, la più
vii prosa che schiavi abbiano mai scritto al mondo:
cosi per una parte stralciavo il fogliame morto,
per r altra godevo meglio il profumo di quella
fresca verdezza. E a grado a grado che seppi
il francese, lessi di francese molto; mirando alla
nettezza e perspicuità della rappresentazione, ma
sempre raffrontando in mente o riportando co '1
pensiero al toscano del trecento. Giovanotto, all'uni-
versità, traducevo, scrivendo, quanto potevo più
di Cicerone, di Sallustio, di Tacito, con atten-
zione al legamento logico degl' incisi, dei membri,
dei periodi, e i periodi affaticandomi a ripensare
in volgare elegante. Ragazzo, in campagna, avevo
letto sette volte i Promessi Sposi per la gran
vaghezza di quel racconto, ma saltando più d' una
PREFAZIONI. 47
volta le gride e la pèste. Poi lessi e rilessi il Botta,
il Foscolo, il Giordani; il Leopardi, il Tommaseo ;
più tardi; mi addomesticai con i cinquecentisti, gu-
stando meglio i fiorentini. Sentire, del resto, volli
sempre a modo mio; e il sentimento curai espri-
mere con la più decente schiettezza; intiero ed
integro, qual mi si era formato dentro, il pensiero,
non dimezzato e a un di presso, e, per poltro-
neria o impotenza o paura, di profilo. Non mi
piaceva la prosa del Gioberti, cercante con an-
siosa facondia le apparenze classiche in alluvioni
di periodi neologici; né del Guerrazzi, che im-
mette il Byron nel Guicciardini, e innesta il bi-
blico al dialetto livornese, e aggioga sotto reto-
rica le capestrerie romantiche ai riboboli di Mer-
cato Vecchio.
Ora leggo i dizionari. E credo che i manzo-
niani ridurrebbero T Italia ad armeggiare nella
prosa»con cinquecento vocaboli e uno stile, a quel
modo che i cinesi mangiano il riso con uno
stecchino.
V.
Ritorniamo alle prefazioni, in fretta.
Quella alle Rime di Gino e d'altri del se-
colo decimoquarto fu scritta ne' primi anni del mio
professorato. Allora mi levavo, anche nel gennaio,
la mattina alle tre per prepararmi a trattar del
Petrarca dinanzi a scolari dilettanti, che non lo vo-
48 PREFAZIONI.
levano e non lo potevano capire; ma di quella noia
mi rifacevo la sera attaccando lite con questo e
quello per il generale Garibaldi; eravamo presso
Aspromonte. Tra i quali due esercizi facevo an-
che il terzo, studiare, come si vede, le rime del
trecento. La prefazione, incerta nello stile, mostra
più ineguaglianze ancora e difetti nella tratta-
zione letteraria; ma la vedo citata anche oggi
con qualche onore, le distinzioni di certe scuole
e maniere paiono essere state accolte, e alcuni
rimatori, che designai, furono poi, a tempi più
tranquilli e comodi, studiati pubblicati e illustrati,
come dicono, ampiamente.
I due discorsi, della poesia melica e della
lirica classica nel secolo decimottavo, come i
volumetti di scelte ai quali appartengono, e come la
raccolta di Cantilene e ballate, furono degU
anni 1868 e 1870, il tempo, per me, dei Giambi
ed epodi. Chiedo giustizia. Ero, parmi, calmo
assai nel lavoro e sereno nella critica storica.
Per r opera artistica e politica mia, è un altro
conto: non solo volevo, ma dovevo combattere.
RACCOGLIMENTI
Carducci. 4.
Prefazione alle Poesie di G. C,
Firenze, Barbèra, 1871:
in Confessioni e Battaglie di G, C, 1.* serie
Roma, Sommaruffa, 1882.
RELUDERE in prosa a' miei versi,
confesso che non mi piace: primo,
perché in arte è una sconcordanza,
né degh antichi poeti lo fecero,
eh' io ricordi, se non alcuni delle età scadenti.
Stazio ed Ausonio: secondo, perché, se possi-
bilmente, per le nobili ragioni esposte nel Con-
vito da Dante, è da fuggire il parlar di sé, tanto
più par da fuggire quando inutile. Con tutto ciò
oggigiorno e gli editori desiderano e i lettori si
aspettano che i poeti, o i rimatori, si presentino,
su la soglia dell' opera loro, nell' umile prosa. Il
che scappò detto certa volta ad Arrigo Heine
potesse avvenire per questo, che troppe bugie
fossero state spacciate in bei versi e la^ verità
quindi innanzi aborrisse dal mostrarsi in vesta
metrica; e non fu sentenza degna di quell' argu-
tissimo ingegno: troppe bieche e stupide bugie.
52 RACCOGLIMENTI.
troppe corbellerie più legittime che non quelle per
le quali il cardinale facea le meraviglie con Ludo-
vico Ariosto, si spacciano allegramente in prosa,
e qual prosa!, a ogni momento, nei parlamenti,
dalle cattedre, pe' giornali e i libri. Per quel che
tócca a' poeti, anche ad essi da un pezzo in qua
piace fare da portinai e dimostratori; e di alcuni
come Giovan Battista Marini e Vittore Hugo,
s* intende; che V uno si cre'dé, e 1' altro è, intro-
duttore di modi nuovi nelF arte della propria na-
zione. Ma io, per esempio, che cosa ho da dire
di nuovo o d' importante ?
Dirò, per dire qualcosa, che non avrei mai
creduto che
il dolce paese
Di Toscana gentile
Dove '1 bel fior si vede d' ogni mese
potesse produrre tante mele fracide quante dalle
mani de' miei concittadini me rie piovvero ad-
dosso nel 1857, quando pubblicai la prima volta
quelle rime che, togliendo e aggiungendo poco,
raccolgo ora novamente e da sé in principio di
questo volume sotto la intitolazione di Juvenilia.
Tutti si accordavano nell' accusarmi d' idolatria
per r antichità e per la forma : pur taluno avrebbe
usato misericordia all' aristocrazia del mio stile,
se gì' inni a Febo Apolline e le odi a Diana Tri-
via non fossero apparsi in tanto folgorare di bello
cristiano veri e propri peccati. I giornali teatrali
poi si detter faccenda per insegnarmi la lingua:
RACCOGLIMENTI. 53
un maestro di scuola che aveva dell' autorità in
critica sbalordi la gente empiendo mezza una pa-
gina del novero di tutt' i classici da me imitati;
tra i quali Pindaro eh' io aveva cosi imitato co-
m' egli letto: un sopracciò dei modi di lingua^
autore di scritti lepidi che egli chiama, non si
sa perché; capricciosi; per certi versi sciolti nei
quali ei pretendeva eh' io scimmieggiassi i greci;
mi paragonò; parmi; ad Arlecchino: un terzo,
molto affocato per la congregazione di san Vin-
cenzio di Paola e scrittore di strofette religiose
che dell' evangelio avevano l' umiltà e gli et, si
affaticava a persuadermi come l'uomo anche in
poesia conviene mostrarsi qual è; né più né meno:
e io ne sarei andato d' accordO; ove non ci fosse
stata di mezzo una difficoltà; eh' ei voleva eh' io
mi mostrassi qual era lui: un quartO; critico e
storico molto riputato; affermava tra amici che
quel libretto accusava il difetto assoluto d' ogni
possibile facoltà poetica nell' autore.
Io seguitai. Non che non riconoscessi quella
parte di vero che in alcuna di quelle critiche
era; non che non sentissi quel che mancava a
me di forze, di nutrimento; di esercizio; quel
che a' miei versi mancava di omogeneo; di de-
terminato; di soHdo: le idee artistiche erano con-
fuse o monche; ma gli intendimenti fermi e puro
r affetto. Un amico mio temperatissimo disse ul-
timamente che quel libretto fu anch' esso un gio-
vanil tentativo di reazione contro la teologia che
54 RACCOGLIMENTI.
allora allagava in Toscana le lettere: avrei più
largamente detto, contro la beghineria non pur
religiosa ma intellettuale del decennio innanzi
al '6o; contro quella nullaggine faccendiera che
gravava con tutto il peso della vanità sua su ^1
paese, contro quella spolpata frollaggine rimessa
in ghingheri liberali che guastò, e guasta ancora,
tra noi V arte e il pensiero ; le quali potenze tutte
{ che potenze sono pe '1 codardo assentimento e
per r infingardaggine dei più ) congiuravano, e
congiurano tuttavia sotto altri colori e con nuovi
alleati, contro i principianti arditi che non vo-
^lion pagare il pedaggio della viltà e contro gli
spiriti liberi che non vogliono fare a mezzo. Io
poi mi sento di natura mia inclinato alla oppo-
sizione, anche in letteratura: nelle maggioranze
sono un pesce fuor d' acqua. Nel '59, per esem-
pio, mi trovai d' accordo, come doveva, coi più
per il plebiscito e T unità; e feci de' Adersi. Per
dir meglio, ne composi sin dal decembre del '58,
coi quali consigliava il re a gittar la corona
oltre Po, a farsi tribuno armato della rivoluzione
italiana e sciogHere il vóto nazionale in Roma:
-allora nella piccola Toscana che pensassero al-
l'unità e a Roma eravamo pochi rompicolli, i
quali volevano precipitar le cose a rovina. Quei
versi li ristamperei, se fossimo in repubblica; ora
non lo fo, per più ragioni degne, e anche perché
sono de' miei peggiori : troppo rassomigUano alla
rimeria politica di quei tempi; declamazioni con-
RACCOGLIMENTI. 55
suetudinarie, fantasie per enumerazione^ imagiiiì a
mo' di comparse d' un ballo allegorico, e sópravi
una gran mano di biacca; come quelle rappre-
sentazioni colorate di battaglie e di miracoli che
-si vendono su le fiere de' villaggi, dove tutte le
figure stanno V una dopo V altra con le braccia
levate e il mostaccino tondo e carminiato e con
grande sfoggio di rosso di turchino e di giallo ne-
gli abiti. E pure poco ci mancò che per qualche
tempo non riuscissi in Toscana il poeta laureato
dell' opinione pubblica divenuta poi unitaria.
Quando ci ripenso, mi si accappona la pelle.
La scampai; e, per liberarmi da ogni tenta-,
^ione, presi un bagno freddo di filologia e mi
ravvolsi nel lenzuolo funerario della erudizione.
Mi era dolce, in quel grande anfanare di vita
nuova, immedesimarmi con le ombre incappuc-
ciate del secolo decimoquarto e decimoquinto.
E costeggiai il mare morto del medio evo, per
•entro le cui acque plumbee si scorgono ancora
le ruine della città del passato: e i fiori azzurri
della poesia romantica che velano lo sdrucciolo
delle rive non m' inebriarono di estenuazione;
còlti, come quei della leggenda ei tornano in ce-
nere: né mi ammaliarono i grandi occhi vitrei
della Circe mistica che balenano fissi di fondo
al baratro. Studiavo al tempo stesso, per con-
verso, il movimento della rivoluzione nella sto-
ria e nella letteratura. Onde si manifestava in
me a mano a mano non una innovazione ma una
56 RACCOGLIMENTI.
esplicazione che mi meravigliava e mi confor-
tava. Quanto piacqui a me stesso (perdonatemi)
quando mi accorsi che la mia ostinazione clas-
sica era giusta avversione alla reazion letteraria
e filosofica del 1815, e potei ragionarla con le
dottrine e gli esempi di tanti illustri pensatori
ed artisti! quando sentii che i miei peccati di
paganesimo li avevano già commessi, ma di quale
altra splendida guisa!, molti de' più nobili inge-
gni e animi d' Europa ; che questo paganesimo,
questo culto della forma, altro in fine non era che
r amore della nobile natura da cui la solitaria
astrazione semitica aveva si a lungo e con si fe-
roce dissidio alienato lo spirito dell' uomo ! Al-
lora quel primo e mal distinto sentimento di op-
posizione quasi scettica divenne concetto, ragione,,
affermazione: 1' inno a Febo Apolliné diventò
r inno a Satana. Oh begli anni dal '61 al '65 vis-
suti in pacifica e ignota solitudine tra gli studi
e la famiglia, la quale 'tu governavi ancora, o
madre mia veneranda, che m' insegnasti a leggere
su r Alfieri e non m' inculcasti la superstizione l
Allora i solenni tumulti del pensiero passarono-
su r anima mia come i tuoni di maggio, ai quali
succede la pioggia feconda e il sereno scintil-
laute d' iridi e il profumo della terra vegetante
e uno sbocciare e un fiorire da per tutto. Allora
di mezzo alle iniziali dipinte d' un codice del
secolo decimoquarto le idee del rinascimento mi
folgoravano ardite come occhi di ninfe antiche
RACCOGLIMENTI. 57
ne' fiorì : allora tra una riga e 1' altra di una lauda
spirituale mi guizzava vampeggiante la strofe sa-
tanica: e voi; messer Gino da Pistoia, imperiai
professore di diritto, voi eravate più volte com-
plice innocente de' miei pensieri ribelli, il cui con-
ciliabolo si ragunava e insorgea su la polvere
de' codici membranacei incatenati e sotto le vòlte
della biblioteca medicea disegnata da Michelan-
giolo. La imagine di Dante parca guardare dal-
l' alto, accigliata e in atto crucciosa, e mormo-
rare — Oh istoltissime e vilissime bestiuole che
prosumete.... — con quel che segue nel trattato
quarto capitolo quinto del Convito. Una volta
( Io non so s'io mi fui qui troppo folle )
pur gli risposi: — Padre e maestro, perché
traeste voi la scienza dal chiostro in piazza, dì
latino in volgare? Perché lasciaste calar furioso
il vento dell' ira vostra su le più alte cime pon-
tificie e monarchiche? Voi primo, o grande ac-
cusator pubblico del medio evo; voi primo, o
poeta divino nel cui nome mi esalto; voi deste
primo il segno alla riscossa del pensiero : che
poi lo abbiate dato sonando a stormo da un
campanile di cattedrale gotica, ciò poco im-
porta. — Ora questo svolgersi e maturare del
mio intelletto, del sentimento, della volontà, è
rappresentato, nel suo procedimento interiore e
dinanzi agli studi, lentamente dai Levia Gravi a,,
come gli ho ridotti nel presente volume: nella
58 RACCOGLIMENTI.
sua esteriore manifestazione dirimpetto alle que-
stioni sociali ed ai fatti, più rapidamente dai De-
cennali a. E pur ci sono, sento dire, di quelli i
quali del non esser rimasto qual fui a ventiquat-
tr' anni, venuto su in piccolo e non libero paese,
mi fanno carico: buona gente, a cui crescere e
sviluppare non par che garbi: tornerebbe lor
conto restar sempre eguali al vitello qui largis
iuvenescit herbisl
Nei Juvenilia sono lo scudiero dei classici:
nei Levia Gravia faccio la mia vigilia d'armi:
nei Decennalia, dopo i primi colpi di lancia un
po' incerti e consuetudinari, corro le avventure
a tutto mio rischio e pericolo. Mossi, e me ne
onoro, dall' Alfieri, dal Parini, dal Monti, dal Fo-
scolo, dal Leopardi; per essi e con essi risalii
agli antichi, m' intrattenni con Dante e co '1 Pe-
trarca; e a questi e a quelli, pur nelle scórse per
le letterature straniere, ebbi 1' occhio sempre.
E qui le mie confessioni sarebbero, con mio
gran contento, finite; se, a rischio di passare per
bugiardo o per superbo, non dovessi aggiungere
eh' io ne' miei versi, come disperava di piacere
ai più, cosi non me lo sono proposto per fine:
chiudeva una prima edizione di mie rime gio-
vanili co '1 Quis leget hcec ? di Persio, apriva
i Levia Gravia con la formula funeraria ro-
mana Sihi suis fecit. Mi ricordo di aver letto
non so più in qual libro che il poeta ha da pia-
cere a tutti o a pochi: garbare ai molti è cat-
RACCOGLIMENTI. 59
tivo segno. Dura e sconfortante sentenza, ma
non per ciò meno vera; su la quale ragionerei
cosi. La poesia oggimai è cosa affatto inutile;
che se anche mancasse del tutto, verun minimo
congegno della macchina sociale ne andrebbe
men bene: per lo che, penso ancora, il poeta
non dee tenersi obbligato di obbedire a certe,
come si direbbe, esigenze del tempo. Che se la
-cetera dell' anima sua, anzi che agitarsi sotto V ala
della Psiche fugace e rispondere agli echi del
passato, agli aliti dell' avvenire, al rumore solenne
dei secoli e delle generazioni procedenti, si lascia
<:arezzare all' auretta che move dai ventagli delle
signore e dai pennacchi de' soldati, s' increspa al
fruscio della toga professorale o allo spiegazzare
della gazzetta, guai al poeta, guai al poeta, se
pure è poeta! Affacciarsi alla finestra a ogni va-
riare di temperatura per vedere quali fogge ve-
sta il gusto della maggioranza legale, distrae,
raffredda, incivettisce l' anima. Il poeta esprima
sé stesso e i suoi convincimenti morali ed arti-
stici più sincero, più schietto, più risoluto che
può: il resto non è affar suo. Se è vero che
-alcune delle cose mie sono piaciute, se fosse
vero che seguitassero a piacere, 1' avrei caro an-
che per la mia teorica, sola degna, credo, del-
l' arte.
Con si fatte idee ho il coraggio di metter fuori
un libro di versi a questi giorni, nei quali una
manata d' uomini letterati italiani nega che l' Ita-
6o RACCOGLIMENTI.
lia abbia avuto mai una lingua, e un' altra ma-
nata nega eh' ella abbia da un pezzo in qua let-
teratura e rinnega quella de' padri e confessa sé
essere agli elementi. E vi rimangano; o passino,
secondo che il vento si muta, da una servitù
straniera ad altra. — Sempre il pusillanimo, di-
ceva Dante, si tiene meno che non è — ; e il non
aver sentimento della dignità propria, e con ciò
della forza, è gran cattivo segno cosi per gli uo-
mini come per le nazioni. Ma Dante anche di-
ceva: " Molti sono che amano più d'essere te-
nuti maestri che d' essere; e per fuggire lo
contrario, cioè di non essere tenuti maestri, sem-
pre danno colpa alla materia dell' arte, ovvero
allo strumento: siccome il mal fabbro biasima
il ferro appresentato a lui e '1 mal citarista bia-
sima la citara, credendo dare la colpa del mal
coltello e del mal sonare al ferro e alla citara
e levarla a sé. Cosi sono alquanti, e non pochi,
che vogliono che 1' uomo li tenga dicitori; e, per
iscusarsi del non dire e del dir male, accusano
e incolpano lo volgare proprio. „ Io del mio dir
male non darò certo la colpa alla lingua e al-
l' arte d' Italia, alla lingua e all' arte tua, o Dante
Alighieri.
Ma parliamo un po' d'amici: amici, intendo,,
e sono rarissimi, che non vi lodino per isciu-
parvi od abusarvi siccome ganze, che non vi
biasimino perché non pensate o fate pur a modo
loro, che non vi consiglino per ismania d' intro-
RACCOGLIMENTI. 6l
mettersi o per saccenteria; amici disinteressati,
di cuor gentile, di arguto ingegno, di labbro sin-
cero, il cui consiglio, la cui riprensione e la lode
sono una collaborazione continua. E sentirei di
essere ingrato se non ricordassi almeno a me
stesso quanto io debbo al fraterno ingegno di
Enrico Nencioni che mi fu sin dai primi anni
eccitatore coli' ardor suo e coli' esempio al culto
di tutto ciò che è bello in ogni forma, al giudi-
zio amorevole di Giuseppe Chiarini che mi ha
spronato a tempo e a tempo infrenato, alla dot-
trina gentile di Emilio Teza che mi ha raffor-
zato e fatto allungare il passo, al senso acuto e
retto di Enrico Panzacchi che mi ha emendato.
E pure non dedico a loro questo mio libro; e
non lo dedico né meno (come, s'io credessi cosa
non vana il. dedicare un mio libro, farei, non
ostante la novità dell' esempio ), e né meno lo de-
dico al mio editore G. Barbèra; il quale a me
ignoto e bisognoso offri co '1 lavoro il mezzo di
addimostrarmi, il quale mi ha giovato d' aiuto
paterno in qualche caso difficile della vita. Se
avessi certezza che in questo libro fosse alcun
valore, io, imitando una dedicatoria di Giovanni
Fantoni che vale per avventura più di molte sue
odi, lo intitolerei " a tutti coloro il cui cuore e
le cui miani si serbarono nell'ultimo decennio puri
e incontaminati „.
Ma tu non lo leggerai, o fior gentile della gio-
ventù napolitana e speranza d' Italia, o Giorgio
62 RACCOGLIMENTI.
Imbriani. Tu non leggerai questo libro, del quale
alcune parti ti erano care, e le ridicevi agli amici
nelle notti serene prodotte in fidi colloqui, le ri-
dicevi ai compagni d' arme nelle fì-edde notti ve-
gliate di contro al nemico. Né io udrò più la tua
parola sgorgare fervente nell' amore di tutto che
è bello e grande e puro, né vedrò gli occhi scin-
tillanti che il fuoco di quella accompagnavano
con lo splendore dell' anima, né la fronte su cui
pareva sfumare V ombra d' una tristezza interiore.
Egli aveva la fede d' un martire, 1' amore e 1' odio
di un apostolo, V impeto e la concitazione d' un
tribuno; e con tutto ciò una gentilezza decorosa
come di cavaliere, una aspirazione alle fantasie
meste e soavi come di trovatore, una dolcezza
e bontà come di fanciulla. E un triste presenti-
mento mi strinse il cuore, quando, immoto alle
preghiere e a' consigli degli amici, affrettò la
partenza; perocché troppo io sapea quanta in
lui fosse la voglia di pericolare, la sete di sof-
frire: quella notte poi egli ardeva, oltre il con-.
sueto, di cupo entusiasmo; mi rassomigliava i
grandi morti della Repubblica partenopea. Pace,
mio povero Giorgio ! pace, mio caro, mio nobile
Imbriani! pace e onore a voi tutti, primavera
sacra d' Italia, che vendicaste Roma e Mentana
cadendo vittoriosi su la gloriosa terra di Francia!
Latin sangue g-cntile!
JUVENILIA
Prefazione a J u v e n i 1 i a di G. C,
Bologna, Zanichelli, 1880;
€in Confessioni e Battag-lie di G. C, serie 2»:
Roma, Sommarug-a, 1883.
L signor Nicola Zanichelli editore
mi chiese facoltà di ripubblicare i
miei Juvenilia quali stanno nel-
r ultima edizione delle Poesie
fatte da G. Barbèra e di aggiungere la canzone
A Vittorio Emanuele e le due odi Alla croce di
Savoia e // Plebiscito. Io assentii non solo^ ma
riordinai per quella stampa parecchi altri versi
da me scritti dentro i termini del 1860.
IL
Se i Juvenilia dovessi risolvermi a lasciarli
pubblicare oggi per la prima volta, io, dopo averci
pensato su molto o poco, non ne farei probabil-
mente nulla: tanto essi mi appaiono non pure in-
feriori, ma per gran parte contrari al concetto che
ora ho dell' arte di poetare, tanto questo concetto
Carducci. 4. 5
6(ì JUVENILIA.
mi cresce sempre più sublime innanzi con gli anni,
tanto compiango e sdegno la vergogna di tutta
questa rimeria italiana. E so che del mio lavoro
poetico rimarrà a pena qualche scaglia, e solo a
corredo di collezione ne' musei della storia let-
teraria: né di tale dileguar mio tutto e intero e
per sempre anche nell' arte da me religiosamente
venerata sento, a dir vero, dolore od orrore; anzi,
per la conscienza che ho di quello che fu e sarà
grande, guardo tranquillo dall' alto della mia ra-
gione a cotesto dissolvimento, e in cospetto al-
l' età augurate sospiro anch' io, come 1' antico
santo: Cupio dissolvi et esse cum Christo.
Per ciò non mi dispiace di ripubblicare i miei
versi giovanili, molti dei quali sono anche, pur
troppo in ogni senso, puerili. Ma io sento che il
dover mio è di combattere, nella parte che mi
toccò, e non di pensare a me; e quei versi at-
testano che a combattere cominciai presto. Che
io questo affermando non presuma troppo del mio
fìevol lavoro, me ne assicura 1' onorevole Tabar-
rini dove nella Vita di Gino Capponi egli
scriveva al capitolo decimo: " Quando, dopo il
1850, sorse in Toscana una scuola di giovani d' in-
gegno e di studi, la quale proclamando il ritorno
all' ellenismo delle forme non nascondeva i fini
anti-cristiani, il Capponi vide sùbito il principio
d' una letteratura empia e beffarda che avrebbe
fatto tabula rasa d' ogni credenza e sovvertita la
morale „. Se non che mi conceda 1' egregio uomo,
JUVENILIA. 67
da poi che nomina in nota me e il mio amico
Chiarini; di opporgli che non vuole sovvertir la
morale chi la vorrebbe trasportata dalla chiesa
alla città, dal metaforico cielo teologico alla se-
rena conscienza umana, che sono in fine le vere
sue sedi: né del resto noi beffammo mai il va-
lore storico dei fatti e la sincerità delle intenzioni.
III.
Anche ho lasciato ristampare i versi politici
scritti nel '59 e '60, per due ragioni. Prima: per-
ché certi signori, i quali alla gente che tira via
possono anche apparire non furfanti né ladri del
tutto per la sola bella ragione che tutti i giorni
intingono una penna in un calamaio e scrivono
o firmano un giornale, perché, dico, quei certi
signori non me li ristampino loro, come fecero
e fanno, senza né meno dirmi avanti — E per-
messo?, — senza dirmi — Grazie — di poi, sapendo
anzi di fare contro il mio desiderio e volere, e
fino meravigliandosi s'io mi dolga eh' e' dispon-
gano delle cose mie come di loro proprie, con
molta mia iattura, con la iattura, intendo, del-
l' Gnor mio ; che i semplici e gli sdrucciolevoli
vedendo le mie cose e il mio nome in certi luo-
ghi potrebbero credere ci fossero per mia ele-
2Ìone. Seconda: perché amici e non amici veg-
gano finalmente tutto insieme il corpo del delitto,
ili ragion del quale e in secco d' altre ragioni
68 JUVENILIA.
C-erti avversari tornano di quando in quando a
rinfacciarmi la politica voltabilità : veggano e giu-
dichino.
Giudichino in primo luogo: se un quasi ra-
gazzo, cresciuto in paese piccolo e non libero, da
sé solo e sui hbri, fuori d' ogni associazione
segreta o no, dovesse avere prima dei venticin-
que anni una ferma fede politica, alla quale poi
rinunziare gli fosse vergogna. Giudichino in se-
condo luogo: se, quando Giuseppe Mazzini offe-
riva a Vittorio Emanuele la dittatura, quando
proclamava nella lettera al Brofferio Y annessione
al Re, quando tempestava con lettere e con stampe
noi specialmente di Toscana a far V annessione, a
farla sùbito, a farla intera; se, quando Giuseppe
Garibaldi bandiva il nome di Vittorio Emanuele
segnacolo di tutte le speranze, di tutte le riven-
dicazioni, di tutte le glorie della nazione; giu-
dichino, dico, se, quando gli apostoli e gli eroi
s' infervoravano a quel modo, fosse tanto mio
grave peccato pigliare una caldana che non potè
durare. Giudichino in terzo luogo: se in quelle
poesie v'è poi da vero quella tanta caldana mo-
narchica che ad alcuni pare, o se non più tosto
vi sono altamente rivendicate e affermate tutte
le tradizioni e glorie democratiche delle regioni
italiane, se in nome di quelle non è per avven
tura esortato o pregato Vittorio Emanuele ad ac
cogliere dall' autorità del popolo la suprema di
rezione della guerra contro lo straniero, a farsi
JUVENILIA. 69
tribuno armato del popolo: giudichino se io di-
cessi più ne' miei versi di quello che Giuseppe
Mazzini diceva nella sua prosa. Giudichino in fine
se, da poi che ne' miei scritti dopo il '61 sarà
difficile trovare contraddizioni, possa per quelle
poesie del '59 e del '60 essere accusato di voltabi-
lità e quasi di apostasia io, il quale anche oggi
in fine tengo legittima instituzione dello stato la
monarchia perché fatta dai suffi*agi di tutto il po-
polo italiano,. v
IV.
Ora una storiella allegra. Quando due anni fa
pubblicai il Canto dell' amore, ci fu un giornale
fiorentino il quale usci a dire che quel nuovo
mutare di sentimenti e d' idee non potea far me-
raviglia a chi sapeva da un pezzo quanto mobile
€ versatile fosse nelle sue opinioni 1' autore del
canto. Lasciamo che a scambiare il Canto del-
l' amore per un atto di conversione o religiosa
o poHtica ci vuole una o grossolanità o puerilità
d' intelligenza molto rara altrove che nella nobi-
lissima genealogia di Calandrino. Sarebbe lo stesso
che notare sdegnosamente la inconstanza e volubi-
iità di Dante Allighieri, perché in Antenora ei
piglia per la cuticagna il traditore degli Abati, e
nella Vita Nuova dinanzi all' aspetto di Beatrice
sente che nessun nemico gli rimane e a chi lo
domandi di cosa alcuna risponde solamente amore.
70 JUVENILIA.
E qui mi perdoni Dante Alighieri se io ricordo
in vano il santo suo nome in faccia agli ultimi
suoi cittadini; ai quali da gran tempo è cosi ve*
nuta meno la intelligenza dell' arte che scambiano
per poesia gli sbuffi di retorica d' un Yorick bat-
tentesi la pancia istrionica sulla morte del re
d' Italia. Il curioso è che di mutabilità d' opinioni
e voltabilità accusi altrui la Nazione, il giornale
del connubio tra il Ricasoli e il Nicotera, il gior-
nale dei Puccioni, e dei Puccini, il^ giornale dei
dissidenti toscani. Le son cose da destare in chi
ode una foga di riso inestinguibile, se il riso non
fosse respinto in dietro dalla pietà delle con-
dizioni a che la gente politica della Nazione ha
condotto Firenze; a cui delle antiche virtù e qua-
lità nulla rimane, né meno T accorgimento e la
furberia; della quale almeno Stenterello non man-
cava, e mancano affatto i politici della Nazione,
che si lasciano mettere nel sacco dal primo ve-
nuto di Calabria o di terra d' Abruzzi.
V.
Più grave taccia mi dava, dopo la pubblica-
zione delle Nuove poesie nel '73, il signor
Eduardo Arbib, dal suo giornale La Libertàx
grave, dico, per rispetto a chi non mi conoscesse.
Pure il signor Arbib non reputò debito o conve-
niente mandarmi il numero del giornale che con-
teneva la imputazione; e come questo non veniva
JUVENILIA. 71
allora in Bologna, almeno nei luoghi di pubblico
ritrovo, cosi io non ebbi notizia dell' accusa se
non dopo assai tempo che mi fu fatta. Era lo
stesso. Non mi sarei difeso : volevo rimaner fe-
dele al motto scritto in fronte del volume:
Fama mia, ti raccomando
Al somier che va ragghiando:
Perdonanza più d' un anno
Chi mi dice villania.
Ora, più che un anno è passato, e posso non di-
fendermi ma raccontare.
Non difendermi, ho detto: perché io non sento
necessità veruna di provare che de' miei scritti
non ricevei prezzo mai da altri che dagli editori,
prezzo, s' intende, di qualunque sorta o in qua-
lunque maniera pagato; che del mio lavoro sde-
gnerei ricevere compenso che non fosse retribu-
zione fermata avanti per contratto in piena luce
di sole. Ciò non è virtù, è pulizia. Io amo tener
nette le mani: né v' è guanto che salvi dalla spor-
cizia dei prezzi di favore o di compra e vendita
occulta, e dalla sporcizia del contatto delle mani
che hanno tócco quei prezzi. -Ora, quando il si-
gnor Arbib si adoperò e ingegnò di far credere
a' suoi lettori che l'ode alla Croce di Savoia
mi fosse pagata, forse anche materialmente in con-
tanti, si sforzò in vano a colorir cosa non creduta
e non credibile né meno agli uomini di parte sua.
Ecco quello che scriveva Giovanni Procacci, amico
mio ma non delle mie opinioni, in una vita del
72 JUVENILIA. -
Salvagnoli pubblicata deì'62: " Ad un egregio gio-
vine noto per potenza d' ingegno, che sdegnava
con nobile alterezza schierarsi all' assalto delle
cattedre toscane, pensò 1' animo provvidente del
Salvagnoli; e avutolo a sé, benignamente lo con-
fortò negli studi e lo volle ascritto fra gì' inse-
gnanti „ (pag. 43).
L*ode alla Croce di Savoia era fatta, e
piaceva specialmente a Silvio Giannini, già segre-
tario nel '48 del Pigli governatore a Livorno, e
molto in corrispondenza allora co '1 Guerrazzi:
uomo, del resto, di agile e cólto ingegno e d' ot-
timo cuore, e che si pigliava gran pensiero dei
fatti miei, con modi talvolta che per troppa bontà
riuscivano al rovescio. Allora, come egli era un
gran credente della poesia popolare e fu il primo
a raccogliere in un libro di strenna intitolato
Vwla del pensiero i rispetti toscani, si mise
in testa di far cantare la Croce di Savoia
popolarmente su T aria della Rondinella pelle-
grina. Non ci fu versi: ostinato come un vero
còrso livornese che era, die a stampare certe
strofe dell' ode su certi fogliolini con sopravi
scritto: Da cantarsi sulV aria " Rondinella
pellegrina „, e li distribuiva egli stesso per
via Calzaioli agli artigiani e ài ragazzi, e quelli lo
guardavano, ed egli un po' zufolava un po' can-
ticchiava Rondinella pellegrina e un po' Bianca
croce di Savoia. E come egli era un beli' uomo,
alto, tutto a nero, in cilindro, con una faccia ac-
JUVENILIA. 73
cesa tra la barba bruna e folta, e due occhietti
buoni, e una voce, quando canticchiava, tra d' uc-
cellino e di donna, cosi il popolo gli faceva cer-
chio attorno, e quelli che lo conoscevano dice-
vano — O che gli gira, sor Silvio? — Io a co-
teste prove di popolarizzare la poesia non du-
ravo a lungo, e lo piantavo: di che egli si avea
molto a male. Pure tanto fece, che alla fine la
bianca croce fu messa in musica dal maestro Ro-
mani e cantata alla Pergola dalla signora Picco-
lomini. Quella sera Silvio voleva in tutti i modi
che io mi mostrassi al pubblico tra le ballerine e
le coriste; e a me, che non fui mai tanto demo-
cratico da far copia di me al rispettabile pub-
blico, ci volle del buono e del bello, anzi del
brutto, per liberarmi dalle affettuose improntitu-
dini trascinatrici delle braccia del livornese. Po-
chi giorni di poi, passando io una mattina per
via Calzaioli, trovo, li dal Gigli pasticciere, Silvio,
che al solito aveva preso il terzo assenzio. — Ehi,
vieni dal SalvagnoH — fa lui. E io : — Tu se' matto.
— Dico che tu venga: è lui che ti vuol vedere.
— Non vengo — . U effetto che faceva V as-
senzio su Silvio era quel di renderlo molto te-
nero e abbracciatore. — Giosuè, non mi fare di
queste figure, non amareggiarmi: vieni dal Sal-
vagnoH: sai che è solamente lui che lavora con
noi nel ministero, è solamente lui che vuol V an-
nessione. — Ma tu sai che da uomini politici io
non vado; perché già non so parlare con loro,
74 JUVENILIA.
e mi seccano. — Ma il Salvagnoli è un letterato :
non ti ricordi le sue ottave su Michelangiolo che
io ho ripubblicate a questi giorni? — E li co-
minciò su la porta del Gigli a declamare le ottave
su Michelangiolo. In somma bisognò andare dal
Salvagnoli.
Vincenzo Salvagnoli era ministro del culto, pe-
rocché allora in Toscana e' era bisogno d' un
ministero del culto. Tormentato dall' asma che lo
soffocò indi a poco immaturo, egli con un grande
vigore dell' animo combatteva la malattia e in-
sieme gli ostacoli che nel seno stesso del governo
si frapponevano ed opponevano al risoluto an-
damento dell' unificazione nazionale. Parlava a
intervalli, impedito dall' asma, ma chiaro e forte.
— • Dunque voi non fate nulla? — Studio, signor
ministro, e do lezioni private. — Non dico di co-
testo. Un giovine come voi ha 1' obbligo di ser-
vire lo stato, quando lo stato ha bisogno del-
l' ingegno e dell' opera di tutti i cittadini migliori.
— Grazie, signor ministro: ma che vuol che fac-
cia? — Quello che potete fare. Chiedete un posto
neir insegnamento. — Che vuol che chieda, signor
ministro ? C era vacante il posto di retorica nel
ginnasio qui del Comune. Andai per presentare
domanda di essere ammesso al concorso. Mi ri-
sposero : Badi, la non si lusinghi : e' è gente che
ha titoli e diritti più di lei. Io non presentai la
dimanda. — Bene, bene, andate: ci penserò io.
A proposito : e' è nella vostra ode una espressione
JUVENILIA. 75
che non è mica di lingua. — E come io alzai il
capo modestamente interrogando, egli mi disse
a mente due versi. È questa. — Fé' cenno al-
l' usciere gli portasse la Crusca alla lettera tale.
Cercammo: aveva ragione. Passò qualche setti-
mana, e il Salvagnoli mi scrisse che il Ridolfi
ministro dell' istruzione aveva pensato a me no-
minandomi maestro di greco nel ginnasio d'Arezzo.
Quel posto r avevo ottenuto 1' anno innanzi per
concorso dal municipio di Arezzo, ma il governo
granducale non volle approvare la nomina. Nel '59
il posto non mi conveniva più per ragioni di fami-
glia. Tornai dal Salvagnoli, e ringraziando rifiutai.
— Non si rifiuta — mi rispose il ministro: aspet-
tate. — Indi a un mese fìai nominato professare
di greco nel liceo di Pistoia. Dove io mi viveva
contentissimo della mia sorte, quando venne a
trovarmivi nel '60 la memore benevolenza di Te-
renzio Mamiani ministro del regno con 1' offerta
d' una cattedra nell' Università di Bologna. Il Ma-
miani conosceva alcune cose mie, alle quali era
stato indulgente giudice con molta mia consola-
zione e conforto: un ministro solamente politico
non avrebbe di certo pensato a me.
Riman dunque fermo che gli offici che io tenni
e tengo nell' insegnamento gli ebbi o per ripara-
zione od offertimi. Ma compensi a' miei scritti
non ne ebbi mai che dagli editori; e chiedere,
io non chiesi e non ho chiesto mai nulla, né
posti ai ministri, né favori agli statisti, né articoli
76 JÙVENILIA.
ai giornalisti; né amicizia agli uomini; né amore
alle donne; né ammirazione ai giovani; né vóti
al popolo. Io non scrissi né scriverò certo cosa
mai che valga pure in piccolo e da lontano un
venti versi dei Sepolcri; né esulerò in Inghil-
terra; ma né meno ho scritto mai una lettera che
assomigli alle tante che Ugo Foscolo scrisse a
capi-divisione; a segretari; a ministri; a vice-pre-
sidenti; a viceré. Lo tengano bene a mente certi
retori ignoranti.
VI.
Anche: il signor Edoardo Arbib credè oppor-
tuno; sempre su V argomento delle Nuove Poe-
si e ; rinfacciarmi; che; valido di torace e di spalle
come erO; e come, grazie alla natura; sonO; non in-
dossai nel '59 il sacco né presi il fucile. Lasciamo
che né pur cotesta pare ragione valida a provare
che le Nuove Poesie sieno una indegnità. Ma
crede da vero il signor Arbib che il coraggio
in Italia sia privilegio di chi scrive male? Il co-
raggio in Italia è comune; come l'ingegno e i
fagiuoli. Noi italiani nasciamo tutti eroi e tutti
genii. Con questO; V Italia non è, eh' io sappia;
né la più animosa né la più cólta nazione del
mondo. Sarebbe forse che parecchi italiani ado-
perano il coraggio a osare la più abiette vigliac-
cherie e r ingegnO; come diceva quel cardinale;
e b...enedirsi T un l'altro? La decisione alla sta-
JUVENILIA. 77
tistica, la quale; dicono, è scienza, e scienza uti-
lissima: dimostra per esempio, che il bel paese
supera d' assai la Francia e la Germania e non
so quanti altri paesi men belli nel prodotto del
genere canaglia^ li supera nella copia e nella
qualità. E torniamo a me e al signor Arbib.
Del quale, perché intendeva farmi passare per
una canaglia, io non mi vendicherò chiamando
lui un genio: nessuno crederebbe a me come
nessuno crede a lui. Ma certamente il signor Ar-
bib, a volte, ragiona a bastanza diritto; ed ha
anche, buona memoria, e non ha dimenticato,
credo, che nel '58 e nel '59 mi conosceva. Cam-
pavamo tutt' e due del nostro lavoro assai pove-
ramente. Egli era apprendista nella tipografia del
Barbèra: io curava pe'l Barbèra certe piccole edi-
zioni di classici. Egli veniva qualche volta a re-
carmi le prove di stampa.... si ricorda?... in una
casa in Borg' Ognissanti, a un piano molto in su,
anzi a una soffitta. Egli se ne deve ricordare,
perché una volta, poveretto, ruzzolò una male-
detta scala di legno che metteva assai ripida alla
soffitta. E si deve ricordare che due donne lo soc-
corsero, che quelle due donne vivevano allora in
quella soffitta con altra gente. Neil' aprile del '59,
egli, solo in famiglia, potè andare alla guerra.
Io no, perché quelle due donne e queir altra gente
dovevo mantenerle io, da poi che mio padre era
morto poco innanzi lasciandomi per tutta eredità
dieci paoli (non importa da vero far la riduzione
78 JUVENILIA.
in moneta nuova). Veda bene il signor Arbib :
quelli che egli nella nota su le Nuove Poesie
chiamava i " miei greci „ — i greci, s' intende;
di me Giosuè Carducci, che per certa gente ho
anche il torto di ammirare i greci — i " miei
greci „ ; dico, che non lasciavano morire di fame
o ir mendicando le madri e i fanciuUi di quelli
che andavano a combattere per la patria, " i
miei Greci „ non ci sono più, il suo Gesù Cri-
sto invece portò nel mondo classico una civiltà
nuova, tra' cui molti civili ed umani effetti e' è
anche questo, che uno che ha famiglia e non ha
quattrini non può aver V onore di morir per la
patria.
Se il signor Arbib passando per Bologna vorrà
venire a rinnovare la conoscenza antica e a ri-
credersi di quello che scrisse non vero in un mo-
mento che si lasciò vincere a un basso istinto,
io r avrò caro. Ma V avverto, che, se bene io non
abiti più in una soffitta, sto ancora molto alto.
Che vuole? dopo venticinque anni che lavoro come
un onesto facchino, non ho potuto per anche con-
cedermi il lusso di pigliare a pigione un primo
piano sufficientemente arredato. Da tanto che mi
sono venduto!
Questo scrìtto fu pubblicato la prima volta nella
Lega della democrazia di Roma del 9 aprile 1880:
nel numero del 17 aprile dello stesso giornale fu
JUVENILIA. 79
Stampata la seguente lettera del signor Eduardo
Arbib ad Alberto Mario.
Roma. 13 aprile 1880.
Preg. Sig. 'Direttore,
Ella ha avuto la rara fortuna di poter offrire
a' suoi lettori alcuni brani della prefazione posta
dal signor Giosuè Carducci in fronte alla ristampa
delle sue poesie giovanili, che V editore Zani-
chelli pubblicherà uno di questi giorni a Bologna.
Poiché in quei brani di me lungamente si parla,
non le rincresca, signor direttore, di accogliere
nelle colonne del suo rispettabile giornale que-
ste poche mie righe.
Neir estate del 1873 il signor Piccardi, allora
collaboratore della Libertà, ivi pubblicò una ras-
segna bibliografica delle poesie del signor Car-
ducci, mettendone in rilievo tutte le bellezze.
Come direttore del giornale, lasciai al signor
Piccardi pienissima libertà di giudizio; ma, dopo
eh' egli ebbe a suo talento parlato del poeta, ag-
giunsi io di mio qualche cosa sul cittadino.
Fui tratto a farlo non da basso istinto, come
suppone il signor Carducci, ma da altissimo sde-
gno, acceso nell' animo mio da che egli ne' suoi
versi, tra molte altre cose, aveva osato anche
chiamar vile la patria.
Questa contumelia da un figlio gettata in faccia
alla madre mi fece proprio, lo confesso, uscir dai
gangheri.
8o JUVENILIA.
E, commosso e irritato, biasimai forte il signor
Carducci d'avere scritto quelle parole; né tacqui
punto che egli, a mio avviso, tanto era più degno
di censura, quanto meno si addice a chi nulla ha
sofferto per essa chiamar vile una patria, per
amor della quale migliaia di cittadini hanno, con
invitto animo, o sofferto le più atroci torture
nelle galere o sfidato la morte sui campi di bat-
taglia.
S'io feci male o bene a scrivere cosi, non
spetta a me a dirlo; sento bensì che oggi scri-
verei tale e quale come allora, poiché penso come
allora pensava, né sono disposto a mutare opi-
nione. Peraltro, dopo gli schiarimenti che il si-
gnor Carducci dà al pubblico, oggi non direi
più come allora nell' impeto dello scrivere dissi,
che r ode alla Croce di Savoia " era stata
forse pagata dal barone Ricasoli a un tanto il
verso „.
Questo inciso mi fu invero suggerito da vaghe
ricordanze del '59, quando V ode, appunto nella
tipografìa Barbèra, fu stampata in foglietti vo-
lanti, per essere distribuita al popolo di Firenze
il giorno del plebiscito. Aveva in mente che poeta
e tipografo fossero stati dal governo pagati; ma,
dopo ciò che dice il signor Carducci, non mi è
più lecito accogliere nell' animo simile supposi-
zione; sicché, senza tanti giri di parole, dal mio
articolo del '73 intendo che quell' inciso sia can-
cellato.
JUVENILIA. 8l
Non aggiungo altro per non abusare della sua
cortese ospitalità. Gradisca i miei omaggi e mi
creda, con ogni osservanza,
suo devotissimo
E. Arbib.
Nella Lega del 19 aprile 1880 in risposta a
questa lettera era pubblicata la seguente dal Car-
ducci indirizzata ad Alberto Mario.
Caro Alberto,
Leggo la lettera a te mandata dal signor
Eduardo Arbib.
10, come te, come tutti gli uomini sicuri del
fatto loro, tengo molto alle date e ai noini.
Quanto a date e a nomi le ricordanze del signor
Eduardo Arbib sono da vero (diciamo cosi) vaghe.
I. L' ode alla Croce di Savoia non fu stam-
pata nella tipografia di G. Barbèra, ma da Mariano
Cellini.
11. Non fu stampata in foglietti volanti, ma
a veri e propri fascicoli. I foglietti volanti por-
tarono sole alcune strofe musicate.
III. Non fu distribuita il giorno del plebiscito
che fu Tu marzo 1860, ma pubblicata e messa
in vendita nell' ottobre del 1859.
IV. Tra le Nuove Poesie edite nel settem-
bre 1873 non è r epodo in morte di Giovanni
Cairoli co '1 verso
La nostra patria è vile.
Carducci. 4. 5
82 JUVENILIA.
L' epodo era stato pubblicato la prima volta nel-
r inverno 1869-70, e poi fu ripubblicato nelle
Nuove Poesie dal Barbèra l'anno 1871.
Del resto; ricordando quello che fece e che
fu r Italia officiale nel '66 nel '67 e nel '70 e gli
scandali del '68 e del '6g, non trovo ragione a
pentirmi di quel verso.
Tuo amico
Giosuè Carducci.
A proposito di altre attribuzioni e notizie più
innocentemente non vere su poesie giovanili, il
Carducci avea dovuto pubblicare quasi un anno
prima quest'altra lettera al direttore del Preludio
di Bologna:
Alessandria, 21 maggio 1879.
Mio caro signore,
Nel Dizionario biografico degli scrit-
tori contemporanei, diretto da Angelo De
Gubernatis, leggo oggi, al fase. Ili, pag. 250 e
seguenti, un articolo intitolato dal mio nome; e
vi leggo, che io nel 1860 volli dedicato a Vittorio
Emanuele " un mio piccolo lavoro drammatico
di soggetto politico, che Ernesto Rossi dovea rap-
presentare „. Non è vero. Protesto, non contro
il buon De Gubernatis a cui qualche istrione l' ha
dato ad intendere. Protesto, non per la dedica a
Vittorio Emanuele, ma pe '1 rimanente. Io non
credo di aver dato mai occasione ad alcuno di
JUVENILIA. 83
spacciarmi o ritenermi, sia pure per cinque mi-
nuti, autore " di un piccolo lavoro drammatico
di soggetto politico „. Capisce? " un piccolo la-
voro drammatico di soggetto politico „! Adoro
l'arte da tanti anni con tale rispetto, che non
meritavo V affronto della imputazione di un de-
litto cosi borghesemente triviale.
La saluto di cuore, e La prego a far publica
questa mia dichiarazione nel Preludio o altrove.
Suo affezionatissimo
Giosuè Carducci.
POLEMICHE SATANICHE
A Satana
inno con lettera dell'autore, etc.,
Bologna, tipogr. degli Agrofili, 1869:
Bozzetti critici e discorsi letterari di G.
Livorno, Vigo, 1876:
Satana e polemiche sataniche diG. C,
Bologna, Zanichelli, 1882:
Confessioni e Battaglie di G. C, 1« serie.
Roma, Sommaruga, 1882.
Il giornale di Bologna // popolo ripubblicava l'S decembre
1869 r limo a Satana, e il giorno di poi dava luogo alla
seguente lettera di Quìrico Filopanti:
Caro Enotrio,
EL suo insieme il vostro componi-
mento non è poesia; è un' orgia in-
tellettuale.
^^^-^ir^^^ Esso ha, fra gli altri, un difetto
per me capitale : quello di essere antidemocratico.
È antidemocratico nella forma, conciossiaché,
mentre la fraseologia del medesimo è appena in-
telligibile a quelli che hanno avuto una completa
educazione di collegio, il popolo non ne com-
prende'rà una decima parte.
E ancora più antidemocratico nella sostanza,
poiché si tradisce, non si giova, il popolo, divi-
nizzando il principio del male.
88 POLEMICHE SATANICHE.
Petruccelli della Gattina ha fatto un romanzo
il cui eroe è Giuda Iscariota. Voi, con un inge-
gno maggiore di quello del Petruccelli; siete ca-
duto in una aberrazione anche più colossale. Se
diceste apertamente alle moltitudini che Giuda e
Satana sono esseri immaginari, trovereste migliaia
di persone sensate che vi approverebbero, ma al-
lorché, pur credendoli immaginari, fingete di pren-
derli per personaggi reali, siate coerenti alla vo-
stra finzione, e date a quei due odiati nomi il
senso che vi attribuiscono le genti; cioè pren-
dendo r uno per la personificazione del più vile
ed abbominevole tradimento, e V altro come la
personificazione di tutto ciò che osteggia la virtù
ed il benessere degli uomini. Forse vi siete in-
teso di inneggiare alla Natura, all' Universo, al
Gran tutto, a Pan, cose o più veramente cosa
immensa, buona ed augusta. Ma perché chiamarla
coi bruttissimo nome di Satana?
Ogni scrittore, più specialmente il poeta, dee
prendere la lingua tal quale è, e non fabbricar-
sene una a ritroso dell' uso e del senso comune.
Siete in facoltà, quando parlate nella vostra testa
tra voi e voi, di chiamar fuoco ciò che noi chia-
miamo acqua, e viceversa; ma questo non vi to-
glierà di essere fraintesi o scherniti, se vi avven-
turate a dire ad altrui che il fuoco bagna e V ac-
qua asciuga. Cosi, quando esclamate
Salute o Satana,
O ribellione,
POLEMICHE SATANICHE. 89
voi credete senza dubbio di fare uno splendido
elogio del vostro protetto; invece rendete un se-
gnalato servigio al sedicente Concilio ecumenico,
ed ai nemici di tutte le rivoluzioni, anche giuste
e necessarie.
M' aspetto da voi una spiritosa risposta, alla
quale io non replicherò, checché diciate; imper-
ciocché desidero di rimanervi amico, a patto sol-
tanto che non pretendiate che io lo sia egual-
mente di Satanasso.
Voglio rimaner fedele ai due grandi principii
che ebbi già la fortuna di proclamare in Campi-
doglio, e che spero di poter proclamare di nuovo:
Dio e popolo.
Nel numero 10 decembre del Popolo usciva questa risposta
A QUIRICO FILOPANTI.
Caro e onorando amico,
Ulnno a Satana è lirico almeno in questo,
che è r espressione subitanea, il getto, direi, di
sentimenti tutt' affatto individuali, come mi ruppe
dal cuore, proprio dal cuore, in una notte di set-
tembre del 1863.
L' anima mia, dopo anni parecchi di ricer-
che e di dubbi e di esperimenti penosi, aveva
alla fine trovato il suo verbo; e Ver bum caro
factum est: ella gittò allegra e superba all' aria il
90 POLEMICHE SATANICHE.
SUO epinicio; il suo eureka. Avrà abbracciato del-
l' ombrC; può darsi : avrà, in vece del grido del-
l' aquila di Pindaro, fatto il verso del barbagianni;
può darsi più che probabilmente anche questo.
Ma certo io non intesi fare cosa di parte; non
un evangelio né un catechismo né un salmo
per chi che sia. Tanto era lontano dal pensiero
della propaganda ( la quale io lascio di gran cuore
ai teologi e ai filosofi sistematici), che stampai
r inno sol due anni appresso, e in poche copie,
che regalai a pochi amici o conoscenti. Me lo
ristamparono in giornali democratici, massonici,
mezzi e mezzi, a Palermo, a Firenze, a Spoleto,
senza farmene né pure un cenno avanti. Almeno
r amico Bordoni del Popolo me ne ha chiesto il
permesso: doveva io dirgli di no? o perché? Dun-
que, onorato amico, questo riman fermo, che T inno
è roba tutta mia, sangue del mio sangue, anima
dell' anima mia, e non un manifesto politico d' oc-
casione. Errò per via di bene, ma errò, // po-
polo, quando scrisse che Bologna aveva fatta la
sua protesta contro il Concilio mandando al Co-
mune r autore dell' Inno a Satana. Troppo onore
per un rimatore: novantanove su cento di quelli
che votarono per il Carducci sapevano molto di
Enotrio Romano e di Satana !
Del resto, tu non potevi non intendere a qual
nume inneggiassi io. Tu 1' hai detto: alla Natura.
E alla Ragione: aggiunge il redattore del Popolo,
Si, ho inneggiato a queste due divinità dell' anima
POLEMICHE SATANICHE. 9I'
mia, dell' anima tua e di tutte le anime generose
e buone; a queste due divinità che il solitario
e macerante e incivile ascetismo abomina sotto
il nome di carne e di mondo, che la teocrazia
scomunica sotto il nome di Satana.
Satana per gli ascetici è la bellezza, 1' amore,
il benessere, la felicità. Quella povera monacella
desidera un césto d' indivia? in quel césto v' è
Satana. Quel frate si compiace d' un uccellino
che canta nella sua cella solinga? in quel canto
v' è Satana. Ecco, nella caricatura ridicola della
leggenda, quel feroce ascetismo che rinnegò la na-
tura, la famiglia, la repubblica, 1' arte, la scienza,
il genere umano; che soppresse, a profitto della
vita futura, la vita presente; che, per amore del-
l' anima, flagellò, scorticò, abbrustolò, agghiadò
il corpo.
Per i teocratici poi (mette conto ripeterlo?) Sa-
tana è il pensiero che vola. Satana è la scienza
che esperimenta. Satana il cuore che avvampa,
Satana la fronte su cui è scritto — Non mi ab-
basso. Tutto ciò è satanico. Sataniche le rivolu-
zioni europee per uscire dal medio evo, che è il
paradiso terrestre di quella gente; i comuni ita-
liani, con Arnaldo, con Cola, co '1 Burlamacchi;
la riforma germanica che predica e scrive libertà;
r Olanda che la libertà incarna nel fatto; l' Inghil-
terra che la rivendica e la vendica; la Francia
che r allarga a tutti gli ordini, a tutti i popoli,
e ne fa la legge delle età nuove. Tutto ciò è sata-
92 POLEMICHE SATANICHE.
nico; colla libertà di coscienza e di culto, colla
libertà di stampa, co '1 suffragio universale; s' in-
tende.
E Satana sia. Dice bene il Bordoni e diceva
bene David, se non m'inganno: " Nelle loro ma-
ledizioni ci esaltiamo, e ci gloriamo, nei loro vi-
tuperii „. Noi siamo satanici.
E perché no? Satana non è egli un tipo per
eccellenza artistico? Pigliamolo nel Testamento
vecchio. Egli è il primo ribelle contro il despo-
tismo accentratore e unitario di Geova nel de-
serto della creazione. EgU è vinto: ma l'arcan-
gelo Michele, a cui V ascetismo vesti dal medio
evo in poi un magazzino d' armi che non finisce
mai, tant' è, m' ha 1' aria d' un gendarme; e io sto
per il vinto.
Sto per il vinto; e, senza volerlo, inchinava un
po' per il vinto anche V apologista del supplizio del
re d' Inghilterra, anche il segretario del Cromwell,
anche Giovanni Milton. Come terribile 1' ha egli
dipinto, come maestosamente aggrondato! Quando
leggo nel Farad iso perduto il concilio di Satana,
parmi che da quei versi mi venti su '1 viso V aura
tempestosa del lungo Parlamento che condannò
Carlo I, e V anima mia ritorna alle notti sublimi
della Convenzione francese.
Sto per il vinto, e per il tentatore. Che cosa
disse egli in fatti, questo tentator generoso, alla
compagna dell'uomo? Le accennava, nell' orto di
Geova, in quell' orto chiuso e uniforme, le ac-
POLEMICHE SATANICHE. 93
cennava V albero mistico che portava il pomo
della scienza e della vita, del bene e del male;
e — Mangiate, le disse, di questo; e sarete sic-
come iddii. — E che cosa altro, di grazia, dis-
sero agli uomini Pittagora, Anassagora, Socrate,
Platone, Aristotile? Che cosa altro dissero loro
il Galileo, il Newton, il Keplero, il Descartes, il
Kant?
Di questo ribelle magnanimo, di questo tenta-
tor generoso, Moisè, per ossequio alla razza sa-
cerdotale cui apparteneva, Moisè, troppo memore
della servitù d' Egitto ove i pantani del Nilo
producevano sacerdoti e serpenti, Moisè, dico, ne
fece un rettile. Tu sai, onorando amico, se il cat-
tolicismo ha caricato poi di sassi, di fango e di
onte questo povero rettile. Rettile? che dico? Ne
fece, nelle sue ebre fantasmagorie del medio evo,
un mostro con corna e coda e con tale un cor-
redo di deformità che andava crescendo grot-
tescamente nei secoli. Domandane a Dante e al
Tasso.
In questo caso, io, oppresso dalla società fin
da' primi anni, mi dichiarai per il ribelle alla
monarchia solitaria di Geova, per il tentatore
degli schiavi di Geova alla libertà e alla scienza,
per r oppresso dalla gendarmeria di Geova. E, se
Ary Schefifer lo aveva tratteggiato sublime di ma-
linconia e involto di fosco splendore, io V ho can-
tato raggiante e tonante e folgorante di vita su
r universo. Lo Scheffer lo figurava quando il mi-
94 POLEMICHE SATANICHE.
sticismo pareva voler collegarsi alla libertà: io lo
cantO; avendo in conspetto il regno della ragione.
Del resto tU; mio onorando amico, grida pure
il tuo vecchio e glorioso grido, Dio e popolo.
Con cotesto grido combatterono, per la libertà e
per 1' onore dell' Italia, Roma e Venezia; e io mi
scopro il capo dinanzi agli uomini che lo proffe-
riscono, dinanzi agli uomini che contano ornai
quarant' anni di sacrifizi e di abnegazioni non
ascetiche ma romane.
Solo una cosa m' è dispiaciuta nella tua let-
tera: quel " M' aspetto da voi una spiritosa ri-
sposta, alla quale io non replicherò, checché di-
ciate „. È vero: nella mia faretra, per dirlo alla
pindarica, ormai che sono in vena, io serbo delle
frecce, alcune acute come pungiglioni, altre anche
avvelenate. Ma queste le riserbo per certi paladini
che m'intendo io, quando non me ne ritenga il
disprezzo. Tu e dall' ingegno e dalla virtù e dalla
vita incontaminata spesa tutta per la libertà e
per il bene hai autorità di ammonirmi e di con-
sigliarmi: per te io non ho che ghirlande di fiori,
dei fiori nati alle aure più pure dei liberi monti.
Addio. Credi che, a immenso intervallo per
r ingegno, ma a non piccolo intervallo per le idee,
io sono lungi dalla poesia satanica dello Shelley.
Io non sono scettico. Io amo e credo. E ti stringo
la mano onorata.
Giosuè Carducci.
(Enotrie Romano)
POLEMICHE SATANICHE. 95
Nei numeri 27 e 28 decembre 1869 dello stesso giornale // Po-
polo usciva quest'altra risposta:
AL CRITICO DEL DIRITTO
(N. 355 e 356).
Il critico del Diritto, il quale mi viene all' in-
contro con aria tra il lottatore e il definitore, tra
lo spadaccino e il cattedrante, sotto la forma d' una
sbilenca gutturale dell' alfabeto greco, la K, co-
mincia dall' affermare — Satana è la ribellione.
Ecco il senso dell' inno di Enotrio Romano.
II.
Veramente, non tutto. A me pareva, e pare,
di aver inneggiato da principio la natura nel senso
cosmico; mi pareva, e pare, di aver .proseguito
inneggiando la incarnazione più bella ed estetica
della natura nell' umanesimo divino della Grecia;
mi pareva, e pare, di aver finalmente cantato
la natura sempre e l' umanità ribelli necessaria-
mente nei tempi cristiani all' oppressura del prin-
cipio di autorità dogmatico congiunto al feudale
e dinastico. Mi pareva in somma di avere adom-
brato, come in una poesia lirica potevasi, la sto-
ria del naturalismo, panteistico, politeistico e ar-
tistico, storico, scientifico, sociale. Chieggo per-
96 POLEMICHE SATANICHE.
dono di tutti questi epiteti alto-sonanti, che non
son del mio gusto; ma bisogna pure intendersi,
e in fretta.
III.
Ma Kappa del Diritto non vuole del concetto
mio afferrare che una parte; della mia piccola
epopea non guarda che a un episodio, a due versi;
e dice: — Ecco tutto. Il Satana di Enotrio Ro-
mano è la ribellione. —
Sopra che, Kappa mi fa una lezione; come
qualmente ribelli sono anche i briganti di Cala-
bria, e non v'è ribellione la quale ragioni e di-
scuta; e mi domanda se io ho trovato la linea
che separa V esercito degli insorti in nome d* un' idea
pura da quel dei ribelli per un pregiudizio, e se
non mi pare che la superstizione stessa sia santa
agli occhi della vittima che per essa s' immola.
Vero è eh' egli mi concede benignamente che il
brigante di Calabria non sia il mio Satana. Sfido
io: con tutti quelli agnusdei a dosso.
La lezione è, del resto, serenamente ingenua.
Ma come? non avete voi, signor mio, presentito
la risposta? Si, io posso ammirare, se volete, la
fede cupa e feroce de' vandeani, e il lor precipi-
tare, uomini, donne e fanciulli, dalle ceneri dei
loro villaggi, per le campagne fumanti, su le le-
gioni dei turchini, e ciò per la causa di un dio
che li lascia scannare e abbrustolire, e di re che
POLEMICHE SATANICHE.
97
lesinano a Londra il quattrino o sbordellano a
Venezia. Li posso ammirare; ma sto coi turchini,
e faccio fuoco su' vandeani. Cosi vuol Satana,
" la forza vindice della ragione „.
— Conosci tu, o poeta, una ribellione che ra-
gioni e discuta? —
Ne conosci tu una, o critico, che non ragioni?
— Quando si afferma il no, si è analizzato il
SI. Quando uno che giace si solleva contro un
altro che gli sta sopra, ha fatto almen tre giu-
dizi, su lo stato suo, su la condizione di chi glie
sopra, su le relazioni tra quello stato e questa con-
dizione; un sillogismo perfetto, insomma. I bruti
non si ribellano: e né pure i filosofi alessandrini.
Ciò pe '1 ragionamento.
Quanto al discutere, le ribellioni veramente
non discutono esse, o discutono con argomenti
loro speciali; ma per lo più portano le conclu-
sioni o avanzano le premesse. Conoscete voi un
ergo più logico del io agosto 1792 e che me-
glio conchiuda V antecedente del 14 luglio 1789?
E quale argomentazione contro le Speranze
d* Italia di Cesare Balbo e le teoriche dei mo-
derati del quarantasette ha vinto in perspicuità
le cinque giornate di Milano? E qual premessa
v' è stata al mondo più vasta e terribile delle
giornate di giugno del 1848?
Certamente, le ribellioni non compongono trat-
tati, ma coi trattati caricano i fucili. Qualche
palla che percosse la Bastiglia dove esser cal-
Carducci. 4. 7
98 POLEMICHE SATANICHE.
cata con uno straccio di pagina del Contratto
sociale. E nella fucilata che risonò per le eleganti
scalee delle Tuileries vi era forse qualche sprazzo
dell' anima tua, o Diderot.
IV.
Ma, oppone Kappa, lo studio della vita e del-
l'universo ci mostra: che non v' è una forza ri-
belle soltanto; che anzi vi sono due forze, 1' azione
e la reazione; che il mondo appare dominato so-
vranamente dalla legge della contraddizione; che
il fatto non è isolato e circoscrittO; ma indefinito;
che il fenomeno non termina in sé medesimo, ma
si lega a un altro fenomeno; che tutto in somma
neir universo è relativo, che tutto s' incatena, si
limita, si prolunga.
— Bene. Sapevamcelo.
— Che farà dunque il Satana della ribellione
in questo immenso e complicato universo dei fatti
e delle idee? — domanda Kappa.
Al meno meno farà quel che il Satana della
leggenda, quando a forza di tentazioni novissime
e sottilissime aveva indotto un povero anacoreta
nel peccato mortale di tenersi per santo e di
far miracoli. Il Satana della leggenda finiva la
festa con un solenne scroscio di risa infernali.
Il Satana della ribelHone riderà di volo (ha al-
tro da fare) del vedere certe brave persone per-
dere il tempo a mettere assieme certe loro locu-
POLEMICHE SATANICHE. 99
zioni e creder su '1 serio di far dei pensieri; del
vederle nelle regioni vaporose delle forinole an-
dare cercando ostacoli di nebbia da mettergli tra
i piedi.
Lasciamo le formole, proprietà troppo indivi-
duale a un tempo e troppo poco determinata ;
e veniamo ai fatti; che sono in possesso di
tutti.
Ma come ? Perché senz' Anito non s' intende
Socrate e senza il Gessler non v' è Guglielmo
Teli; volete voi eh' io non protesti co '1 pensiero
e co '1 fatto contro i preti inquisitori e contro i
tiranni feudali? Perché alla gran rivoluzione dei
grandi giacobini dovè succedere; grazie all' im-
pero; la piccola reazione dei piccoletti congre-
gazionisti; volete voi eh' io riconosca la Risto-
razione? Perché senza la pena di morte non
avremmo avuto il martirio di Socrate; di CristO; di
Giovanni Brown; mi vorreste consacrare il carne-
fice? Eh via! le son parole.
Ma son parole con le quali da certa gente che
vuole i suoi comodi si sdrucciola comodamente
air adorazione del fatto compiuto; della necessità
•storica che si rivela co'l barbaglio dell'acciaio e
dell' oro. Siete voi carne da Cesari; cari signori?
Allora voi co'l vostro dio officiale (perché non
dovreste ammettere, in grazia dello statuto, un
dio officiale; fatto compiuto?) approvate pure il
buon successo e cantate il Tedeum a' colpi di
stato. Noi ci volgiamo venerando alle prigioni
-lOO POLEMICHE SATANICHE.
e ai patiboli: Victrix causa diis placuit sed vieta
Catoni.
V.
Mi accorgo ora di essere acerbo anzi che no
verso il mio critico, il quale in fondo ammette,
come vedremo, dell' idea mia tanto che basta per-
ché ci troviamo sur un punto d' accordo. Son
dunque acerbo. Ma la colpa è tutta mia? E non
vi è ella in Italia una certa critica, e special-
mente quella che credesi nuova e razionale, la
quale abusa un po' troppo del parlare per via di
-oracoli, la quale procede un po' troppo co' passi
della sibilla incamminantesi al tripode? E il tri-
pode è il più delle volte una cattedra di legno
più o meno tarlato, più o meno verniciato; e gli
oracoli sono edizioni ritoccate dei boccali di Mon-
telupo; e la sibilla spira un odor di pedagogo
da far raggrinzare il naso a tutti gli uomini di
buon gusto: figuratevi a chi inneggia il Satana
della ribellione, come dice Kappa!
Il qual Kappa, per esempio, ha una maledetta
aria di essersi voluto impancare tra Quirico Fi-
lopanti e me un po' po' con le intenzioni e tutto
affatto con l' atteggiamento del Napoleone man-
zoniano:
Eì fé' silenzio, ed arbitro
o . ' Si assise in riiezzo a lor.
i
POLEMICHE SATANICHE. lOI
A proposito, perché nomina egli il segretario
della Costituente romana, il patriotta e lo scien-
ziato onorando, con sproposito grammaticale " il.
Quirico Filopanti „ ? Vorrebbe ella esser cote-
sta una smorfia dì dispetto barbaramente scim-
mieggiata del gergo curiale? Kappa dunque, se-
dutosi su la sua cattedra in mezzo a noi, par guar-
darci con un suo certo risolino, e — Il Quirico
— ei dice — è un povero di spirito che si scanda-
lizza di nulla; e tu, o poeta (mi interpella, come
sentite, assai democraticamente), e tu sei molto in-
di-etro d' idee. Noi abbiamo camminato di molto ;
e per ciò ora ci riposiamo, osservando tutto,
giudicando tutto, ricercando la legge dietro il fe-
nomeno. Noi delle idee ne abbiamo a bizzeffe,
e di si fatte, che se le mettessimo fuora!... Ma
ora è il tempo del divenire: ora si ponza, e di
lotta non e' è bisogno. E per ciò le teniamo nella
scatola dei fiammiferi. —
Da vero eh? - .
VI.
Kappa, del resto, salvo la mutria del pedagogo,
salvo il posare dell' uomo che ha i cocomeri in.
corpo, dev' essere una buona e brava persona.
Egli fa del pedagogo, quando mi domanda se io
con Satana voglio risuscitare 1' assoluto condan-
nato dalla scienza e dalla coscienza del nostro
secolo, se io voglio con Satana opporre altare ad
I02 POLEMICHE SATANICHE,
altare, dio a dio. Ma che vi pare^ maestro? sono
elleno cose queste da dirsi né men per ischerzo?
Si posa come V uomo dei cocomeri, quando, sgra-
nata una filza di noi che paion tanti paternostri
d' un rosario conchiude : — Come volete voi che
ci appassioniamo per Geova e per Satana noi
che vediamo nelF uno e nell' altro due creazioni
dello spìnto umano? — To', ce le vedete soltanto
voi? Oh il raro uomo selvatico da mostrarsi-
ne' giorni di fiera !
Ma poi Kappa si degna d' interpretarmi, e
m'interpreta, in parte, da quel brav' uomo che è.
— Il Satana del poeta — egli dice — ha avuto di-
versi nomi attraverso i secoli. Si è chiamato So-
crate, ecc.... Si è chiamato Cristo, ecc.... Si è.
chiamato Galileo, ecc.... Dove un uomo combatte,
soffre, e muore per un' idea, per la giustizia, per
la verità, ivi è una incarnazione di quella forza
misteriosa che gli uni chiamarono Geova, gli altri
Satana, ecc. —
Benissimo. Ma via quel Geova! Via il dio-re-
prete della casta ieratica de' semiti, il quale altro
non fece a' suoi bei giorni che inebriare di san-
gue e di furor militare, e d' egoismo, e d' odio
al bello al vero all' umano, quel piccoletto osti-
nato e valoroso popolo degli ebrei! Via Geova!
Non lo vogliamo ! E anche su quella " misteriosa
forza „ avremmo che dire. Per noi essendo quella
forza non altro che la ragione collettiva, come
dicono, del genere umano, non ci vediamo misteri.
POLEMICHE SATANICHE. IO3.
VII.
Ma, stando cosi le cose, e il mio Satana es-
sendo, per confessione dello stesso Kappa, da per
tutto " dove un uomo combatte, soffre e muore
per un' idea, per la giustizia, per la verità „, per-
ché non comprende egli il Satana della ribellione
nel mondo d' oggigiorno ?
" Il mondo — egli dice — fino a ieri fu un
edificio che riposava sulla fede cieca dell' assoluto.
Religione, poHtica, letteratura, tutto portava l'im-
pronta di questo concetto. Non vi era allora dub-
bio nelle anime.... — E seguita affermando che
oggi v' è il dubbio ; che oggi non si sa qual sia
il campo di Satana e quale il campo di Dio; che
oggi tutto è relativo e mutevole, tutto è problema;
che oggi nulla è, tutto diviene.
No: io sono qualche cosa; e perché sono qual-
che cosa, vivo e combatto. No: io non voglio
aspettare che il tutto divenga, con le mani in
mano o sotto le ascelle o incrociate su '1 petto, e
guardandomi la punta del naso, come i solitari
del monte Athos, o il bellico come li ioghi. Io
non sono né un iogo, né un popò, né un magi-
ster di filosofia.
E poi chi vi ha detto che 1' assoluto non im-
pronta più la religione? O i nuovi misteri che
van ripullulando a pie del gran tronco della
chiesa cattolica? O il rifiorire del dogmatismo
I04 POLEMICHE SATANICHE.
e del teologismo anglicano e luterano? che si-
gnifica ciò?
Chi vi ha detto che V assoluto non impronta
più la politica? O il primo articolo dello statuto?
O il " per la grazia di Dio „ ? Non vogliamo illu-
derci: in quelle due cose (parole per voi altri)
e' è pur tanto da accendere alla prima occasione
propizia d' una buona infornata di deputati cleri-
cali e d' un momento di resipiscenza religiosa, da
accendere chi sa che bellezza di roghi qui in
piazza San Domenico e costà in piazza Santa Ma-
ria Novella, e bruciar teologicamente e costitu-
zionalmente voi, se non mettete giudizio, e me,
che probabilmente non lo metterò.
Per intanto voi avete costà in Firenze un mi-
nistro, un ministro proprio del Diritto, e il suo
positivista segretario, che imposero T obbligo della
dottrina cristiana a tutte le scuole elementari. Per
intanto voi avete costà in Firenze, e sempre nella
veneranda badia del conte Ugo, ove il ministero
dell'istruzione risiede tra due chiese, voi avete
degF impiegati cosi detti superiori che ai filosofi
hegeliani i quali vanno a far loro visita im-
pongono il rispetto della religione cattolica. Per
intanto voi avete costà in Firenze, e sempre nella
veneranda badia, persone le quali nelle conferenze
magistrali sonosi studiate di mandar persuasi i
professori liceali di filosofia che nell' insegnamento
filosofico il mistero almeno della trinità e quelli
della incarnazione e della redenzione (e perché
POLEMICHE SATANICHE. I05
non anche gli altri?) bisognava pure ammetterli
e sostenerli. Per intanto voi avete costà in Fi-
renze la semi-officiale filosofia ortodossa del si-
gnor Augusto Conti, la quale sotto forma di ri^
stretti eleganti a pochi soldi vola, svolazza e si
volatilizza nei cervelli giovanili per le scuole ita-
liane. Per intanto, voi morbidi scettici, voi ra-
zionalisti annacquati, e costà in Firenze e da per
tutto, seguitate ad inchinarvi all' opera letteraria
di Alessandro Manzoni, che (dicasi con rispetto
air ingegno dell' uomo, ma francamente e satani-
carnenie) che rinfiancando il cattolicismo e pro-
movendo il neoguelfismo ha tanto nociuto all' Ita-
lia. Ed è dolce cosa a vedere come cotesti uomini
letterati che elessero la parte migliore, arrabat-
tandosi intorno alla fama del vecchio illustre mi-
lanese, abbiano preso argomento dall' accettarne
le teoriche su la lingua per fare lor coloniette di
morale cattolica e di dolciume letterario in di-
verse contrade d'Itaha: è dolce cosa a vedere
una gioventù squarquoia e slombata agitarsi tutta
in solluchero all'idea d'introdurre i Promessi
Sposi nelle scuole e di proporli come unico e
sommo esempio di prosa alla nazione. Oh Boc-
caccio, oh Machiavelli, primi razionalisti e realisti
italiani! O scettici che andate in visibilio ai mi-
racoli raccontati da fra' Caldino quando va dalle
eommari alla cerca: o razionalisti che incurvate
il capo alla benedizione di padre Cristoforo: Dio
sia con voi. Voi avete bisogno d' un guanciale
Io6 POLEMICHE SATANICHE.
ove riposare V anìmuccia trafelata; ma cotesta non
è via per eui si approdi a libertà. E intanto, co-
stà in Firenze ed altrove, dove la buona scuola la-
vora, avete mitriate nuovo poeta d' Italia il signor
Giacomo Zanella, che della scienza si fabbrica
scale per 1' assoluto e che facendo un inchino alla
ragione battezza T eleganza pagana di Virgilio e
Catullo nelle pilette delle chiese di Maria. O buona
e pietosa scuola, tu hai sollevato colle tue pure
mani i pesciolini che fuor delle onde mistiche del
Giordano boccheggiavano su le arene del dubbio,
e gli hai restituiti nelle grandi acque dell' ideale
del Manzoni e nelle chiare fresche e dolci acque
del signor Zanella: oh, buona e pietosa scuola I
E in più spirabii aere
Pietosa il trasportò!
Ma intanto Kappa dice che 1' assoluto non im-
pronta più la letteratura; ed egli sta osservando
il divenire del nidla.
A questi ultimi giorni il re di Prussia, all' oc-
casione che i ministri della sua confessione gli
erano intorno per ragione di complimenti, ri-
volse loro la parola più seria del consueto, ed
evangelizzò. Si, il re del diritto divino, che co-
minciò a costruire la gran patria alemanna co 'I
diritto di conquista, evangehzzò : come troppi fos-
sero gli assalti che la chiesa dei fedeli soffriva:
come bisognasse pur credere a ogni modo che il
messia è proprio e legittimo figliuolo di Dio pa-
POLEMICHE SATANICHE. IO7
dre : come il credere altrimenti fosse mala cosa,
e a lui; oltre ogni dire, spiacente. Ora i filosofi
di Berlino, buona e cappata gente se altra ve
n'ha, sono tanti anni oramai che stanno osser-
vando, come per parte sua fa Kappa. E quante
idee intanto han sollevato! acute ed eminenti di
certo, ma, a dir vero, un cotal po' vaporose, come
a punto le cime dei loro abeti. Ma acute ed emi-
nenti, e nuli' affatto vaporose, e tutt' affatto soli-
damente metalliche, sono anche le punte degli
^ elmi dei corazzieri del re teologo.
Vili.
Ultimamente Kappa dice che io, pur cercando
d' intonare un inno di rivolta contro la Chiesa,
le rendo invece omaggio, perché non ho fatto
altro che vestire il demonio con la luce divina
dell' angelo celeste, e che il prete di Roma
mutando il nome di Satana in quel di Geova,
potrebbe dell' inno mio fare un cantico orto-
dosso.
Si provi pure il prete di Roma, e canti, se
vuole, la Venere anadiomène e il bello e candido
Adone, e canti la cupa congiura del medio evo
e r ardita riscossa del Rinascimento e Martin
I^utero, e la scienza e la macchina del vapore.
Contento lui, contenti tutti, anche Kappa. Il quale,
se prima di scrivere avesse riletto, sarebbesi cer-
tificato che il mio Satana non ha di angelo nulla.
ro8 POLEMICHE SATANICHE.
lo con gii angeli non me la dico : gli lascio stare
a mezz' aria, tra cielo e terra, in compagnia dei
passerotti e degli scrittori vaporosi.
Il mio Satana è piuttosto una specie di ebreo
errante, che per panteistica trasformazione passa
di fenomeno in fenomeno, di mito in mito, d' uomo
in uomo. E cosi segue da molti secoli. Se una
forma propria volessi dargli, lo rappresenterei
giovine di verde e immortai gioventù, come gli
dèi della Grecia, ma severo e mesto ad un tempo
nella sua raggiante bellezza. Con la spada nel-
r una mano e nelF altra una fiaccola egli sali-
rebbe di monte in monte, guardando all' alto.
Excelsior è il suo motto, come quel dell' ignoto
peregrino americano del Longfellow. E nella ima-
ginazione mia egli non può sostare che su la
cupola di Michelangelo, in vetta al San Pietro.
Quando egli sarà colassù, noi suoi fedeli sotter-
reremo finalmente Geova. Perocché cotesto vec-
chietto dio, che che ne paia a Kappa, è vivace:
altri si è affaticato finora a seppellirlo, ed egli fa
mostra di rassegnarsi; ma ad un tratto scover-
chia la tomba, e salta fuori, e va girondolone pe'l
mondo, sprizzando di tra i buchi del suo lacero
mantelluccio ebreo qualche raggio crepuscolare
che abbaglia e accieca gì' incauti. Ma noi lo sot-
terreremo profondo, più profondo che i cretesi
non facesser con Giove; perocché gli accataste-
remo a dosso la grave mora del cattolicismo ro-
mano. Questo è r officio degl' italiani. Allora, se-
POLEMICHE SATANICHE. JD9
polto r antico avversario^ Satana si dileguerà
anch* egli nei crepuscoli del vespero, e spunterà
il nuovo giorno. Per adesso,
Salute, o Satana,
o ribellione,
o forza vindice
della ragione.
Per chi fosse curioso di tutta tutta la polemica intorno al Sa-
tana, ecco anche due note, che le attengono, dalla edizione
fiorentina delle Poesie di G. C, Barbèra, 1871.
I.
Questo inno a Satana, ripubblicato dall' ani-
moso e ingegnoso direttore del Popolo di Bolo-
gna, E. Bordoni, Y 8 dicembre 1869 che si apriva
il Concilio ecumenico, spiacque forte all' amico
mio Quirico Filopanti; e me ne rimproverò, e lo
chiamò ricisamente un' " orgia intellettuale „. Non
ci voleva altro: tutti, per qualche giorno, si occu-
parono de' fatti miei : i democratici politici sbo-
fonchiarono, i filosofi compassionarono, i clericali
mi paragonarono al Troppmann e nei giornali
e per lettere più o meno anonime mi promisero
l'inferno senz'altro: fino il bordello spalancò
tutte le sue camere per dirmi — Fatti in là, tu
se' indecente —, e la fogna mi sbuffo in viso una
tanfata d' indignazione. Nelle risposte al Filopanti
no POLEMICHE SATANICHE.
e al critico del Diritto io credo di aver mostrato
la ragionevolezza, la moralità, la opportunità
de* miei intendimenti, e a quelle rimando chi non
mi vuol male.
Qui, poiché ripetermi non voglio, chiedo li-
cenza a un amico mio di riportare la interpreta-
zione eh' ei fece del Satana nel primo numero
dell'Ateneo italiano (7 gennaio 1866) quando
esso Satana, dato in luce la prima volta nel no-
vembre del 1865 in Pistoia con la data d' Italia
anno mmdcxviii dalla fondazione di Roma e co '1
nome, che allora presi per la prima volta, di
Enotrio Romano, cresceva
Pur all'ombra di fama occulta e bruna.
< Questa non è certo poesia da santi, ma da peccatori; pec-
catori che non s' involano ai consorti nelle fitte selve, né le
proprie virtù appiattano, che altri non ne goda o non le
tenti; che delle umane allegrie, degli umani conforti, non si
vergognano; e delle vie aperte non se ne chiudono nessuna.
Non laude, ma inno materiale. Enotrio canta, dimentico delle
maledizioni che dà il catechismo al mondo, alla carne, al
demonio.
« L'ascetismo perde i difensori e le vittime: l'uomo non
va gingillando tra le aspirazioni, le inspirazioni, le espiazioni
de' mistici. I diritti rispetta, cerca e vuole il bene; ma l'amore
alla donna non gli pare peccato, né i sollazzi festevoli de'be-
vitòri. Ora in quegli occhi ardenti e ne' scintillanti vasi e' è
Satana. — Alle gioie della terra guardavano i riti degli Ariani,
poi da' riti semitici o mascherati o scacciati; ma il popolo non
li dimenticò, e alle segrete virtù della natura durò lungamente
a chiedere i prodigi degli stregoni, suoi sacerdoti, e salute e
profezie. Ora il maestro è Satana. — Alle gioie della terra
POLEMICHE SATANICHE. Ili
ubriachi di paradiso, si tolgono gli anacoreti: ma natura
tarpate le ali, meno agile al volo, salta loro addosso. I canti,
fuori da quelle celle non empii, coi fiori della poesia vergine
colle gesta dei forti, rifrugano nelle assopite coscienze e le
avvampano. Ora, o conducano alle fantasie macerati cadaveri
o imaginette di femmine o trionfi dì soldati, que' canti escono
dalla bocca di Satana. — Di sotto al fumo de' bruciati, veg-
gonsi frati rifarsi uomini, innamorati di gloria civile, di nuovi
teoremi, di nuovi dorami: cocolle di domenicani e di agostiniani
cadono a terra: s'agita l'ingegno; slegato per poco tempo, poi
da ogni setta che invecchia rincatenato; ma nelle giovani
scuole che ne rampollano sempre rinnovellato con forza. — Ora
è una tentatrice, un demonio anche la libertà: lo svolgimento
delle umane attività, onde ci cresce insieme il pane e il sorriso,
la ricchezza e l' onore, non è che Satana, Ma Satana che non
china il capo dinanzi alle imprecazioni degli ipocriti; ma glo-
rioso, a' sereni aspetti di chi applaude. Cosi canta Enotrio, e
sopra al carro satanico guida in trionfo il suo iddio...
Quest' inno sgorga a due fonti, e, presto congiunte, placide
ne scendono le correnti: i beni della vita e l'ingegno ribelle
alla servitù. Ma e' è altra acqua che a forza vi entra e più da
alto precipita, più rapidamente, e con fremito e rigoglio vi
mescola le sue onde; strepito, non armonia. — Il Tentatore,
che pungendoli ridona al mondo gli cantontiinoruineni de' chio-
stri e delle selve, e alle scienze le vigliacche pecore della tra-
dizione, non è
dell'essere
Principio immenso.
Materia e spirito-
Ragione e senso.
Altri inni voleva l'unità panteistica.
Alla quale ultima osservazione deir amico mio
altre se ne potrebbero aggiungere, specialmente
circa lo svolgimento lirico e la forma di questa
112 .POLEMICHE SATANICHE.
poesia, che non è/ come alcuni miei benevoli vo-
gliono credere, gran cosa. Ma ora sono in via
di difendermi; e per ciò vorrei mi fosse lecito,
quanto agli intendimenti miei, ripetere quello che
Arrigo Heine diceva di sé: " Io non appartengo
ai materialisti i quali corporizzano lo spirito; io
rendo anzi lo spirito ai corpi, li rispiritualizzo
Io non appartengo agli ateisti : essi negano, io
affermo. „ ,
Con tutto ciò, e per quante dichiarazioni io
faccia, so bene che certe censure ingenue (dico
cosi per mo' di dire) non le potrò evitar mai:
come quella d' uno scrittore dell' Italia Centrale
( credo ) di Reggio, il quale del mio affermare che
il benessere la felicità la bellezza sono cose al-
tamente umane e non bestemmiabili con l'inci-
viltà dell' ascetismo dava queste ragioni: che in
fatti io sono un buontempone, che viaggio su le
strade ferrate in prima classe e che mi piacciono
le violette', quelle, s' intende, alla Dumas. Io mi
imagino che quello scrittore sia giovine, e gli
dico: Voi potete non intendere o volere non in-
tendere gì' intendimenti miei : ma, quando pre-
tendete illustrare lo scritto con la vita, cotesta
vita dovete conoscerla. Sapete voi che cosa po-
trebbe essere quel che ora avete fatto? Per ora è
una leggerezza. — A un altro signore debbo pur
dire una parola: a un altro signore, già afifer-
mantesi amico mio e al quale non so di essere
-stato mai nemico io. Egli mi rimproverò la " re-
POLEMICHE SATANICHE. II3
siiiccia satanica rubata a un Michelet „ ; e mi par
che aggiungesse " a un Michelet, dico „ con un
punto ammirativo. Ho detto mi pare ^ perocché egli
tratta cosi d' alto in basso Giulio Michelet, 1' au-
tore della Storia di Francia, in uno scrittarello
facondo su un telone dipinto pe '1 teatro del Cairo,
scrittarello dedicato all'Altezza reale del Kedive;
ed è cosi picciol fascicoluccio che mi andò smar-
rito tra le carte. Povera Italia! Del resto, ch'io
abbia attinto dal Michelet, lo dissero anche due
benevoli miei, Adolfo Borgognoni e Luigi Mo-
rando Certo: la lettura delle opere del Michelet,
e di quelle, aggiungo io, confessandomi, del
Heine, del Quinet, del Proudhon, hanno confe-
rito al mio Satana. Qual meravigUa!
IL
In que' giorni che alcuni fogli italiani fecero
un po' di chiasso dell'inno a Satana, l'Unità
Cattolica cavò fuora da un libretto di mie rime,
impresso del 1857 in San Miniato, una lauda
spirituale su la processione del Corpus Domini,
per istituire alcuni confronti tra il Giosuè Car-
ducci del '57, quando Pio ix comandava a Bo-
logna e il Granduca di Toscana a San Miniato
e correa l' andazzo della religione, e il Giosuè
Carducci del '69 e '70 nell' andazzo dell' empietà,
comandando Lanza a Firenze e Bardessono a
Bologna.
Carducci. 4. 8
114 POLEMICHE SATANICHE.
Veda bene la Unità Cattolica: ella può dire
quel che vuole, ma il commendator Lanza e il
conte Bardessono sono cosi innocenti dell* empietà
mia, come è vero che Leopoldo ii di Toscana
avrà certamente molti meriti appo Dio, salvo
quello di avermi con la sua verga ritenuto entro il
branco delle pecorelle bianche. Se lo scrittore del-
l' U n i t à C a 1 1 o 1 i e a non si fosse fermato alla prima
stazione o alla prima osteria, vo' dire alla prima
indicazione d' alcuno de' suoi pii corrispondenti
dì Toscana, se egli avesse avuto in mano e sfo-
gliato il libretto, avrebbe trovato sùbito alla pa-
gina sette r orribile verso
Il secoletto vii che cristianeggia,
non voluto pubblicare dallo stampatore senza un
calmante di nota, e che ciò non di meno fece al-
lora scandalo anche ^ certi cui oggi apparisce
superstizioso fino il culto della dea Ragione. Se
egli avesse chiesto notizia di me a chi meglio
mi conosce anche tra' suoi amici, avrebbe saputo
come io tanto seguitavo l' andazzo della poesia
religiosa allora di moda, che del '55, essendosi
nuovamente scoperto in Pisa non so che santo
o beato, io ragazzo parodiavo gli Inni sacri cosi :
Oggimai che ritornati
Son di moda e stinchi ed ossa
E né meno gì' impiccati
Son sicuri nella fossa,
Anche a voi la quiete spiace,
Fra' Giovanni della Pace?....
POLEMICHE SATANICHE. II5
Gloria a Cristo ritornato
Tra i bagagli di Radeschi
Su l'altare appuntellato
Dalle picche de' tedeschi:
Converti la baionetta
Questa terra maledetta.
Questa terra, che del nostro
Sangue e pianto è molle ancora,
Brontolando un paternostro
Su zappiamo alla buon'ora
Per trovare ossa di santi
E di frati zoccolanti....
Come va dunque il negozio della lauda su '1
Corpus Domini e dell' ode per la beata Diana
Giuntini? Ecco qui. Passai V anno 1857 tra Santa
Maria a monte e San Miniato; e sapendomi pizzi-
car di poeta, i festaiuoli di que' paesi due volte
ricorsero a me per il sonetto. Io allora ero tutto
in Orazio e nei trecentisti (Frigida pugnabant
calidis, humentia siccis); e mi saltò in capo di
mostrare che si potea fare poesia religiosa tra
pagana e cristiana e anche cristiana pura ma non
manzoniana, e di provare in fine che la fede nella
forma non ci entrava e che pur senza fede si
potevano rifare le forme della fede del beato tre-
cento: era come una scommessa. Cosi per una
festa di Santa Maria a monte, feci quest' ode alla
beata Diana in stile oraziano, e indi a due mesi per
altra festa in Castelfranco quella lauda spirituale
nello stile del secolo decimoquarto e decimo-
Il6 POLEMICHE SATANICHE.
quintO; alla quale, per indizio del mio intendi-
mento, inscrissi due versi del Casa,
E con lo stil ch'ai buon tempi fioria
Poco da terra mi sollevo ed ergo.
Tanto è vero, che fin d' allora Napoleone Ciotti,
in un giudizio molto savio ed onesto su le mie
rime stampato nello Spettatore, mi rimproverò
tale scetticismo di forma pe "1 quale da Febo
Apolline passavo al Corpus Domini. Aveva ra-
gione; né io poi negli anni seri ho più commessi
di questi sacrilègi retorici. Del resto, si persuada
la Unità Cattolica: pur troppo fin da' bei tempi
di Leopoldo ii io era tra' capretti neri, e non
fiai mai né pure un micolin giobertiano. Altri poi
da cotesti confi-onti della Unità Cattolica e dal
sentir ricordata certa grammatica italiana del-
l' abate Facondo Carducci ebbe pur dedotto che
anch' io un tempo mi sia trascinato tra le gambe
un po' di sottana nera. Oh no, né scrissi gram-
matiche né lessi il breviario né portai tonaca mai»
LEVIA GRAVIA
Prefazione ai Levia Gravia di G. C.
Bologna, Zanichelli, 1881;
e in Confessioni e Battaglie diG. C, Serie 2»s
Roma, Sommaruga, 1883.
e' Levia Gravi a, che a richie-
sta deir editore signor Nicola Za-
Tiichelli ho rivisto e riordinato, il
titolo non cuopre più quella merce
un po' mista che all'ombra sua navigava e naviga
nell'edizione pistoiese del 1868 e in quelle poi
del Barbèra, ma raccoglie insieme soli i versi
composti da me tra il 1861 e la fine del '67.
II.
Breve corso di tempo, e pure grande spazio
della vita e tutta una storia a chi allora era gio-
vine. Oh anni eternamente memorabili, quando
r Italia invasata dell' uno non vedeva nell' aritme-
tica più né il dieci né lo zero ! Oh età travaglio-
samente gloriosa del brigantaggio e delle strade
ferrate meridionali, delle corporazioni religiose
I20 LEVIA GRAVIA.
soppresse e della banca sarda levata a parte dello
stato! Oh mesi eroici di Roma o morte, quando
un mio amico allora moderato urlava mostro al
generale Garibaldi e lo rendeva in colpa del
non essere stato ammazzato^ e con le braccia
tese dimandava a tutte le colonne dei portici
di Bologna: — Ma perché non lo fucilano? —
Oh stagioni di splendore, quando i commenda-
tori appariano venerabili come una gerarchia di
Eloimi, e i petti dei droghieri si gonfiavano sotto
la croce de' due santi cavallereschi ! Quelli che
allora li bestemmiavano, oggi devono conten-
tarsi della corona d' Italia, ordine mmorimi gen-
tium, meditato dalla vendetta presaga del mar-
chese Gualterio (i colpiti nella ragione, super-
bia umana, sono alle volte divini) contro le orde
minaccianti dei progressisti. Oh giorni d' epopea,
quando il generale Cialdini cavalcando dal pa-
lazzo Albergati correva la città per sua e faceva
scapitozzare il campanile di San Michele in bosco,
acciò la bandiera tricolore potesse meglio annun-
ziar di lassù ai venti dell' Adria e delle Alpi come
sopra quel colle di longobarda e papale memoria
si compiacesse villeggiare Sua Eccellenza vitto-
riosa il duca di Gaeta! Chi non credeva allora,
o chi avrebbe tollerato non si credesse, il duca
di Gaeta essere il primo generale d'Europa? Mi
ricordo la pietà grande, che, al rompere della
guerra austriaca, i nostri buoni borghesi teneri
di cuore avevano per quei poveri prussiani. For-
LEVIA GRAVIA. 121
tuna che il general Cialdini, spazzando come una
procella il Veneto, marcerà su Vienna! A Vienna,
gridavano, a Vienna, quando il generale parti.
E a memoria eterna di quella partenza per la
vittoria, il Comune di Bologna fé' incidere di pa-
role gloriose una lapide da murare nel palazzo
Albergati. Non so poi se fosse murata o smurata.
III.
Intanto su dal detrito della coltura di quindici
anni avanti, che marcito a pie de' vecchi tronchi
rifermentava anch' esso in quel ribollimento di
tutta la materia nazionale, spampanavano alle-
gramente, sotto gli stelloni delle vecchie albagie,
con la vegetale facilità delle debolezze, i roso-
lacci della nostra vanità letteraria.
Protesto che io non voglio dir male della ge-
nerazione che fioriva ancora e di quella che venne
su intorno al '59. Molto esse fecero per la patria,
molto, co '1 valore splendidamente addimostrato
nelle prove delle armi, co '1 consiglio opportuna-
mente audace nei rischi della politica, con gli
animi nobilmente accesi e concordi innanzi al
santo ideale d' Italia, che pareva discendere allora
allora dal cielo di Dio, tanto era bello, e invece
albeggiava da tempo su le tombe dei nostri morti
(sieno benedetti in eterno) e dai cuori dei grandi
afflitti che ci erano maestri, padri e fratelU. Ma
quelle due generazioni furono le meno estetiche
122 LEVIA GRAVI A.
forse che da un pezzo il bel paese avesse pro-
dotto. Dal '45 in poi non si era più studiato^ né
si poteva : anzi, tutto che avesse avuto apparenza
di studio libero e indipendente intorno alle ra-
gioni e alle forme dell' arte era vituperato ; e si
capisce. Ma il romanticismo fantastico del '48
doveva pur trasmutarsi in fatto materiato: la ca-
pelluta cometa estravagante doveva turbinando
accentrarsi e rotondarsi in pianeta glrantesi con
regolar rotazione. Quelle forme crepuscolari di
salci piangenti, che erano i romantici, semoventi
all' aure delle arpe eolie od angeliche, dovevano
pur diventare uomini e uomini ragionevoli; e
aveano, poveretti, tutte le voglie di rifarsi della
quaresima. I classicisti e gli altri della lettera-
tura civile erano nel travaglio digestivo del di-
ventare parlamentari. I giobertiani, le teste grosse
allora della coltura nazionale, accomodavano le
filosofiche sopracciglia agli occhiali cavouriani, e
dal bosco della facondia mangiato in foglia as-
sorgevano al bozzolo della pratica. I puristi poi,
dinanzi all' esercito piemontese, all' alleanza fran-
cese, all' unificazione della legislazione, dell' am-
ministrazione, dell' istruzione, parevano tanti cani
bastonati. Per fortuna, di tedeschi allora non si
parlava, se non per maledirli (né di questo ave-
vamo tutti i torti); per maledirli, o per disprez-
zarli come un popolo senza letteratura, con una
filosofia trascendentale e con una critica altret-
tanto trascendentale, che sciupava i testi latini
LEVIA GRAVIA. I23
COSÌ schietti e gustosi nelle edizioni de' preti.
Trascendentalel Rabbrividisco ancora se tento ri-
sentire con la memoria la impressione demoniaca
di quel vocabolo su le nostre patriottiche fibre.
Avevamo vinto — si credeva, facendo inegual
giudizio della virtù nostra — con e mercé la for-
tuna, r astuzia, la Francia. La fortuna, ubriaca-
tici co '1 buon evento, ci andava lusingando e am-
mollendo con la: sicurezza nell' esaltamento ner-
voso delle nostre forze, per poi delusi abbatterci
nella sfiducia e nel disprezzo di noi stessi. Di
astuzia ci reputavamo ancora maestri solenni; e
strizzandoci V occhio gli uni verso gli altri ci am-
miccavamo accennando a gesti, che, mentre Na-
poleone III credeva di darla a bere all' ItaHa,
r Italia la dava a bere a Napoleone in, e poi Na-
poleone III e r Italia d' accordo la davano a bere
air Europa. Cosi le anime nostre, che dovevano
rifiorire fresche nella vita nuova, s' impiastric-
ciavano sempre più nell' attaccaticcio della falsità,
vecchia morchia paesana, machiavellismo in po-
litica, gesuitismo in religione, accademia arcadica
e idealistica in letteratura. Dinanzi lo spaventac-
chio della Francia marciavamo barcollanti tra le
logiche contraddizioni della servilità e dell' odio.
Eravamo, secondo le teoriche giobertiane, il primo
popolo del sistema planetario; per altro, dopo i
francesi, e ciò contro le teoriche giobertiane.
E facevamo, intanto, una letteratura pelasgica
124 tEVIA GRAVIA.
IV.
Il romanzo storico, infatti, vestito da guardia
nazionale, correva, coli' uzzolo d' un vecchio a cui
manca il meglio, dietro la politica; e pretendeva
esercitare in piazza le disgustose funzioni del suo
concubinaggio, legalizzato in nome dell' unità e
della libertà. Il teatro italiano risorgeva da tutte
le parti. Noi pochi, facendo delle braccia croce,
gridavamo. Grazia! E di gran cuore confessa-
vamo r Italia essere la più drammatica nazione
del mondo. Non firmammo ieri la convenzione
con la Francia? e il marchese Pepoli non è li
pronto a tagliarsi la mano con cui la firmò, se
ella non avesse a significare la imminente entrata
degl'italiani in Roma? Inutile! Non c'era caso di
passare per una via che non ci cascasse tra capo
e collo un capolavoro drammatico. Il leopardismo
intisichito allungava le sue braccine di ragnatelo
inflanellate di frasi verso il manzonismo; e il
manzonismo idropico traeva di gran sospiri, che
parevano tanti Ei fu, verso il leopardismo; e
mescolavano le loro acque. E il verso sciolto
co' vapori isterici del romanticismo e la strofe
libera con le emorroidi classiche ballonzolavano
intorno. La critica era quale esser deve tra un po-
polo giovine : tutta sentimento. Ricordo ancora un
viso di... Di che cosa o di che parte del corpo
umano o bestiale monsignor Della Casa non vuole
LEVIA GRAVI A. I25
che io dica in italiano, ma Orazio in latino lo
dice: podex crudac bovis. Ricordo, dunque, an-
cora, quel viso. Aveva certi occhiettacci aflfogati
dentro una grassa di giallo sporco colante come
strutto; e de' versi giudicava strisciando la destra
gota sbarbata su '1 libro o su '1 manoscritto, non
senza lasciarvi i segni: e poi sgranava quegli oc-
chiettacci di sbieco verso i travicelli, e arricciava
il niffolo, e fiutava; e grugniva: 'Un ce affetto^
glia. Un altro — che Catullo avrebbe chiamato
salaputiiim disertum, e io, se il reo monsignore,
che pur fu scrittore bellissimo e scrisse il Forno
e la Formica, non me lo vietasse, chiamerei
benissimo un cazzerellino tutto voce e penne —
ma la voce era come d' un coniglio che zighi e
le penne come d' un* oca cui un industre paesano
di Castel bolognese abbia alleggerito del bianco
mantello ed ella mostri i bordoni — quel sala-
puttum disertum, dico, significava sempre la sua
approvazione battendo il pugno su '1 tavoHno e
berciando: — Qui c'è del fegato.
Del resto, Vittorio Emanuele e il general Ga-
ribaldi facevano, in critica e in estetica, pove-
retti !, le spese di tutto e per tutti. Un professore
a punto, di estetica, scopriva raffigurato il capi-
tano del popolo non so più se nell' Aiace o in
quale de' due Edipi di Sofocle. Beatrice che cosa
significasse, si era alla fine scoperto. To', l' Italia
una! O non si presenta a Dante nel paradiso ter-
restre con tanto di tre colori a dosso e d' intorno?
120 LEVIA GRAVI A.
Un professore di lettere italiane a ogni ricorsa
di quindici giorni terminava la lezione con un
grande abbracciamento tra Vittorio Emanuele e
Dante. Le signore battevano furiosamente le mani.
Quel rincontro tra un vivo e un morto, tra quel
re fortemente tarchiato e quel poeta rabbiosa-
mente magro, tra il naso erto e i mustacchi del
sabaudo schiafifeggianti Y aria con biondo orgoglio
e il superbo naso spiovente e le guance sdegno-
samente cascanti dell' etrusco, tra T uniforme del
generale piemontese e il lucco del priore fioren-
tino, tra il kepi ( non usava ancora 1' elmo, sotto
cui Vittorio Emanuele stava cosi male) del mi-
litare monarca e il cappuccio del repubblicano
letterato; quel rincontro di quel countacc e di
queir " alma sdegnosa „ cosi a mezz' aria, nella
region dei rondoni, feriva la fantasia delle nostre
signore; la quale, come tutti sanno, è tanto pura-
mente estetica!
Di lingua si seguitava a parlare, come sempre:
la lingua italiana morirà, e gì' italiani saranno
anche li a contendere se ella sia mai esistita. Il
toscanesimo co' suoi solecismi e con le gentilezze
infranciosate faceva strage ne' cuor teneri e negli
scritti duri dei cittadini del nuovo regno. Mi suit
tuscann, giurava ogni buon valtellinese. E i ve-
neziani emigrati e i fiorentini esuli nella propria
città mescolavano insieme le loro pappe frullate
neir odio ai piemontesi. Pietro Fanfani si leccava
i baffi. E quei poveri napolitani e siciliani face-
LEVIA GRAVIA. I27
vano capo a lui, per raccattare a' suoi piedi i
minuzzoli che egli, Epulone e Trimalcione dei
lacchezzi e dei bocconcini ghiotti, spazzava via
di quando in quando colla salvietta delle sue eie»-
ganze dalla imbandigione del bel parlare. La
grammatica andava come poteva, come i cani in
chiesa: peggio per lei, se ne toccava da tutti.
— Eh giuraddio — , sacramentavano i manzoniani
e i giustiani della regia non per anche allora nelle
apparenze cointeressata, — noi s' è fatta V Italia
con gli spropositi — .
E intanto fabbriche idropiche, tisiche, rachiti-
che, le più brutte che la terra del Panteon e della
loggia dell' Orcagna abbia mai sopportate, ci cre-
scevano e ne si premevano intorno, come tanti
ergastoli della fantasia, come tanti stabilimenti
penali dell' estetica. E un popolo di statue, ne-
gl' intermezzi della tassa su la ricchezza mobile
e del corso forzoso, saltava su a consolarci. Oh
dèi del Museo vaticano e del Nazionale di Na-
poli! oh santi di Donatello e di Michelangiolo!
che statue! Una vera tregenda di apparizioni
scappate via dal sogno spaventoso d' un gobbo
coir incubo. Svolgevano le loro sinuosità e fles-
sibilità di lucertole in mosse da pipistrelli fino
air idealità delle gru o alla gravità serena delle
civette. O posavano nella semplicità delle linee,
come gruppi di gabbiani fermi in cima d' una
scogliera, ritti su' piedi, co' petti levati, con le
ali calate giù lungo le gambe, volgendo i bec-
128 LEVIA GRAVIA.
chi verso V occidente. E con que* musi, quelle
figure, guardando nel vuoto, dicevano al sole an-
noiato e alle stelle che ridevano tra loro: Noi
siamo le glorie d' Italia.
Ahi, ahi ! il regno d' Italia segnava in tutto e
per tutto r avvenimento del brutto. Brutti fino i
cappotti e berretti de' soldati, brutto la stemma
dello stato, brutti i fi-ancobolli. C era da pren-
dere r itterizia del brutto. Certa mattina, in va-
pore, una sfilata di colline picene su '1 mare (per-
donatemi, o antichi dèi della patria) mi parvero
tante berrette d' impiegati che si levassero allora
da letto. E giunto al Verbano dimandai: Che è
questa sputacchiera?
Tornavo dal centenario di Dante in Firenze.
Avevo notato su lo sfilare di quelle processioni,
cosi contente di sé e del loro bocio e del fi-uscio
delle loro bandiere, gli atteggiamenti delle grandi
statue che dal campanile di Giotto al palazzo
della signoria popolano di gloria e di bellezza
il nido di quella democrazia che ralluminò il
mondo. Le barbute facce degli apostoli stavano
dispettosamente mute: le madonne e le sante
piegavano le teste sotto un nimbo di tristezza fa-
tale, quasi nel presentimento delle sventure e ver-
gogne vicine: i santi battaglieri si contorcevano
fremendo; e nella calma divina di san Giorgio
compresi un lampo d' ira e come un atto di met-
ter mano. Non potei tenermi dal gridare : — Giù,
e botte da orbi, o fratello! — Un classico di ro-
LEVIA GRAVIA. I29
magnolo che m' era li al fianco senti soltanto 1' ul-
tima parola^ e se la prese per un saluto. Mi ab-
bracciò tutto rossO; mi sbatacchiò contro il muro
urlando quanto n' aveva in gola — Viva V Italia^
il poeta divino e il veltro ghibellino ! — Non pre-
tendeva mica il brav' uomo dì far versi: ma la
poesia di quegli anni era su per giù tutta cosi.
E pure io avea seguitato un po' di tempo a far
del mio meglio per ispingere punzecchiando il
rossinante del mio idealismo lungo la via sacra
in coda ai palafreni impennacchiati e alle gual-
drappate alfane, dietro gli effluvi trionfali. Ma
non ci fu versi: la magra bestia pur zoppicando
rignava e traeva calci e giocava di morsi; scappò
di traverso a scorticarsi per le siepi e a brucare
i cardi. Io finalmente, lasciata lei a' suoi cattivi
gusti e le bestie giudiziose a' loro trionfi, riparai
nella solitudine co' miei pensieri, traendo un so-
spiro lungo e largo che parve uno sbadiglio. Non
ne potevo pili. E pure un vii facchinaggio quello
di dovere o volere andar d' accordo co' molti! Al-
lora anche proposi di metter giù ogni ambizione
di poeta e dare i miei studi e tutta 1' operosità
dell' ingegno alla storia letteraria e alla filologia.
Il proposito era savio, e fu male non durarvi.
V.
Io credo fermamente che oggigiorno in Italia,
a chi voglia mantenersi quel po' di reputazione
Carducci. 4. 9
130 LEVIA GRAVI A.
che possa essersi fatta o come uomo di studi o
come persona seria, non convenga, prima di tutto,
scrivere. Che se uno non può resistere alla pue-
rile abitudine di sporcarsi le dita d' inchiostro co '1
pretesto d' illuminare o divertire il mondo, scriva,
se vuole, de' cattivi romanzi e de' pessimi drammi,
ma versi, no. Che se l' infelice è da vero inva-
sato dal fanaticus error dei versi, se per conge-
nito cretinismo la sua animalità s' è ostinata a
quel noioso giuoco di pazienza che è 1' accasel-
lare un dato numero di parole in un dato spa-
zio di linea, se per un intellettuale ballo di San
Vito egli è condannato a pensar balzellone con
quei saltellini che si chiamano strofe, non voglia
dare spettacolo pubblico di sé, oibò! si riserbi
per gli amici e per la serva, o a spaventare e
volgere in fuga i creditori. Perché, badino bene
i giovani educati, far versi in Italia è un' abietta
vocazione e un mestiere vigliacco.
L' italiano, contro un' opinione assai superfi-
ciale, non è popolo poetico, o almeno non è più
tale da un pezzo, o al più non ama in versi che
le gale, non gusta che gli spumoni, non sente
che r istrionia. Il popolo italiano può darsi ab-
bia genio per le arti plastiche, forse ha della
passione per la musica. Ma innanzi alla poesia,
innanzi a quest' arte disinteressata di delineare
fantasmi superiori o interiori simmetricamente
nella parola armonica e pura, il popolo italiano,
pratico, positivo, machiavellico, che pur nelle più
LEVIA GRAVIA. I3I
calde espansioni mira con mente fredda all' utile
e godibile immediatamente e in materia, rimane
di ghiaccio.
E per il poeta egli sente tra la compassione
annoiata e V avversione paurosa la quale si ha
per un essere che esca dalle norme e forme con-
suete dell'umano organamento: ciò, quando lo ri-
spetta. Ma le più volte lo considera come un che
di mezzo tra il buffone delle antiche corti e il
pazzo melanconico dei romanzi sentimentali; e
tiene sé stesso troppo educato e civile si che possa
divertirsi con un buffone e con un caso di patolo-
gia. In altre occasioni l'idea che dell'individuo ver-
seggiatore si fa il popolo italiano è sempre quella
del poeta delle compagnie comiche d' una volta,
o de' vecchi cantastorie che una volta annoiavano
di lor nasali declamazioni accompagnate da un
infernale segar di violino le piazze i ponti ed i
porti rallegrati dal sole. E se l' individuo verseg-
giatore veste, per esempio, decente, il popolo ita-
liano ha un istintivo timore che quell' abito non
sia suo, e che nell' individuo ben vestito si sma-
scheri a un tratto il pitocco a chiedergli un po' di
soldi per rinfrescarsi la gola o per isdigiunarsi.
Ora i suoi soldi il popolo italiano, rincivilito
com' è, li vuol serbare per gli orbini di Bologna
che suonano il violino meglio certamente dei vecchi
rapsodi, o pe' piccoli calabresi, non redenti ahimè !
dall' abate Zanella, i quali almeno strimpellano
una chitarra vera in vece di una metaforica cetra.
132 LEVIA GRAVIA.
Finalmente il popolo italiano, per essere giu-
sti anche con lui, che in somma è carne della mia
carne e sangue del sangue mio (salvo la trasmis-
sione), nel fòro della sua conscienza sta sempre
onestamente su la guardia, per non essere una
bella volta aggredito e preso pe '1 collo dalla vera
poesia. Ei non vuol compromettere la sua serietà:
la sua commozione lacrimosa, i suoi raggianti en-
tusiasmi, la fatica delle mani e magari de' piedi
plaudenti, ei la serba tutta per la frase, per la
frase, amor suo, in fin di periodo, là ne' teatri,
ne'camposanti, nelle accademie, nei banchetti, nelle
università, in parlamento. Là, là, in quel polverio
di ammirazioni con la tosse, in quella baldoria
di sventolati entusiasmi, in quel tanfo di patriot-
tismo e di vino, di virtù e di muschio, di este-
tica e di sudore, di critica e d' olio da lumi, in
quel mercato di carne, di viltà e di ciarlatane-
ria; là, là, siede e troneggia il vostro giudice, o
fantastici superbi e metafore ambulanti, che vi
credete avere uno sgorgo di armonie intime pe-
riodico, che credete veder salire dai vostri cervelli
solitari de' fantasmi pensosi come tanti spazzaca-
mini o geni del commendator Monteverde. Rin-
graziate co '1 cappello in mano, miserabili, se
alcuno di que' gentiluomini, sentendovi declinare
poeti, vi domanda graziosamente: A quando 1' ac-
cademia ?
E tutto questo è il men male.
LEVIA GRAVIA. I33
VI.
Nella vita pratica e nel maneggio delle fac-
cende, che r individuo verseggiatore, essendo per
disgrazia un bipede, dee aver comune con gli
altri bipedi civili ma non verseggiatori, lo scia-
gurato ha da essere necessariamente un.... Come
s' ha a dire? Minchione, è poco. Aiutiamoci an-
che noi con le frasi. Una specie di fanciuUone
sempre sviato dietro le farfalle e a rischio sem-
pre di battere il naso nelle cantonate, un lièvito
sciocco da essere rimpastato ad arbitrio del primo
furfante che voglia metterci dentro del sale, un
organino da caricare in certe occasioni per so-
nare a conto di questo o di quello queste o quelle
arie secondo si monta il registro.
Uscite di casa dopo ore di lavoro che una
volta si sarebbe detto benedettino, e il primo
che vi capita tra' piedi è buono di salutarvi
cosi: " Beato lei, che almeno si diverte! Dica la
verità, quanti sonetti ha sfornati oggi? „ E chi
vi abborda cosi sarà un avvocatino, che non ha
altra faccenda se non dì portare a spasso tutto
il giorno la sua chiacchiera politica. — Andate
per un affar di denaro.... Ah, un poeta a fir-
mare una cambiale! Vi lascio immaginare i
commenti, e ripenso al commentatore, che indi
a pochi mesi faUi non da vero per frode, po-
ver' uomo!
134 LEVIA GRAVIA.
Andate a rendere testimonianza in un processo;
e il pubblico ministero non manca di avvertire
i signori giurati che non vi diano retta. " V illu-
stre poeta avvezzo a cogliere fiori nei giardini
delle Muse.... „ e via e via con quella processione
di tropi che suole accompagnare il santissimo sa-
cramento della giustizia nell' eloquenza dei pub-
blici ministeri. E dire che quel severo sacerdote
di Temi è uomo che rallegra poi la conversazione
con amenissime spiritose invenzioni. Raccontava
per esempio, una volta, che, in non so qual bat-
taglia della campagna di Russia, suo padre, o,
salvo il vero, un suo prossimo parente, avendo-
gli un cosacco con una sciabolata taghato via un
pezzo di cranio e colando per la grossa fessura
il cervello, si chinò presto presto, raccattò del cer-
vello che gemea da un altro cranio spaccato di
cosacco per terra, lo soppresso dentro il cranio
suo e lo rimpastò co '1 cervello suo; e così visse
molti anni. Tra il sacerdote di Temi e me fio-
rista delle Muse chi più.... poeta?
Sarete uomo di poche parole e di pochissime
amicizie; difficile a dar la mano, difficilissimo a
dare e ricevere il tu; avrete dato invece prove
convincentissime di possedere certe virtù il cui
fermo e continuo esercizio Y uomo ha anche bi-
sogno d' imparare da certi quadrupedi, di essere
cioè, indipendente come un gatto, costante come
un mulo, filosofo come un orso. Ciò non impe-
dirà che un imbecille, con la scusa di farvi il
LEVIA GRAVIA. I35
bozzetto; dopo misuratevi a centimetri le mani e
i piedi (tali atavismi guantai e ciabattineschi^
come anche la gran perizia di parrucchieria, at-
testano il legittimismo democratico di molta cri-
tica odierna italiana) esca poi a far sapere alle
persone che voi credete ancora all' onestà e alla
amicizia (certa marinatura di scetticismo mostra
r uom navigato nella distinzione, come dice quella
gente), e che credete amici tutti gli uomini, e
onesti tutti gli amici, e che questi vi menano
ubbriacato di parole a recere altre parole; ma che
voi in fatti amate i banchetti dove si beve bene,
gli amate in qualunque occasione, per qualunque
pretesto, con qualunque partito; e che voi in fondo
non siete né rosso né verde né bianco, e che por-
reste il berretto, o non so che altra cosa, ai pie
d' una donna che vi sorridesse; e simili ciance,
le quali, con quest'aria di spirito e di morale che
tira oggi in Italia, possono anche parere cose gen-
tili e onorifiche, e che voi dobbiate ringraziarne
queir onesto e intelligente signore.
In verità, a sentirmi chiamare poeta, il mio
primo moto istintivo (lo tengano a mente i miei
ammiratori) è di rispondere con uno schiaffo.
Ma torniamo a parlare di cose allegre, cioè di
pazienza: della pazienza alla quale è condannato
chi ha da scontare peccati di poesia. Ecco qui
anche due bozzetti.
Notino i lettori: io non fo come certo arcade
cattivo soggetto, il quale rovescia il brodo di la-
136 LEVIA GRAVIA.
sagne de' suoi versi sciolti su chi gli ha fatto del
bene, e poi protesta che la sua ribaldaggine è
poesia e della poesia non rende conto: io di-
chiaro anzi che i miei bozzetti, fatti e da fare,
sono tutti dal vero.
Primo bozzetto. Al ristoratore. " Ah 1' autore
del Satana ! Dopo tanti anni, chi 1' avrebbe detto?,
ti trovo famoso. Sono tornato, sai, or è due mesi,
dall'America: e sento parlare di te da vero con
molto favore. Ne ho piacere. Beato te che in fondo
credi sempre a qualche cosa ! Perché nel Satana,
vedi, c'è dell'idealismo: oh se ce n'è! Bisogna
aver passato la linea anche nella vita, per tro-
vare e fare il realismo vero. Io non scrivo versi;
ma, se avessi tempo, vorrei, e forse potrei, essere
il Byron della seconda metà del secolo, un Byron
italiano costituzionale. Sentiresti! Tutto ho cono-
sciuto, tutto ho provato, tutto ho sofferto. Ho
fatto il mercante di schiavi, ho avuto un' amante
hegra, ora ho una bambina mulatta: essa è il mio
poema. Mi son dato al commercio, e giro per
affari. Potresti farmi una raccomandazione per il
prestito di Bologna? Questi sono i miei inni a
Satana. Io rimo in cambiali. Cameriere, il conto!
Settantacinque centesimi per una costoletta? Eh,
tirate alla pelle voialtri. „
Altro bozzetto. Per istrada, il giorno dopo pub-
blicata qualche poesia. " Mi rallegro, sai, di cuore.
Eh, una volta mi divertivo anch' io coi versi; e,
non fo per dire, ma in secondo anno di rettorica
LEVIA GRAVIA. I37
agli Scolopi ero sempre io che leggevo all' acca-
demia di san Luigi Gonzaga. Il metro del mio
cuore erano i quinari: che gusto a farli!
Palma del Libano!
Rosa d'Eng-addi!
Giglio di Gerico!
Fior di Saron!
La Gilda, vedi, serba ancora tuttq le romanze
che io composi per lei quando si faceva al-
l'amore. Ma ora, che vuoi? non ho più il capo
ai versi. La politica, figlio mio! quanti fiori e frutti
annebbia la politica! Fortunato te e benedetta la
sorte che ti ha salvato nei sereni campi dell' ideale!
Del resto, e di nuovo, mi rallegro di cuore. Gran
bella cosa queir ode ! Peccato per altro che tu ti
ostini in cotesto genere ! Oh, se tu volessi tornare
alle dolci memorie della gioventù, alla poesia
dove c'è affetto! Ti ricordi?
Va per la selva bruna
Solingo il trovator,
Domato dal rigor
Della fortuna. »
Costui della poesia " dove e' è affetto „, alle
nuove elezioni sarà deputato di certo.
VII.
Tale essendo il concetto che s' ha in Italia della
poesia, cioè quello d' un giuoco di conversazione
un po' noioso, che bisogna sopportare per tradi-
138 LEVIA GRAVIA.
zione e che tutti sanno fare^ specialmente i più
imbecilli; è naturale che la gente a modo creda
di onorarvi comandandovi in certi casi versi del
tal genere per la tal ora, come in certi pranzi
si ordina una pietanza al trattore.
Direttori o presidenti di scuole normali, di so-
cietà ginnastiche, di clubs alpinisti, avendo biso-
gno dell' inno per le grandi occasioni, ed essen-
doci ancora l' uso che per gli inni occorrano
parole in rima, vi chiedono di far loro quel ser-
vizio, di mettere insieme tante sillabe in ar o in
or, o meglio in on, quante bastino per la musica.
E in vano voi cercate di far capire a quegli
egregi signori che non credete di aver fatto mai
azioni da lasciare altrui il diritto di tenervi cosi
scioperato da scrivere sur un tema per musica.
Batte un terremoto, viene a settentrione o a
mezzogiorno un diluvio d' acqua o di fuoco, manca
la pappa agli asili infantili o ci vogliono nuovi
giocattoli per i bambocci dei giardini froebeliani,
e' è degli artisti da illudere e de' lampionai del-
l'opinione pubblica da soccorrere? Ed ecco una
congiura di tre, di cinque, anche d' uno, a orga-
nizzare una strenna, un album, un giornale straor-
dinario, un numero unico. E socialismo borghese,
è questua filantropica: se non che i cappuccini
non vi chiedono T elemosina del pensiero, e i so-
cialisti rischiano d' andare in prigione; e a cappuc-
cini e a socialisti potete rispondere, adesso o al-
meno per adesso, — Non ne ho — o — Non voglio
LEVIA GRAVIA.
139
esser dei vostri — . Ma provatevi un po' a dire a
quegli altri — Intendo le veglie di beneficenza:
a ballare e mangiare in sale calde e illuminate
e fiorite per consolare quelli che han fame e
ft-eddo al buio la gente ci si gode, anche pe '1
tacito raffronto; ma ai danni, per esempio, d'una
innondazione di fiumi aggiungere una innonda-
zione di noia in prosa e in rima, seccare una
parte del prossimo per il problema di asciugar
l'altra, non la intendo: — provatevi, dico, a ri-
sponder cosi; e vedrete grinte e reputazione che
vi faranno.
Capisco che è il sommo della ingratitudine.
Come ? la borghesia vi tollera, la borghesia mo-
stra sentire il bisogno di darsi l' aria alla Luigi xiv,
di promovere la poesia nazionale come la col-
tura delle barbabietole e la pollicoltura; e voi
non vi credete in obbligo di comporre madrigali
a ogni sua voglia, empire gli albi di tutte le
Maintenon ministresse in ritiro, di tutte le Pom-
padour generalesse in attività, di tutte le La Val-
lière figliuole di borghesi zoppe o guerce e dan-
nate strimpellatrici di pianoforti?
Vili.
Essendo da tutte queste ragioni costretto a
riputare quel della poesia un mestiere molto pe-
ricoloso e un tantino infamante, avverto i troppi
signori che mi onorano di eleggermi per lettera
140 LEVIA GRAVIA.
giudice de* loro versi editi ed inediti, com' io
sono sempre per il no a priori. Lo avverto qui,
appunto per rispondere a tutti in generale, per-
ché rispondere a ciascuno in particolare riusci-
rebbe impossibile: quando anche concedessi otto
ore della giornata a spogliare le loro corrispon-
denze e leggere i' versi, e altre otto a vergare i
miei autorevoli giudizi e le mie savie osserva-
zioni, mi mancherebbe poi, giacché mangiare e
dormire un poco bisogna, il tempo di provvedere
alla spesa dei francobolli.
Riconosco che è un fiorito indizio della cul-
tura del bel paese vedersi arrivare tutti i giorni
some di versi, non pur d' autori liceali del se-
cond' anno, ma di ginnasiali della terza, e di me-
dici e di avvocati e di soldati di terra e mare,
e di guardie di pubblica sicurezza e di guardie
del dazio e di guardie di finanza e di preti, e
d' intendenti e di prefetti e di deputati e mogli
di deputati, e di giornalisti e di banchieri e di
professori d' idroterapia e d' assistenti di chimica
e di cameriere. Capisco che e' è ragione di con-
fortarsi quando un liceale di second'anno vi spe-
disce una poesia e vi annunzia una commedia,
che gliele mandiate a inserire nel Fanfulla della
Domenica, e vi scrive e riscrive e telegrafa che
vi affrettiate, perché quella pubblicazione gli può
essere un titolo per passare agli esami di mate-
matica. Ammetto eh' è un gran piacere a sentire
un moccicone dirvi su '1 muso, che per ora vuol
LEVIA GRAVIA. I4I
fare all' amore con una delle solite sgualdrine, e
che ad amar la patria ci penserà da vecchio.
Ammetto che e' è da far buon sangue a sentirne
un altro spifferarvi di queste confessioni: " Ho
diciassette anni, son triste triste, non ho voglia di
far nulla, non credo in nulla, nulla mi piace se
non forse le donnine, ma in fondo mi annoio di
tutto : i servitori di casa mi dicono che ci ho un
talentone ( e allega le prove ) : che ho da fare ? „
(Impiccatevi, risposi per cartolina sùbito, quella
volta). Confesso che a sentirmi sparare a bru-
ciapelo certe dichiarazioni, come per esempio:
" Voi non siete solamente il maestro de' bolo-
gnesi, siete il maestro di tutti gli italiani „, mi
devo mettere le mani su '1 cuore per raffrenare le
troppo dilatate palpitazioni: non mi ci manche-
rebbe proprio altro, per Giove Statore!
Sento, capisco, ammetto, confesso tutto cote-
sto; ma dichiaro e protesto che un giovane che
fa versi mi desta il ribrezzo e la nausea, e, se
lo confortassi e consigliassi,, mi parrebbe d' in-
correre in un reato previsto dal codice penale,
il reato di eccitamento e d' aiuto alla corruzione.
Del resto, case di tolleranza e giornali letterari
non ne manca in Italia.
IX.
Per queste e per molte altre ragioni era stato
savio consiglio quello da me preso dopo il '6i,
142 LEVIA GRAVIA.
lasciar da parte i versi e darmi tutto agli studi
filologici e di storia letteraria. E fu male non
perdurarvi. Ma allora almeno, quando i vecchi
amori mi ritentavano e tornavo a peccare, un
po' di pudore mi restava: peccavo travestito da
Enotrio Romano, per non scemarmi co' versi quel
po' di credito che mi poteva dare la prosa.
In tali disposizioni d' animo e di tempi e d
studi furono scritti i Levia Gravia, e se ne ri
sentono. Dei tempi e' è la leggerezza pesante e
la pretenzione enfatica e figurata che si dà e si
tiene per concettosità ed eleganza. Ci si vede poi
r uomo che non ha fede nella poesia né in sé
e pur tenta; tenta la novità, e non ha il corag
gio di rompere con le vecchie consuetudini; di
scorda dalla maggioranza, e la segue; scambia
la materia per 1' arte, o le mette in urto tra loro
si balocca facendo su '1 serio; gitta un grido, e
ha paura della sua voce che si perde nel vuoto.
Rileggendomi, mi giudico come un morto; e
anche di questo volumetto che do a ristampare
veggo e sento la livida screziatura e il freddo,
come d' un pezzo di marmo che aggiungo a
murare il sepolcro de' miei sogni di gioventù.
Sparite via presto, o morticini: io non ho né
il tempo né la voglia di farvi né meno il com-
pianto.
Una volta certo diario moderato di prima bus-
sola distingueva, a proposito del due decembre,
tra delitti utili e delitti inutili, A tale stregua
LEVIA GRAVIA. I43
l'inno a Satana fu una birbonata utile: birbonata,
non nel concetto, che per me è ancor vero tutto
o quasi, ma per l' esecuzione. Non mai chitar-
ronata (salvo cinque o sei strofe) mi usci dalle
mani tanto volgare. U Italia co '1 tempo dovrebbe
innalzarmi una statua, pe '1 merito civile dell' aver
sacrificato la mia conscienza d'artista al deside-
rio di risvegliare qualcuno e rinnovare qualche
cosa. Mi raccomando che la statua sia brutta
bene, proprio come una di quelle che accennai
più a dietro e come a' nostri scultori non sarà
difficile farla. Sia brutta, o madre Italia, sia
brutta; perché allora io fui un gran vigliacco
neir arte.
E ne porto meritamente le pene da tutti questi
ragazzi sgrammaticanti che non cessano invo-
carmi poeta di Satana. E ne porto giustamente
le pene nel veder messo il mio nome a canto a
qualche altro nome che raffigura e risuona quanto
di più vano, di più falso, di più istrionico, di
più basso e di più buffo repeva nei fondacci
della vecchia grafomania italiana; che rappre-
senta quanto nella nuova si denuda più vizza-
mente sfacciato, più bolsamente ciarlatano; che
raccoglie tutte le infermità le viltà le bugie di
una transizione che finisce e d' una che inco-
mincia. I nostri vecchi credevano, e crede il
popolo ancora, che i girini, i quali saltellano
bulicando dal polverone d' estate non a pena le
prime gocce grosse, fitte, frementi e frescamente
144
LEVIA GRAVIA.
odoranti, di ' un acquazzone d' agosto V abbiano
immollato, fossero e sieno metà fango e metà
materia organica che diventerà ranocchio. Tale
qualche nome: fango è di certo; ranocchio, ve-
dremo.
GIAMBI ED EPODI
Carducci. 4. 10
Prefazione ai Giambi ed Epodi di G, C.
Bolog-na, Zanichelli, 1882;
in Confessioni e Battaglie di G. C, serie 2»,
Roma, Sommaruga, 1884.
PEZZI in versi ristampati nei volu-
metto COSI intitolato furono com-
posti dal 1867 a tutto il '72; e ac-
cusano ciascuno con le sottoposte
indicazioni V anno il mese e fino il giorno, e cosi
gli argomenti e i motivi, della composizione. Di-
fenderne ancora i sentimenti e le forme noierebbe
oramai me più che altri : troppo già V ho fatto.
Ma questa nuova edizione, che presenta per la
prima volta raccolti tutti insieme i criminosi giambi
{ roba da procuratore del re, affermava a' bei tempi
di S. E. Cantelli un moderato, letteratissimo in
crusca e in leopardaggine), mi tenta a dir qual-
che cosa dello spirito generale che li animò, e
in quale ambiente e tra quali circostanze furon
prodotti. .
148 GIAMBI ED EPODI.
II.
Io.... Chiedo perdono di tanto ripicchiare del
pronome personale in questo e in altri miei
scritti di prosa a quei precettori e maestri miei
novellini^ i quali si presero il carico di ammo-
nirmi anche per la posta che dovrei smettere
di seccar la gente con l' io. Veramente, a giu-
dicare dalla fortuna mercantile dei libri e degli
opuscoli dove la mia persona prima scorrazza per
ogni pagina come un bambino ebro di primavera
per un campo di baccelli in fiore, che la gente
si secchi non si direbbe. Si direbbe anzi che ella
senta come quel pronome personale, per chi sa
fare, può essere pretesto a dare il volo a osser-
vazioni, idee e concetti, che certo valgono meglio
del mio povero io, e forse anche più del noi
sgrammaticato de' miei precettori....
Io dunque era dei moltissimi che nel '59 e
nel '60 accolsero la formola garibaldina Italia
e Vittorio Emanuele, senza verun entusiasmo
per la parte moderata e i suoi condottieri, ma
lealmente; un po' per riconoscente affetto al re e
al Piemonte, nella cui fermezza aveva trovato
qualche consolazione la miseria del decennio, un
po' per il concetto che nella fusione dell' ele-
mento signorile co '1 cittadino, dell' esercito co '1
popolo, delle memorie monarchiche d' una parte
con le democratiche di altre parti del paese, nella
GIAMBI ED EPODI. I49
cospirazione della fedeltà e della libertà, della di-
sciplina e dell'entusiasmo, della tradizione antica
e della fede nuova, la storia d' Italia, questa isto-
ria mirabilmente complessa, che ha in sé tutti i
semi, tutti li svolgimenti, tutte le fioriture e sfiori-
ture di tutte le idee, di tutte le forme e di tutti i
fenomeni politici, troverebbe alfine, meglio che
non avesse fatto la greca, il suo esplicamento e
complemento necessario, la liberazione, la unione
e la grandezza di tutta la patria per virtù e forza
della nazione, senza e contro ogni ingerenza stra-
niera; esempio nobilissimo, e utile eccitamento
alle altre genti oppresse dal comune inimico.
E che tali concetti non fossero fuori o sopra il
possibile, dimostrarono i miracoli del '60; come
di certo non potevano ravvicinare e conciliare
noi alla parte moderata gì' indegni procedimenti
dopo l'acquisto delle Due Sicilie usati con l'eser-
cito meridionale e il suo gran capitano, la poli-
tica violenta insieme e corruttrice, tirannica in-
sieme ed anarchica, incerta, debole, inetta, che
sgovernò le province del mezzogiorno, la mise-
rabile soggezione a tutti gli imperi di Francia,
r agguato di Aspromonte, la sguinzagHata licenza
a tristi vanterie e rappresaglie crudeli, la conven-
zione di settembre vantata con le sue bilaterali
dissimulazioni come un trionfo dai nepotuncoli del
Machiavelli, i quali, rinnovando i pericoli del muni-
cipalismo, essi che non avevano voluto le regioni,
insanguinarono freddamente e ferocemente Torino.
150 GIAMBI ED EPODI.
E pure sopportammo cotesto, e altro avremmo
sopportato, se, dopo tanta affermazione di forze,
dopo tanta magnificenza di promesse, dopo tanta
esigenza di aspettazioni, dopo tanta istantanea e
misteriosa digestione di milioni assorbiti a ondate
di respiro dalla voraginosa ingluvie della Guerra
e della Marineria, se dopo una dittatura di cinque
anni i moderati ci avessero dato nel 1866 la vit-
toria. Ma i vincitori di Castelfidardo ci diedero
Custoza, i trionfatori di Gaeta ci diedero Lissa.
E il duca di Gaeta, già donato d' una corona
aurea, non so se merlata o rostrata, dal gran
partito che si credè scolorare a furia di chinca-
glieria lo splendore della camicia rossa, l' epistolo-
grafo del 21 aprile 1861, che senza pur rimovere
dalle labbra la sigaretta stiè a guardare il ferito
d' Aspromonte salutante in vano con gentilezza
serena mentre era trasportato a bordo della Stella
d' Italia, il generale Cialdini, dico, dopo ottenuto
libero il campo alla sua azione fin dalF ombra del
comando reale e dal? impiccio dei principi, iion
seppe, la dimane di Custoza, far meglio che cor-
rer su e giù per la riva del Po come una rondine.
La similitudine è d' un corrispondente di giornali
d* allora; e, cosi leggiadretta, grava nella memo-
ria, e più su *1 cuore, co'l peso di cento anni per-
duti per la storia d* Italia.
E pure, come ogni male non vien per nuocere,
massimamente nelle vicende delle nazioni, cosi
le vergogne del '66 non ci recarono tutti quei
GIAMBI ED EPODI. I5I
maggiori danni che potevano, in quanto la spada
dell' arciduca Alberto tagliò netta la cresta alla
galloria del partito moderato, il quale oramai cre-
deva d' esser proprio lui che la mattina co '1 suo
chicchirichì ordinasse a Domeneddio di mandar
fuori il sole. Il gran partito fu accapponato, e, se
schiamazzò ancora, dove, pure schiamazzando,
vedersi attorno su V aia i partitini galletti a con-
tendergli il becchime e a montargh sotto gli oc-
chi suoi le galline sue. Il che del resto, secondo
le buone tradizioni costituzionali, fu un bene per
r avvenire del pollaio parlamentare. E con la di-
minuzione del gran partito fini d' imbozzacchire
anche la famosa letteratura dei quindici o diciotto
anni. Povera letteratura di cuor contenti a pancia
liscia, con 1' aureola dell' ideale su la scriminatura
romantica della grande chioma spiovente alla
tempia destra! Come potremmo noi consolarci
della sua disparizione, se qualche saggio non ce
ne restasse nei pavoncelli spennacchiati di Milano,
nei tacchini male inghebbiati di Torino, in qual-
che gazza ladra (proprio ladra) a Firenze, in qual-
che putta scodata a Venezia?
Ma che! non mi credete, o lettori, faccio per
ridere. Che importava, e che importerebbe a me,
che r oligarchia dei moderati, imbaldanzita dalla
vittoria e rafforzata dal conseguente militarismo,
avesse seguitato a trattare il paese anche peggio
di prima? che importava e che importerebbe,
pur che l' Italia avesse vinto a Custoza e a Lissa ?
152 GIAMBI ED EPODI.
A tutto si rimedia, fuor che al disonore. E in
queli' anno 1' Italia ebbe inoculato il disonore:
cioè la diffidenza e il disprezzo fremente di sé
stessa, il discredito e il disprezzo sogghignante
delle altre nazioni. Sono acerbe parole queste
eh' io scrivo, lo so. Ma anche so che per un po-
polo che ha nome dall' Italia non è vita 1' esser
materialmente raccolto e su '1 rifarsi economica-
mente, e non avere né un' idea né un valore po-
litico, non rappresentare nulla, non contar nulla,
essere in Europa quello che è il matto nel giuoco
de' tarocchi : peggio, essere un mendicante, non
più fantastico né pittoresco, che di quando in
quando sporge una nota diplomatica ai passanti
su '1 mercato politico, e quelli ridono: essere un
cameriere che chiede la mancia a quelli che si
levano satolli dal famoso banchetto delle nazioni,
e quasi sempre, con la scusa del mal garbo, la
mancia gli è scontata in ischiaffi. Quando sarà
promosso a sensale o mezzano? La gloria delle
storiche città è sostenuta dai ciceroni e da gente
di peggior conio. Le più belle tra esse sospirano
al titolo e alla fama di locande e di postriboli
dell' Europa. E la plebe contadina e cafona muore
di fame, o imbestia di pellagra e di superstizione,
o emigra. Oh menatela almeno a morire di gloria
contro i cannoni dell' Austria o della Francia o
del diavolo che vi porti!
Mi ricordo ancora di una dimostrazione in cui
m' abbattei per le vie di Bologna, quando Ve-
GIAMBI ED EPODI. I53
nezia fu restituita all' Italia^ cioè per magnanimità
di Napoleone iii legittimo donatario fu da un ge-
nerale Leboeuf consegnata non so più a qual ge-
nerale italiano. Aveva pioviscolato tutto il giorno,
e una tristezza d' autunno tingeva di bigia noia i
palazzi in mattone. Il sole calava tra certi nuvo-
lacci di pece, mandando lungo il cielo su i cam-
panili su le torri su' bei cornicioni di terra cotta
uno sprazzo o uno sputo d' un rossastro crudo
di rame. Un centinaio di sciamannati portavano
attorno una bandiera tricolore gridando i soliti
viva. La tinta rossa e la verde stemperate dalla
pioggia in quei cambrì di pochi soldi colavano a
rigagnoli sucidi su'l bianco un porcume indistinto,
ove il rossore della vergogna si mescolava al li-
vidore della colpa. Non potetti tenermi, e urtai
del gomito e un po' della spalla uno di quei di-
mostranti eh' io conosceva. — Chetati, sciaurato, —
gli dissi — : voi cantate 1' esequie all' onore d'Ita-
lia — . Intanto rincominciò a piovere: un' acqueru-
giola fina fina e fitta fitta mi forava i nervi del
cranio, del collo e del petto come un mazzetto
d' aghi avvelenati : mi pareva di soffrire in me
stesso il tatuaggio dell'infamia. E non fu tutto.
Che poi venne Mentana, e la cacciata dei nostri
soldati dai confini pontificii, e gli scandali parla-
mentari e r acquisto di Roma. Oh l' entrata in
Roma ! H governo d' Italia sali per la via trion-
fale come fosse la scala santa, ginocchioni, con
la fune al collo, facendo delle braccia croce a
154 GIAMBI ED EPODI.
destra e sinistra, e gridando mercè — Non posso
fare a meno, non posso fare a meno : mi ci hanno
spinto a calci di dietro — . O moderati, non siate
voi mai a metter fuori parole ammonitrici di al-
terezza e dignità nazionale!
Ecco sotto quali impressioni, in quale ambiente
e con che sangue furono scritti i giambi e gli
epodi.
Ahi, come punto da mortifer angue,
Ahi di veleno il cuor ferve e ribolle!
Era proprio cosi.
III.
Cosi nei sentimenti di cittadino. Come uomo,
ero a bastanza tranquillo.
Nel marzo del '67, delegato dall' Università a
partecipare a un comitato generale per le ele-
zioni politiche nella città e provincia di Bologna,
combattei francamente la candidatura dell' onore-
vole Minghetti, e fui principale autore che un
nuovo comitato si constituisse a propugnare le
elezioni di uomini d' altri principii di governo da
quelli di destra. Ciò senza odii e furori. Ecco
due fatti.
Quando con i particolari della battaglia di Cu-
stoza venne la notizia delle prove sostenute in
quella fiera giornata dal principe di Piemonte e
dal duca d' Aosta, io e il professor Teza, allora or-
namento e ora onorata memoria della Facoltà di
GIAMBI ED EPODI. I55
lettere dì Bologna, ci riscontrammo in un subi-
taneo pensiero di mandare a' due principi parole
di plauso e di saluto. E scrivemmo tutt' e due
d' accordo, non certo co '1 bello stile cortigiano,
quello che si dice un indirizzo. Sparsa la cosa
per la città, i soscrittori, figuratevi, non manca-
rono. Mancarono i nomi nostri: venuti al sotto-
scrivere, io per ragioni mie democratiche pensai
meglio di non farne nulla; e il Teza, moderato
di tre cotte, ma cottura e pasta a modo suo, per
timore di volgarità fece lo stesso. Ancora. Dopo
che a nuove elezioni le urne del primo collegio
di Bologna risposero no alla candidatura dell'ono-
revole Minghetti, fu nella Facoltà di lettere di
Bologna chi lo propose a dottore collegiato eme-
rito: io sostenni la proposta, e l'onorevole Minghetti
riusci eletto a vóti unanimi collega nostro d'onore.
Ed egli poi ci fu valido sostenitore in Comune
contro certe economie progressiste, e da ultimo
dotò la Facoltà d' un premio annuale agli alunni
migliori.
Fazioso dunque, no, mai: non affermerei ugual-
mente di essere stato un modello di temperanza
neir esprimere le mie opinioni e le mie passioni,
massime dopo Mentana. Ma erano eglino tem-
perati gli avversari? A ogni modo io non discesi
mai a tali parole contro gì' italiani parteggiatori
degli zuavi pontificii, quali ne udii con queste
orecchie uscire contro Vittorio Emanuele da boc-
che moderate fiorentine negli ultimi giorni del
156 GIAMBI ED EPODI.
ministero Rattazzi. Oh, certi moderati, i quali
nella loro ignoranza pigliano a prestito dalle acca-
demie r aggiunto di plebeo a chi scrivendo ado-
pera i termini di Dante, certi moderati, se sorpresi
nei momenti che la natura loro dilaghi, oh come
accusano nel furore dei pettegolezzi cianeschi e
nella triviahtà delle idee e del linguaggio la bas-
sezza della educazione ed estrazione loro e la
volgarità degl' istinti e delle passioni ! Già, basta
dire che ammirarono il Civinini rimmachiavellito
e gustano del Yorick.
Nel '67 feci anche parte del Comitato diret-
tivo d' un' associazione democratica di Bologna,
e cooperai alla spedizione garibaldina nell' agro
romano. Ma, prevalendo su la fine dell' anno nelle
tornate la eloquenza, della quale e segnatamente
della popolare io mi confesso scarsissimo ammi-
ratore, mi ritirai dal Comitato, per occuparmi a
ordinare e illustrare una grande raccolta di can-
zoni a ballo, di canti carnescialeschi e di poesie
popolari antiche, che in quegli anni di estrava-
gazioni anarchiche avevo ricercate e copiate quasi
tutte di mia mano per le biblioteche di Firenze
e d' altrove; raccolta che prima o poi pubblicherò
ordinata in più volumi meglio che non facessi nel
saggio uscito del '71.
IV.
Imperava intanto con propositi spiegatissimi
di repressione il ministero Menabrea.
GIAMBI ED EPODI. I57
E un bel giorno di novembre mi vidi arrivare
una bellissima lettera dell'onorevole Broglio mini-
stro per la pubblica istruzione, con la quale esso
signor ministro, lodandosi, per bontà sua, della
mia operosità letteraria, per aprire un più largo
campo al mio ingegno e rendere più utile al ser-
vizio pubblico il mio insegnamento, mi destinava
alla cattedra di letteratura latina nella Università
di Napoli. Certissimo di non aver merito nessuno
presso il Ministero della repressione, rimasi dì
stucco, e chiedevo a me stesso — Onde tanta
benignità e questa sollecitudine di premiazioni
a' miei lavori d' italiano con una cattedra di la-
tino? — A Firenze e a Bologna i moderati affer-
mavano apertamente, come la cosa più naturale
e più giusta del mondo, che la nuova destinazione
sotto forma di promozione era punizione e remo-
zione: punizione per aver fatto contro alla can-
didatura dell' onorevole Minghetti, remózione per
levarmi dal caso di provarmici un' altra volta.
Io invece pensava — L' onorevole Broglio ha
due idee fisse, rialzare la musica italiana e creare
la lingua italiana. Quanto alla musica, io lascio so-
nare, non me ne intendo; e, più sonan forte, più
mi piace: sono tedesco. Quanto alla lingua, io
credo che esista da settecento anni, o almeno
almeno da quando scrisse Dante, e non vedo il
bisogno di crearne una nuova. Ecco perché l'ono-
revole Broglio non mi vuole a insegnare l' italiano
e mi vuole paralizzare nel latino. Furbo l'onore-
158 GIAMBI ED EPODI.
vole economista! Ma io più furbo di lui! non
mordo all' amo : a Napoli non vado, resto a Bo-
logna a insegnare che la lingua italiana e' è. —
Cosi la discorrevo tra me e me; e seguitavo —
Vedete a che un' idea fìssa, un' allucinazione, può
condurre anche uomini di valore e di proposito,
quale e quanto 1' onorevole Broglio. Egli, uomo
d'ordine, membro d'un ministero il cui termine:
fisso è rendere e aggiungere forza alle leggi dèlio
stato, ora, per quell' ubbia della lingua, volen-
domi rimosso da una cattedra ove il mio inse-
gnamento non converrebbe alla sua filologia, urta
in una legge dello stato che sancisce inamovibili
i professori. Egh, ministro dell' istruzione pubblica,
pe '1 quale tutte le università primarie han da
essere eguali; egli, che sa l'università di Bologna
non pure primaria ma la più antica d'Europa, e,
ove qualche mancamento avesse riscontrato nel-
r ordine degl' insegnamenti impartitivi, dovrebbe
riparare al difetto riducendola in quelle condizioni
che sono da lei; egli, l'onorevole ministro, viene
a darle mala voce, giudicandola troppo ristretto
campo a un pover uomo come sono io. E sempre
per quella maledetta lingua. Egli di certo odia
Bologna e la sua università, perché Dante vi pose
il nido del volgare aulico, e l'onorevole ministro
vuole che gì' italiani pariino e scrivano come i
nuovi fiorentini di Sondrio e come lui — .
Cosi io pensavo e dicevo; ma amici € nemici
sorridevano o sogghignavano, insistendo che era
GIAMBI ED EPODI. I59
per la questione delle elezioni. E io di rincontro
— Ma, se Dio guardi voi dalle questioni su l'unità
della lingua e dai libri in fiorentino lombardo,
come volete che l'onorevole Minghetti, potentissimo
in Bologna, e il sua partito, onnipotente in Italia,
si dieno pensiero di me nuovo in Bologna e poco
noto all'Italia? E chi ha dato a voi il diritto di solo
imaginare che 1' onorevole Broglio, che un mini-
stero come questo, della più pura acqua costitu-
zionale, per interessi di partito no, che non è il
caso, ma per risentimenti e per gusti cosi piccini
che parrebbero di femminucce, voglia urtare le
leggi, sommettere alla passione privata 1' utile
pubblico, sovvertire il pubblico servizio, conta-
minare della più dannosa partigianeria il magi-
strato più nobile, quello dell' istruzione, trasmu-
tando un professore da insegnare quello che sa
a insegnare quello che non sa? Perché può darsi
che di latino io ne sappia un po' più di prete
Pero; ma quali titoli ho io di latinista, quali opere
ho scritto nella lingua di Cicerone, quali ricerche
o lavori di filologia e critica romana ho composto,
per mandarmi così su due piedi a professare let-
teratura latina da una cattedra dell' università di
Napoli? E badate che un po' di latino in fondo
in fondo lo so, e, quel che vai più, so studiare,
e sono ancor giovine, e in pochi anni potrei met-
termi al corrente, perché la letteratura latina non
è poi un campo troppo vasto. In somma, potrei
andare a Napoli. Bell' accorgimento dell' onore-
l6o GIAMBI ED EPODI.
vole ministro ! Oh non vede egli il brav' uomo,
che tutti i giovani professori, i quali credano aver
diritto air apertura d' un più largo campo, egli
con r esempio mio gì' inuzzolisce a far contro il
ministero e metter su da per tutto comitati contro
i candidati di destra? No, no, la stizza non può
far perder fino a tal segno il lume degli occhi a
un galantuomo. Non è questione di lotta eletto-
rale, vi ripeto, è la questione della lingua. E io
voglio rimaner qui, e qui rimarrò, a insegnare che
la lingua italiana e' è, che la prosa itahana e' è, e
e' è bella, viva, nobile, agile, ricca, flessuosa, po-
tente, variatissima, sebbene non sia la prosa fran-
cese o la prosa inglese. E cosi ha da essere;
perché la prosa italiana ha da essere itahana e
non francese o inglese; e ciò per una semplicis-
sima ragione, svolta stupendamente in una canti-
lena di bambini, che dovrebbe dare argomento
di profonda e utile meditazione a certi filologi ed
estetici e critici di mia conoscenza. Nelle belle
sere di primavera o di autunno, o ne' mezzogiorni
d' inverno, ho veduto grandetti e piccolini, maschi
e femmine, occhi neri e celesti e grigi e perla,
capelli scuri e castagni e biondi e canapini e ce-
nerini, pigliarsi tutti per mano, intrecciarsi, con-
fondersi e ballare in tondo. E guardandosi fissi
in viso gli uni gli altri e poi guardando nel cielo,
con voce e accento già bronzino i maschiotti, ar-
gentino le femmine, bleso i piccolini, cantavano.
Ballavano e cantavano ; e i grandi alberi guarda-
GIAMBI ED EPODI. l6l
vano il dolce ballo ricoprendolo e accompagnan-
dolo della compiacenza dell' ombre e d' mi mor-
morio sommesso; e il sole baciava le fronti serene
e incoronava d' aureole le capigliature sciolte o
ricciute; innamorato di coteste più leggiadre e
soavi emanazioni della sua benignità. Cantavano
e ballavano; e nelle movenze dei corpicini gentili
scorreva tutta la gioia della vita, e nei grandi
occhi aperti seri e lucenti splendeva la intuizione
inconscia e tranquilla dei misteri dell' essere e
della divinità. Ballavano e cantavano cosi: Uno
due e tre, Il papa non è il re, Il re non è il papa,
La chiocciola non è lumaca, La lumaca non è chioc-
ciola. Il palèo non è la trottola. La trottola non è
il palèo. Il cristiano non è V ebreo. E il lombardo,
onorevole Broglio, non è il fiorentino. Cotesta del-
l' unità della lingua o dell' accentramento dei fa-
vellari di milioni di pensanti italiani dentro una
città sola anzi forse dentro i salotti d' un solo
quartiere di quella sola città; è; onorevole Broglio,
una fissazione giacobina. Si; in queir ampia orga-
natura della testa di Alessandro Manzoni il razio-
nalismo giacobino de' primi suoi anni seguitò à
ramificare per entro la superedificazione cattolica
scalzandola e fendendo qua e là di crepacci la
incrostatura o intonacatura rosminiana. Ora il ra-
zionalismo giacobino, mova o da Montesquieu o
da Rousseau; mira in teorica a rifoggiare la so-
cietà, senza tener verun contO; anzi con un gran
disprezzo; delle cose e dei fatti, della geografia;
Carducci. 4, 11
l62 GIAMBI ED EPODI.
della etnologia, della antropologìa, della storia,
sur un suo modello rigido e stecchito, eh* esso
imbotti a priori dei postulati d' una filosofia tutta
tra soggettiva ed empirica e tutta cervellotica;
tende poi nell' azione con smaniosa e malaticcia
impazienza, e con un feroce odio dei vigori della
varietà, ad appianare, a potare, a unificare, a con-
centrare. Cosi distrusse i diversi stati e perseguitò
i dialetti; abolì i parlamenti provinciali e i cap-
pelli a piuma; fece la costituzione e la giubba a
coda di rondine, la codificazione e il cappello
tondo, il sistema delle imposizioni e la cravatta
bianca, la capitale e la burocrazia; die Napoleone
e monsieur Travet. E ispirò — aggiungo — la
dottrina dell' unità della lingua. Già, posto che lo
stato è strettamente uno, e s' imperna e circola e
respira e digerisce e pensa e ordina e disordina
e vomita soltanto nella capitale, deve anche par-
lare soltanto nella capitale e con la capitale.
Quindi concentramento e domicilio coatto della
lingua a Parigi, e, subordinatamente, a Firenze;
a Firenze capitale designata da Massimo d' Aze-
glio e da Napoleone iii. E, per mantenere la
capitale a Firenze dopo la convenzione e dopo
Mentana, anche l'aggéggio (parlo bene, onore-
vole Broglio ? ) dell' unità della lingua potea gio-
vare a qualche cosa. Ma ora che la capitale è a
Roma — aggiungo chiosando nel '82 — e il di-
zionario dell' uso fiorentino vien compilato da un
lucchese e da un lombardo, non sarà egli per-
GIAMBI ED EPODI. 163
messo di pensare che la Grecia ebbe e che la
Germania ha una letteratura (e che letterature!),
e noi avemmo il Cinquecento, senza, anzi contro,
la teorica manzoniana? Lascio V onorevole Bro-
glio co '1 berretto di giacobino — in filologia — ■
a' suoi studi del dizionario fiorentino ( condotto,
del resto, con giudizio e con garbo, e utilissimo
— lo dico da leale avversario e anche per un
argomento di più contro il purismo peruzziano
del Manzoni — ), e torno all' onorevole Broglio
ministro persecutore dei professori di Bologna.
Professor di latino dunque non fui. A Ga-
spare Barbèra, che s' era per bontà sua proposto
intermediario tra me e l'onorevole Broglio, scrissi:
dicesse al ministro: che a Napoli non andavo;
mi sospendesse pure lo stipendio; avrei ricorso
al Consiglio superiore, al Consiglio di stato, al
Parlamento; avrei rinunziato all'onore della cat-
tedra; ma non avrei mai patito si offendesse in
me una legge dello stato e i diritti di tutti i pro-
fessori delle università italiane; non avrei mai
commesso io l' immoralità d' insegnare quel che
credevo non potere. E il Barbèra — Bene, il mi-
nistro chiede che almeno Ella gli prometta di non
lasciarsi più andare ad esorbitanze politiche — .
E io — Ma che esorbitanze politiche? Non ne
ho mai fatte. E ora mi occupo di ballate del Tre-
cento. — Cosi avvenne che io non fossi premiato
della mia operosità letteraria dal ministero Mena-
brea con la dischiusione di un più largo campo.
164 GIAMBI ED EPODI.
V.
Venne poi a Bologna nel febbraio del '68 una
commissione composta degli onorevoli Brioschi,
Bertrando Spaventa e Messedaglia^ per inquirere
e riferire al Ministero su le condizioni dell' Uni-
versità, specialmente, si diceva, economiche: trat-
tavasi in fondo di levar di mezzo il senator Mon-
tanari che il Governo dell'Emilia avea nominato
rettore a vita, e allora gli armeggioni de' moderati
non volevano più né meno a tempo. Io conoscevo
di persona Bertrando Spaventa, che ho sempre
stimato e riverito filosofo e uomo; conoscevo il
senatore Brioschi, co *1 quale, anzi, nonostante la
inimicizia politica, ho V onore di essere in qualche
famigliarità; avevo scambiato qualche lettera, a
proposito di versi, con V onorevole Messedaglia.
Ma né io né altri dei professori sospetti — dico
i nomi, gì' illustri e cari miei colleghi Ceneri e
Piazza — non ci facemmo vivi, per evitare ogni
taccia di ricercata o sottomissione o benignità,
con gli onorevoli commissari. Quando un venerdì
(vedete casi!) uscendo di far lezione dopo mez-
zogiorno, e accompagnatomi con V amico Piazza,
c'imbattiamo, proprio sotto l' Asinella (vedete
altri casi ), co '1 Brioschi. — Ehi — fa il Brioschi
a me — non si viene nemmeno più a salutar gli
amici? — Si figuri! dico io, ma non a disturbare
i commissari. — Via — ripiglia lui — non siamo
GIAMBI ED EPODI. Ì65
mica gli inquisitori di stato. Venite a vederci
questa sera all'Hotel Brun: faremo un po' di
chiacchiere. — E la sera io e l' amico Piazza
fummo air Hotel Brun, e facemmo un po' di chiac-
chiere. Si parlò del più e del meno: il Brioschi
mi disse che il ministro non poteva mandarmi a
Napoli; e che io aveva ragione, e il Consiglio
superiore me l'avrebbe data: lo Spaventa mi disse
che a Napoli non mi voleva, e che mettessi giu-
dizio: il Messedaglia mi disse che avevo ogni di-
ritto di pensare come meglio volevo. Intorno al
qual mio diritto il Brioschi osservò come io l'avessi
esercitato francamente anche quel giorno stesso
o il giorno innanzi, e alludeva alla pubblicazione
delF epodo in morte di Eduardo Corazzine Insi-
stendo io a dichiarare le mie idee in proposito,
il Brioschi fini ammonendomi a essere un po' più
calmo e prudente. Queste furono le chiacchiere
coi commissari del febbraio '68, chiacchiere nelle
quali e con le quali nessuna promessa fu né ri-
chiesta né data; e se il contrario si leggesse in
qualche atto del Consiglio di pubblica istruzione,
chi scrisse errò. Uomini d' onore non poterono
né doverono parlare di promesse, che, ripeto, non
furono né richieste né date. Ma che? un uomo
cosi recente di fedeltà austriaca, come 1' onore-
vole Messedaglia, avrebbe avuto egli il coraggio
di venire a chiedere limitazioni neh' uso de' diritti
di cittadino italiano a me, che quei diritti eserci-
tavo per tenere alti gli spiriti del mio popolo a
l66 GIAMBI ED EPODI.
racquistare, come il parlamento italiano aveva pro-
clamato, la sua capitale in Roma? All' onorevole
Broglio o a tutto il ministero Menabrea, se mai,
il coraggio di aver commesso all' onorevole Mes-
sedaglia un tale officio: all' onorevole Messedaglia
resta l'onore o il pudore di non averlo eseguito.
Non sarei tornato su queste miserie, se tra le
accuse mossemi dall' onorevole Broglio, accuse
che mi recarono la sospensione dall' ufficio, non
ve ne fosse stata una, la quale, allora, per rispetto
di persona or non più viva, non potei ribattere
a modo mio; ed era di promesse fatte, e man-
cate, ai signori membri della Commissione. Non
è del mio temperamento mancar di parola mai.
Ed eccoci finalmente alla sospensione lancia-
tami dal ministero con decreto del febbraio o del
marzo per titolo d' aver partecipato a un ban-
chetto commemorativo della repubblica romana
del '49 e di aver sottoscritto un indirizzo a Giu-
seppe Mazzini : sospensione, s' intende, cosi dal-
l' officio come dallo stipendio. Intorno al doppio
effetto non ci fu allora nessuno che trovasse da
ridire: i moderati non erano anche all'opposizione.
Sicuro, io per me sarei del parere di fra' Cristo-
foro, non ci fossero né sospensori né sospesi né
sospensioni. Ma, giacché ci hanno a essere, io
ricordo che sospensione nel linguaggio latino delle
vecchie leggi sonava impiccagione. Ora si può
egli dare buona impiccagione senza che sia tolto
il fiato al paziente fin che morte ne segua? E si
GIAMBI ED EPODI. 167
può egli dare sospensione di un funzionario dal-
l'officio soltanto e non dallo stipendio? dall'onere
e non dall' onorario ? Oh quanti professori allora
si metterebbero all' opposizione di sinistra o di
destra! Io dunque, nessunq contraddicendo, fui
sospeso per bene in tutte le forme e in tutte le
regole sotto i due aspetti.
Io né mi era presentato al Consiglio supe-
riore né mi difesi con altro che poche note,
mandate per iscritto al Consiglio e pubblicate
lo stesso giorno del processo neW Amico del Po-
polo di Bologna. Nelle quaH non mi riscaldai
troppo, né anche, per quel che ricordo, nello
stile. E non mi riscaldai, perché sicuro si del
fatto mio, si della condanna. Sicuro del fatto
mio era tanto, che a uno dei colleghi mandato
dalla Facoltà tra i giudici del Consiglio conse-
gnai io stesso, acciò lo mostrasse, " il corpo del
delitto ; cioè 1' indirizzo a Giuseppe Mazzini scritto
di mia mano. E quando un anno di poi di cotesto
indirizzo un giornale bolognese volle servirsi
come d' arma leggera contro la candidatura del
mio illustre collega professor Ceneri opposto con
fortunati auspicii all' onorevole Minghetti, io ne ri-
vendicai a me la colpa o l' onore con lettera pub-
blicata in un giornale della città.
" Nel primo articolo della Gazzetta dell'Emilia
d' oggi leggo rispetto all' avvocato Ceneri : — Tra-
scorreva al famoso brindisi a Mazzini, a motivo
l68 GIAMBI ED EPODI.
del quale ha poscia rinunziato al posto di pro-
fessore dell' Università. — Il professor Giuseppe
Ceneri la sera del 12 febbraio 1868 non faceva
brindisi alcuno a Giuseppe Mazzini, non che tra-
scorresse a un brindisi enfaticamente famoso. Un
indirizzo al Mazzini fu scritto, e lo scrissi io: non
però quello che novamente foggiato fu corpo di
delitto in un giudizio meschinamente famoso. Per
il qual giudizio, anzi in conseguenza di esso e
non a motivo di brindisi, V avvocato Ceneri ri-
nunziò alla cattedra. „ ( Indipendente, . anno in,
n. 155).
La condanna mi trovò che commentavo il Pe-
trarca: seguitai. E la sola domanda che feci al
signor ministro fu, si compiacesse farmi passare
in prestito dalla Magliabechiana di Firenze la rara
edizione d' un commento al canzoniere stampata
in Napoli nel 1532. L'anno innanzi il ministro Berti
mi aveva non pur mandato manoscritti delle bi-
blioteche fiorentine ma ottenuto dalla Imperiale
di Parigi un prezioso codice di poesie musicali
del secolo decimoquinto. Il ministro Broglio nel-
r aprile del '68 mi faceva rispondere non potersi
dar luogo alla mia domanda. Replicai — Sta
bene: io preparo una edizione e un commentario
del Canzoniere in servizio della critica e delle
scuole: nei luoghi ove avrei potuto e dovuto gio-
varmi del tal commento annunzierò che il Governo
italiano me lo negò in prestito. — Cinque giorni
GIAMBI ED EPODI. 169
di poi, il ministro Broglio mandava il libro. Mi-
serie tutte e ridicolaggini; più ancora che ini-
quità! Non si fa i martiri per cosi poco. Né io
avrei pensato a riscalducciare questi cavoli marci,
se non fosse stato per mandarne il profumo a' nasi
di quei moderati, che nella gabbia dell' opposizione
sollevarono e fomentarono pur ieri tanta vergogna
di scandali intorno un disgraziato processo, per
provare forse anche una volta di più che partito
d* ordine siano essi e come intendano il rispetto
all' autorità quando V autorità non son loro.
Ma i cavoli riscaldati, cioè i rancori o le bizze
personali, non entrarono per nulla nella forma-
zione dei Giambi ed Epodi. Piano! qualche
cosa di personale e' entrò pure. Ecco. Quando
più ferveano le ciarle intorno a' sospesi, un diario
moderato di Torino osò titolarmi di " scrittore
elegante „. Ora bisogna sapere che dose di com-
patimento e disprezzo un farmacista di politica
addensi, o addensasse una volta, in tali un sog-
getto e un attributo. A me, " scrittore elegante „ ?
Ve la darò io, carini, V eleganza. E in questi
quattordici anni ho fatto quel più che potevo per
dimostrare a' miei dolci nemici tutta la mia ele-
ganza. Un d' essi in un giornale del '69 mi ren-
deva giustizia, scrivendo — Dopo la sospensione
è peggio di prima. — Era naturale.
lyo GIAMBI ED EPODI.
VI.
Tra tali vicende di fatto e di sentimenti fu-
rono composte le rime contenute in questo vo-
lume, e non vanno oltre il 1872. E di comporne
ancora di simili non mi sento più in vena. Per
tre ragioni, i) Con la rivendicazione di Roma
air Italia, comunque andasse, il supremo ideale
della mia politica nazionale fu raggiunto, e fini la
bella età leggendaria della democrazia italiana.
2) Con la riforma elettorale è quasi raggiunto, o
si può agevolmente finir di raggiungere, l' altro
ideale' della mia politica democratica, il suffragio
universale ; e con questo la democrazia, anzi tutta
la nazione entra in una fase d* agitazione e d' evo-
luzione, che avrà bisogno, e abondanza, di prosa,
magari brutta, e niente affatto di poesia. 3) Poesia
come quella degli epodi e dei giambi non è che
d* un periodo, e d' un breve periodo, della vita,
nel quale Y artista sente e rende un momento
storico rapido e sfuggente che gli è antipatico o
simpatico : passato quel momento, se 1' artista sì
ostinasse a vestire delle stesse forme quello che
nella mobile evoluzione dei fatti e dei sentimenti
non è più lo stesso fenomeno e eh' egli non per-
cepisce più con la stessa energia, V artista non
sarebbe più nella vera condizione d' artista ma
nella posa, e finirebbe imitatore e caricaturista di
sé stesso: ecco perché Augusto Barbier non lanciò
GIAMBI ED EPODI. I7I
i suoi giambi oltre il termine di tre anni, e gli
ultimi accusano già V arco rilassato ; e perché
Giovanni Berchet compose le sue romanze tutte
tra il '21 e il '28, e il canto per la rivoluzione
del '31 non è più un gran che. U artista, lo dissi
altra volta, non è un formatore di mattoni o di
tegole, e non riceve, o non dovrebbe ricevere,
ordinazioni o mandati imperativi da nessuno, né
meno dalla democrazia: come, del resto, ha ra-
gione di ridere di quelli che nel fervore dell'opera
vengono ad ammonirlo — Ma no, tu non hai da
far questo, hai anzi da far quest' altro — No, tu
non sei nato per far cosi, devi invece far cosà
— No, tu non sei questo, sei quello.
Di tali giocondità e sollievi nella tristezza io
sono debitore a molti, e più di fresco a un gio-
vine professore non so se di ginnasio o di liceo,
il quale in una prefazione a certe sue traduzioni
dair inglese sorse ad annunziarmi che io son re-
pubblicano soltanto per imitazione dello Shelley,
del Heine, dell' Hugo, del Swinburne. Capisco
che, tutto affannato a instupidire i lettori con le
sue esibizioni di letteratura straniera, egli non si
accorse di dirmi ingiuria. E (da poi che è di
prammatica che ogni truccone di qual si voglia
sbercia tedesca o inglese o francese, prefazionando
alla rinnovatrice opera sua, abbia a dir corna di
ogni cosa italiana antica e moderna), tutto affan-
nato anch' egli il mio correggidore a riveder le
bucce a tutta la lingua e letteratura d' Italia dal-
172 GIAMBI ED EPODI.
r alto della sua manzonerìa e a giudicare con
autorità ed esperienza di traduttore in versi sciolti
più o meno maffeiani i morti ed i vivi, non ebbe
poi tempo a sincerarsi se almeno V ombra di un
fatto lontano si riflettesse nelle visioni della sua
agile estetica. Egli, per esempio, anche afferma
che la materia delle Odi Barbare proviene da
Swinburne. E io di Swinburne non conoscevo
che la Fedra tradotta in versi da Giuseppe Chia-
rini e r ode in morte del Mazzini tradotta in
prosa non so da chi, delle quali che attenenza
offrano con le odi barbare altri giudichi. Solo
nel passato agosto lessi nell' originale T inno a
Proserpina in compagnia di due figliuoli del Chia-
rini che mi facean da maestri : " dolce n' è la
memoria „, per amore di que' due bravi ragazzi,
Cino e Piero, e per amore anche d' un certo vi-
netto di Chianti, de' cui sorseggiamenti io inter-
pungeva in quelle calde e care serate livornesi il
difficile, testo. \J affermazione dunque della pro-
venienza delle Odi Barbare dalla poesia del-
l'illustre inglese non è fondata altrove che nel-
r. alata visione del mio correggidore. Né più saldo
fondaménto ha il giudizio su'l mio importato re-
pubblicanesimo. Io non debbo né voglio far qui
la storia della mia fede e la storia delle tradizioni
repubblicane nella letteratura e nella educazione
politica degF italiani. Io, imitando il procedimento
affermativo del mio correggidore, dico soltanto
che in Italia, dopo Cesare Balbo, Camillo di Ca-
GIAMBI ED EPODI.
173
vouF; Alfonso La Marmora; Vittorio Emanuele,
non conosco monarchici altro che sentimentali e
opportunisti; opportunisti, per amore dell'unità e
per timore del mutamento : io dico ( e lo dico con
tutto il rispetto che devo al capo dello stato e ad
un nobilissimo gentiluomo) che né anche la Maestà
del re Umberto non è un vero e proprio mo-
narchico.
Lucca (Matilina), 12 sett. 1882.
CRITICA E ARTE
Dalla Voce del Popolo di Bologna
numeri di febbraio e marzo 1874:
in Bozzetti critici e discorsi letterari di G. C.
Livorno, Vigo, 1883,
e in Confessioni e Battaglie diG. C. serie 2.»
Roma, Sommaruga, 1883.
L signor Giuseppe Guerzoni è pia-
ciuto intrattenersi di me e delle cose
mie a pie della Gazzetta Ufficiale
del regno d' Italia ( 12 dicembre
1873). Egli ha detto, tra le altre, che io mi
sento dio e da dio mi atteggio: ancora, mi ha
esortato ad " accogliere la critica cortese ed
onesta come un' amica, a disputar seco ma ad
ascoltarla „. Ascoltiamo dunque il signor Guer-
zoni, rappresentante della critica onesta e cor-
tese: diamogli una prova della nostra umanità:
disputiamo.
Disputiamo? Non vorrei promettere troppo.
^' L' orgoglio dei piccoli — scriveva il Voltaire —
sta nel parlar sempre di sé, 1' orgoglio dei grandi
nel non parlar di sé mai. Quest' ultimo orgoglio
è senza fine più nobile, ma talora un po' insul-
Carducci. 4. 12
178 CRITICA E' ARTE.
tante per la brigata; vuol dire: Signori, non vai
la pena eh' io cerchi di essere stimato da voi. „
Per me, rinunzio volentieri all'orgoglio dei grandi;
ma dorrebbemi assai, se, per liberarmi dalla rag-
giera postami intorno dal signor Guerzoni, do-
vessi incorrere nelF orgoglio dei piccoli. Se non
che per avventura io mi lusingo di mascherare
il mio amor proprio con V intendimento di dir
qualche cosa non del tutto inutile intorno a ciò
che in Italia chiamasi critica e all' arte dirimpetto
d' essa.
Ma badi anzi tutto il signor Guerzoni. Egli
parve avere usurpato alla mia tavolozza di poeta,
quando è, come la qualifica egli, più sanguigna,
quei troppo accesi e lussureggianti colori che non
forse senza ragione lo offendono ne' miei versi
più d' una volta : cotesti colori, dico, ei pare averli
usurpati per la sua prosa là dove dipinge l' ac-
canimento mio contro i miei critici. A sentir lui,
" qualunque cenàura più onesta e ragionata mi
fa dare in smanie e furori „; io tratto il critico
come Roma il nemico. Contra (cosi scrive il
signor Guerzoni, ma il testo delle dodici tavole
porta più latinamente adverstts), Contra hostem
aeterna auctoritas : scaravento addosso al critica
corone di vituperii, che in paragone è di rose la
corona di sonetti d' Annibal Caro contro il Ca-
stelvetro; e poi lo scortico, come Apollo fece a
Marsia; e in fine me lo mangio: sono dunque ac-
cademico, dio e bestia tutto ad un tempo. Il che
CRITICA E ARTE. I79
è trovato, retoricamente, bene. Ma rimettiamo le
cose e le parole al posto.
Annibal Caro titolava il Castelvetro cosi:
.... un antropofago, un Lestrigone,
Un mostro cosf rozzo e cosi fero,
Un eh' è di lingua e d' opre e dì pensiero
Una sfinge un Busiri un Licaone.
Anche lo dipingeva in questa guisa:
Di più lingue aspe e scorpio di più code;
Idra di mille teste, e d'una tale
Che latra e morde, e come sferza o strale
Incontr'a Dio par che s'avventi e snodo:
Chimera di bugie; volpe di frode;
Corvo nunzio e ministro d'ogni male;
Verme che fila e tesse opra si frale
Che l'aura e '1 fumo la disperge e rode:
Scimia di sangue putrido e di seme
D'orgogliosi giganti; e verp e vivo
Crocòdilo che 1' uom divora e geme;
E quanto aborre e quanto ha '1 mondo -a schivo
Sembra, ed è veramente, accolto insieme
Il mostro di ch'io parlo e di ch'io scrivo,
E lo accusava a chiare note di avere ucciso un
figliolo, e finiva accomandandolo agli inquisitori,
al bargello ed al grandissimo diavolo. Ora dove
ha letto il signor Guerzoni qualche cosa di mio
contro i miei critici che arieggi alle invettive ri-
mate dell' elegantissimo Caro ? O, più largamente
ancora, dove ha egli letto qualche cosa di mio
contro i miei critici? E m' han detto, e per molti
anni, ben altro che il Castelvetro al Caro.
l8o CRITICA E ARTE.
Da ragazzo cominciai certa risposta a un le-
pido dittatore letterario d' allora, ma ben presto
lasciai per annoiato l' impresa, accortomi che a
disputar di stile poetico con chi non sapeva né
latino né italiano era tempo perduto. Nel '68 difesi
tenacemente, ma onestamente, l'idea del Satana;
l'idea e non la poesia: però ch'io credo che un
calzolaio o un sarto possa, anzi debba, dimostrare
per belle e fatte bene le opere sue ai compratori
e ordinatori, ma non le sue un poeta al pubblico.
Il signor Guerzoni mi rinfaccia Fucci filologo :
ma contro il Fucci filologo ed uomo insorsi ven-
dicatore dell' onestà letteraria e della dignità ci-
vile, tacendo tutti, o quasi, anche quelli che di
poi mi han dato ragione, io primo, solo, e ancor
ragazzo, avanti che egli avesse parlato di me,
avanti di aver pubblicato io versi. Egli mi raf-
faccia Mena buffone e altre figure o figuri del-
l'epodo intitolato A certi censori', ma quelli non
sono critici, quelli son tipi della ipocrisia e falsità
italiana verniciata a fuoco d' idealismo o di ci,
vismo, dei quali io con estetico soddisfacimento e
serenità artistica trascelsi le linee elementari dai
mostacci di certa gente che formicola, ribolle,
barbotta, e Hscia e striscia e zufola negli offici
dei giornali e nelle sale di conversazione: sa-
rebbe lo stesso che nelle caricature del Ballo di
Giuseppe Giusti si volesse vedere una vendetta
del poeta su persone alle quali non fosser pia-
ciuti i suoi versi. Dunque che rimane di vero
CRITICA E ARTE. l8l
nella ipotiposi che il signor Guerzoni fa de' miei
disdegni olimpici, dei furori apollinei, delle mie
smanie accademiche e bestiali contro la critica e
i critici? Rimane la opportunità.
Faceva comodo all' egotismo, che per lo più
distingue tra gli altri i critici italiani, e che tra i
critici italiani pare distingua specialissimamente
il signor Giuseppe Guerzoni ; faceva comodo, dico,
air egotismo del signor Guerzoni di rappresentar
me sùbito nelle prime linee come un lioncello
ferito, per presentar poi sé stesso al cólto pub-
blico, e dire: — Signore e signori, vedete voi
questa belva indigena del Senegal? vedete come
arriccia la giubba, come balza, come sgretola i
denti contro i ferri della gabbia, quasi qiiaerens
quem devoreP. Ora ecco, signore e signori: io
Giuseppe Guerzoni, cittadino benemerito, amico
della virtù e della fede, e libero ingegno, io che
negli onorati riposi dalle cure politiche maneggio
la penna d' oca con quella intrepidezza con la
quale un giorno maneggiavo la spada, vedete,
signore e signori, come io lo tratto questo lion-
cello? Io gli fisso il mio ferreo sguardo negli
occhi, ed egli brontolando si rincantuccia e ac-
covaccia. Io con la punta incandescente del mio
stile gli accenno, ed egli si dimostra e si atteggia
in tutte le selvagge sue forme e qualità dinanzi
a voi, signore e signori. Io lo domerò: io l'ha
domato. Va, accuccia, Enotrio: " la tua potenza
come la tua miseria non mi tange „.
l82 CRITICA E ARTE.
Questo è r intimo senso dell'esordio che apre
r articolo del signor Guerzoni: il quale esordio
può anche darsi che sia cortese ; certo è sapiente.
La messa in scena dell* io guerzoniano non po-
teva essere più solenne. Di certe cose pare che
il signor Guerzoni s' intenda.
II.
Ripeto che fino ad ora io non ho avuto che dire
con i miei critici. Ho per altro osservato attenta-
mente e studiato le produzioni e i produttori di
quella critica che oggi in Italia è più usuale, più
di consumo, più popolare, per adoperare un voca-
bolo che tutti adoperano pur sapendo che è una
menzogna ma convenendo di ritenerlo per vero.
•Cotesta critica compie le sue furfeioni per mezzo
della stampa quotidiana o periodica, e conta va-
lenti e modesti scrittori: ma i propri cultori di
•essa, i caratteri, i tipi, sono diversi e di più guise.
Primo vien quello a cui fu aggiustato cosi bene
il nome di chierichino: il redattore, cioè, di terzo
o quarto ordine dei giornali che sono o tengonsi
grandi e accreditati, un che di mezzo tra il rap-
portatore e il cronista, che fa appendici, secondo
il bisogno, teatrali o artistiche o letterarie, che
oggi discorre di un quadro o di una statua o
d' un romanzo o d' un atlante geografico o d* un
libro di metafisica, come domani parlerà d'ima
mostra agricola o d' una fiera di beneficenza o
CRITICA E ARTE. ^[83
dei fratelli siamesi o dell' usignolo a due teste o
dello scià di Persia o delle vostre poesie. Il chie-
richino può essere giovine e parere già vecchio,
può battere alla porta della cinquantina ed essere
sempre giovine. Nel primo caso è per lo più uno
scolare di liceo che falli alle prove di greco o
di matematica, o un antico studente universitario
che non trova i soddisfacimenti del genio nelle
pandette o nella geodesia: in vece, scrittore di
giornali, egli parla del suo " lungo studio e grande
amore „ alla filosofia della storia, alla filosofia
deir arte, alla filosofia della critica, a tutto quello,
cioè, che non è proprio arte o storia o critica,
perché procedendo nelle sue divagazioni geniali
s' è accorto come 1' arte la storia e la critica pura
gli assomigliano un po' troppo al greco, alle ma-
tematiche, alle pandette e alla geodesia. Nel se-
condo caso può essere un avvocato a cui fallirono
i clienti; onde egli per dispetto fece una o più
commedie, e fu fischiato; e, a conforto, scrisse o
scrive romanzi che distraggono gli sbadigli delle
cameriere cosi sentimentali quando aspettano la
signora.
Con tali intendimenti, -con tali avviamenti, il
chierichino non potè mai salire nel giornale al
sancia sanctorum degli articoli di fondo, del primo
Roma o del primo Milano: per i suoi colleghi,
uomini seri, egli è sempre un po' artista, secondo
il rfl^bile concetto che i consumatori di politica
hanno e si fanno dell'arte. Povero chierichino!
184 CRITICA E ARTE.
E dire eh' egli non ha né pur V ombra della labe
di cotesto peccato dell' arte^ solo peccato per il
quale nella società moderna; e specialmente in certi
paesi; non vi sia né redenzione religiosa né riabi-
litazione civile! Povero chierichino! E dire che egli
è proprio nato chierichino ! se per essere tale bi-
sogna, come io credo e molti credono, che l'uomo
sia stato benedetto dalla natura con tale uno sca-
paccione, cTie, schiacciato l' osso frontale, il colpo
abbia rimbalzato fino al cuore. Cosi egli, leggero
e libero d' ogni peso, può diportare a suo beli' agio
per i filari del giornale la sua testicciuola e la
personcina con la procacia saltellante del mon-
toncino di madamigella Silvia e con gì' impetti-
menti del cagnolo di madama Amaranta; può con
la indifferenza irresponsabile del montone brucare
le erbette che spuntano a pie dell' albero della
scienza e dell' ignoranza, del bene e del male, e
con la petulanza innocua del pomero de' barroc-
ciai può abbaiare a chi va per la sua strada di
su '1 carico di fieno o strame o frumento, o delle
brocche, delle pignatte e dei vasi da notte del-
l' opinion pubblica, che il suo giornale trasporta
e il redattore capo guida e governa schioc-
cando lentamente la lunga frusta a diritta e a si-
nistra intorno agU orecchi delle sue bestie, che
se ne vanno co '1 solito alzare e abbassare della
testa e co '1 solito squillar dei sonaglieli.
Ma lasciamo da parte le simihtudini bestiaH.
L' officio principale; la incumbenza solenne del
CRITICA E ARTE. 185
chierichìno è di portare il turibolo, T aspersorio-
e la catinella dell'acqua santa innanzi o dietra
agli arcipreti della libera stampa, cioè ai giorna-
listi di questo o di quel partito. E quando V ar>
ciprete brontola dall' alto del primo articolo Do-
mmus vobiscum, il chierichino dagli ultimi gradini
risponde Et cum spiritu tuo) e incensa a mana
a mano gli altri preti che cantano la messa in-
sieme con l'arciprete suo; e grida raka a chi
non crede che essi posseggano soli la verità e
la bellezza, come quelli che ogni giorno 1' attin-
gono alla fonte viva, e ogni mattina dopo il caffè
e ogni sera dopo il rosolio risciacquandosene la
bocca la spruzzano su '1 popolo. Ma, come il
chierichino, salvo un po' d' intontimento malestrua
rimastogli per quello scapaccione di madre natura,,
non è in fondo in fondo cattivo ragazzo, cosi egli è
contento come una pasqua quando T arciprete gli
ordina di fare il panegirico di qualche santo della
collegiata o di rammemorare o commemorare
qualche fedele; quando cioè ha da parlare di quei
libri che portano certi nomi, certi titoli, certe
dedicatorie, certe raccomandazioni. Oh come rag-
gia allora seraficamente il chierichino nel bel
roccetto dello stile del di delle feste, con le falde
e le crespe tutte stridenti «e sgargianti nella az-
zurrastra e rigida inamidatura della accademia
nazionale, costituzionale, progressista, democra-
tica! Con che quilia di voce intona i mottetti!
Tale doveva essere, dalla voce accapponata al-
l86 CRITICA E ARTE.
r infuori^ il sere da Varlungo quando cantava
r Ite mìssa est guardando alla Belcolpre.
Se non che il chierichino in fine in fine è un
uomo anche lui come un altro; ed ha i suoi bi-
sogni cosi fisiologici come letterari, i suoi gusti
cosi gastronomici come estetici. V*è dunque una
poesia ch'egli ama proprio d' amore e per sé: la
poesia da parrucchiere. Quei versi, quelle strofe,
quelle imagini, quei pensieri, quei personaggi che
stanno li nella vetrina del componimento tutti im-
pettiti, e bianchi e rossi, ed acconciati, a guar-
darvi co '1 loro lucido immobile sorriso imbecille
di stucco e di biacca : ecco il suo ideale. Ci scam-
pino sempre le muse dalla indulgenza del chie-
richino ! egli è tanto buon diavolo da crocifiggerci,
in un momento di lieto umore, su '1 calvario di
un' appendice, con i chiodi della sua compiacenza,
tra due testiere.
III.
Fu detto che in. Italia una volta i giovini esor-
divano coi sonetti nelle raccolte e oggi esordiscono
con le critiche nei giornali; e fia anche dimandato
— Qual delle due è peggio? — A me pare che
l'una e l'altra bruttura facciano oggi pur troppo
i giovini; e delle due è più fastidiosa la seconda.
Il crìtico giovinetto, altro dei tipi della lettera-
tura corrente, differisce dal chierichino in molte
cose, e massime in questa: che egli non si ri-
CRITICA E ARTE. 187
Stringe ai giornali politici; su i quali, del resto,
senza badare a' colori, lascia, come le mosche, i
segni del suo passaggio; ma aspira alle riviste
ed al libro. E in tanto cammina, cammina, per il
deserto, saltellando affannoso di articolo in arti-
colo, verso una terra che nessuno gli ha promesso,
con gli occhi fissi alla colonna di fuoco, cioè alla
futura edizione de' suoi Saggi critici o estetici,
destinata a illuminare il mondo. Anch' egli usci
<ial liceo con un odio cordiale al greco e alle
matematiche, ma anche, siamo giusti, con una
venerazione e una passione da non si dire per
la critica. — La critica — egli andava ripetendo
— oggi informa e compenetra e rinnova tutto:
la critica oggi è tutto : l' ItaHa ha bisogno di cri-
tica quanto e più che del pareggio e dell' aboli-
zione del corso forzoso. Non dico ; il mio genio
sarebbe per V arte, per la grande arte ; cominciai
a scriver drammi fin dalla quarta elementare: ma
la nostra è 1' età della crìtica, e l' Italia ha bisogno
di critica. Sacrifichiamo alla età e alla patria la
nostra potenza creatrice : siamo critici. — E scrisse,
magnanimamente scrisse, per rafforzarsi e mu-
nirsi contro le lascivie e le tentazioni dell'arte,
in lingua e in sintassi indipendente. Se non che
■di quando in quando, specialmente discorrendo
di cose poetiche, egli ripensa con un sospiro del-
l' anima ai rosei sogni, alle animose speranze
de' begU anni; e una forte pietà e una ineffabile
tenerezza di sé stesso lo assalgono; e il rimorso
l88 CRITICA E ARTE.
del procurato aborto dei romanzi^ dei poemi, dei
drammi, che gli palpitavano già tenerelli nelle
poetiche viscere, gli riga di sudore la fronte chi-
nata nelle serie elucubrazioni; ed è capace di
finire una rassegna d' un fascicoletto di quattro
versioni metriche dal tedesco cosi: — Felice lui
{ il traduttore ), a cui sono dischiusi i larghi e
sereni campi dell'arte! Noi siamo condannati a
fare saggi, bozzetti, rassegne — . Ma a poco a
poco il mestiere lo vìnce. E poi quel parlare in
prima persona plurale, quel figurarsi di avere,,
appoggiata a un colonnino di giornale, la sua
cattedruzza, dalla quale guidare un po' po' 1' opi-
nione, e forse, chi sa?, illuminarla, e incutere
anche, perché no?, un'idea bizzarra, un vago
terrore di sé, sono imagini teatrali queste che
rapiscono l'innocente, uscito pur ora dai confini
di quella età, che è, come sappiamo, istintiva-
mente comica e imitatrice. E poi la malattia del
secolo, di questo secolo grande ma pedante; la
malattia, dico, di fare il maestro, d' avere a in-
segnare qualche cosa e tutto a qualcheduno e a
tutti, per la quale trecento milioni d' europei saran
ridotti a momenti a farsi lezione l' un con 1' altro
schierati su tanti panchetti l' uno in faccia all' altro
su per monti e per piani; cotesta malattia ha
menato già orribili guasti nel giovinetto, e gli
sale su su dal cuore al viso e alla testa. Bel sen-
nino d' oro ! ha venti anni, e vi vien voglia di
pigliarlo pe '1 ganascino, e adagiargli la faccia su-
CRITICA E ARTE. 189
pina, a vedere se ha più denti in bocca e se
sotto il labbro imberbe gli sbiechi aguzza e vez-
zosetta la bazza calcolatrice. E per ciò forse egli
in ogni congiuntura declina la qualità sua di gio-
vine; e nelle sue giornate letterarie procede alla
scoperta oggi d' un romanziere giovine, domani
d' un drammaturgo giovine, dopo dimani d' un
poeta giovine. E poi tutti d' accordo si sbaciuc-
chiano r un con r altro per le appendici, con le
dedicatorie, nelle rassegne; e denudano in con-
spetto del pubblico le loro pubertà, cantando in
coro: Noi siamo i giovini, i giovini, i giovini.
Ciò non vuol dire che il critico giovinetto non
corteggi quelli che scrivono da qualche anno. Vi
manda, per esempio, una sua appendice di gior-
nal teatrale, con un segno di lapis verde o rosso
alla linea dove vi ha fatto l'onore di nominarvi.
Voi non gli rispondete; o, per dir meglio, io non
gli rispondo. Ed eccovi poco di poi un altro gior-
nale, più grande, più serio, nel quale il giovinetto
vi ha consacrato un periodo; e con una nota
manoscritta in calce o al margine, a costo di
farvi pagare la multa postale, vi avvisa che aspetta
il vostro giudizio. Voi non gli rispondete: o, me-
glio, voi lettore gli rispondete, se vi piace, ma
io no. Ed ecco che un bel giorno mi veggo ca-
pitare un fascicoletto, intitolato Studio, o Saggio,
o Impressione, o Ritratto, o Bozzetto, o Profilo;
una impiccagione in somma alle forche della pub-
blicità, fatta in tutte le regole dall' accanito critico
190 CRITICA E ARTE.
giovinetto a danno della vita di qualche sciagu-
rato, magari d' un altro critico giovinetto : sono
gente quella da inferocire e mangiar V un del-
l' altro in famiglia, per disperazione. E al fascicola
si accompagna una lettera del critico, che inter-
pellandovi co 1 voi vi si offre paratissimo a con-
ciare a quel modo anche voi, se gli mandiate il
vostro ultimo libro. Allora poi sarebbe il caso di
rispondere, chi ne avesse voglia, a un di presso
cosi:
— Un critico deve anzi tutto conoscere per-
fettamente la lingua, la letteratura, la storia del
suo paese, da quanto uno che abbia il dovere
d' insegnarle. Ciò pare semplicemente naturale,
non è vero?, se bene non sia comune: voi, si-
gnore, per esempio, non sapete la grammatica.
Ma non basta. Come, volere o non volere, i modi
e le forme del concetto e del lavoro artistico a
noi, per le tradizioni e per la educazion nostra,
procedono in gran parte dagli studi classici, cosi
il critico per me dee avere più che sufficiente
cognizione d' una almeno delle due lingue clas-
siche e conoscenza ampissima poi della storia e
dei modelli di ambedue le classiche letterature.
E non basta. Noi siamo e vogliamo essere mo-
derni: ora la letteratura che da due secoU ha
dato e dà le forme più logiche, più spigliate, più
facili al pensiero moderno è senza dubbio la
francese, e per la letteratura di Francia son pas-
sate e sonosi mescolate le diverse correnti del
A
k
CRITICA E ARTE. 1.91
genio moderno : per ciò il critico deve conoscere
di quella letteratura assai oltre ai romanzi e ai
libri politici e di lettura comune^ e molto più che
non serva alla elegante conversazione. E non
basta. Della letteratura tedesca e della inglese
che ne pensa il critico? Egli sa di certo per
quanta parte l' elemento germanico entrò* nelle
nostre letterature da antico, e come Inghilterra
e Germania poi intendano da oltre un secolo a
modificare incessantemente la politica la filosofia
e r arte moderna. Una almeno delle due lettera-
ture gli convien dunque conoscere, e un po' più
in là della superficie. E con tutto questo il critico
deve possedere V instrumento della filosofia e
l'uso della storia tanto da rendersi ragione degli
svolgimenti e delle trasformazioni interiori ed
esteriori della letteratura rispetto agli svolgimenti
e alle trasformazioni degli spiriti dell'individuo e
della civiltà. E di tutto questo dee avere avuto
tempo e forza per essersene fatto con la medi-
tazione una sintesi propria. E con tutto questo
non sarà critico intero, piacevole, utile, se non
abbia ingegno o facoltà veruna di artista. La crì-
tica letteraria, del resto, ai giorni nostri non può.
né deve consistere in altro che nelF applicare a
un fatto nuovo, o ad una serie di fatti apparen*
temente nuovi, l'osservazione storica ed estetica,
individuale a ogni modo e relativa, ma che pure
acquista valore da chi la faccia e dal fondamento
che ella abbia in una lunga e razionale esperienza
192 CRITICA E ARTE.
di esami e raffronti tra più fatti consimili e di-
versi in tempi; in luoghi, in condizioni consimili
€ diverse. Stando cosi le cose, voi capite bene,
signor miO; che il pubblicar voi sotto il titolo di
critica le vostre impressioni, o le reminiscenze
dei vostri imparaticci di scuola, o il formulario
dell' ultimo libro che avete letto, o i piccoli amori
€ i piccoli odii di una combriccola di brave per-
sone, è cosa che può piacere a voi e fino a un
certo segno anche a me, ma che non giova a
nulla, non porta a nulla, non significa e non at-
testa nulla, se non forse la vanità dei nostri studi
€ questa eterna frega accademica che in Italia
ci rode e ci mangia tutti. Ma v' è di peggio. A ve-
dere come voi, ragazzo, tirate via a spacciare
una dottrina che non avete; a vedere le vostre
citazioni di seconda mano, nelle quali sbagliate
fino i nomi degli autori, da tanto che li cono-
scete; a vedere come non pure spogliate i libri,
ma togliete da giornali recenti e prossimi articoli
di amici e nemici e li mettete tra *1 vostro lavoro,
senza né anche un cencio di citazione pur ne* luo-
ghi meno in vista; a sentire come, con la mano
ancora su la roba degli altri, ingrossate la voce
per farci una lezione magari di morale, e ci sbat-
tete su la faccia i vostri consigli e i suggerimenti
€ le ammonizioni; a considerare per un' altra
parte come sapete anche giocar destro nel far
comparire e scomparire, staccati e riattaccati op-
portunamente, i pensieri e i luoghi e le frasi del-
CRITICA E ARTE. I93
r autore che biasimate o lodate; e come dai
vituperii trapassate alle lodi, o dall' ardenza alla
freddezza, sempre opportunamente; e come in
fine di fì-onte all' imputabilità di tali peccatuzzi
sgattaiolate sotto il privilegio della gioventù; a
vedere, dico, questa specie di tela del Nigetti
con r ordito di goffo e il ripieno di furfante, vien
voglia di domandare: — Ma tutto cotesto è leg-
gerezza soltanto, o la malattia cutanea della lette-
ratura non accuserebbe ella qualche vizio più
profondo, e il disfacimento dei tessuti organici,
e la mancanza di un vital nutrimento dell'anima?
Ma come? Sarà permesso a uno di darsi per
quel che non è, di affermare quel che non sa,
di mostrare una cosa per un' altra, senza taccia
di disonestà, solo perché dice di scrivere ar-
ticoli di critica? E quel che non si farebbe,
o non si farebbe senza qualche pencolo, nel
conversare civile, si potrà fare, con solo il pe-
ricolo di esser lodato, nella stampa? E la impo-
stura e la ciarlataneria, e le ruberie e le mario-
lerie, non saranno più impostura e ciarlataneria,
ruberie e mariolerie, perché esercitate, perpetrate
e commesse nel territorio della letteratura? E que-
sto abito della menzogna, questa consuetudine
della falsità, questi sdruccioli nella vigliaccheri?,
non guasteranno né pervertiranno poi 1' uomo e
il cittadino, perché si mostrano nello scrittore
principiante? Ammettiamo che no: il caso vostro
sia soltanto una ragazzata. Ah, dunque voi avete
Carducci. 4, 13
194 CRITICA E ARTE.
proprio voglia di scrivere? Ma non vedete quanta
folla in Italia di gente che scrive e qual rarezza
di gente che legga^ tanto che gli scriventi, i più
almeno, si riducono a riconoscersi e gabellarsi
tra loro senza che il vero pubblico si accorga né
meno che ci sieno? Del resto, anche se T Italia
non avesse più per cinquanta o sessanta anni né
un artista né un poeta né quel che si dice co-
munemente uno scrittore, o ne avesse uno o due
soltanto, a me e a qualche altro non parrebbe
mica la fine del mondo. Siamo tanto stufi, caro
mio, di questa eterna e infinita e universale acca-
demia che tien seduta tutti i giorni dair Alpi al-
l' Oreto su i temi della lingua parlata e della
lingua scritta, della letteratura giovine e della
letteratura vecchia, dell'idealismo e del realismo;
siamo tanto ristucchi delle tenzoni arcadiche su
i motivi — Eir è, non è — È viva, è morta —
È dentro, è fiiori — ; abbiamo, dico, tanto rintronato
gli orecchi di tutto ciò, che, ora come ora, vedete,
pcBbriremmo un po' di silenzio anche al rinno-
^^■ento del teatro italiano e all' apparizione del
i^Banzo italiano. Ma, scusate : o non facciam tutti
i giorni le querimonie grandi su i tanti milioni
d'analfabeti? Aspettiamo dunque che la maggio-
ranza degl' italiani imparino a leggere; e poi scri-
veremo, o scriverete. Che se intanto gì' italiani
imparassero a leggere da vero ; se l' Italia intanto
mettesse insieme quel che le manca, cioè una
coltura superiore e generale, profonda e propria;
CRITICA E ARTE. 195
se finisse Y inventario del suo passato per poi
procedere avvisata e sicura ai lavori e agli acqui-
sti neir avvenire; se scrutando severamente il
proprio petto vedesse di ritrovarvi o di svegliarvi
quel sentimento della vita moderna, che ora non
ha o malamente affètta imitando; oh a cotesti
patti potremmo bene aspettare! E che? e* è la
critica storica da portare intorno ai nostri clas-
sici, e* è la storia di tutta la nostra letteratura
antica e moderna da fare, e' è da fare la storia
del nostro popolo, questa sublime e drammatica
storia, piena di tante glorie, di tante sventure, di
tanti insegnamenti, e* è, innanzi a noi, tutto que-
sto lavoro necessario a una nazione che intende
rinnovarsi; e ci perdiamo a studiare il gettito
delle ova delle formiche? E badate; che per fare
compiuta e vera la nostra storia nazionale ci bi-
sogna rifar prima o finir di rifare le storie parti-
colari, raccogliere o finir di raccogliere tutti i
monumenti dei noslri comuni ognun dei quali fu
uno stato; e per fare utile e vera la storia della
nazional letteratura ci conviene prima rifare cri-
ticamente le storie dei secoli e dei generi lette-
rari, che tutti hanno un loro portato e diversi
gradi di svolgimento, le storie delle letterature
provinciali e di dialetto, ognuna delle quali ha il
suo momento, la sua scuola, i suoi tipi; e per
r una cosa e per Y altra ci conviene raunare, di-
scutere, raffrontare, ricomporre le leggi e le forme
dei dialetti, e i canti e i proverbi e le novelle
196 CRITICA E ARTE.
popolari^ e le tradizioni e le leggende italiche e
romane, pagane, cristiane, del medio evo. Voi
potreste, o giovani, andar cogliendo di su la
bocca del popolo, da provincia a provincia, la
parola, il motto, la imagine, il fantasma che è te-
stimonianza alla storia di tanti secoli; potreste
cogliere a volo la leggenda che da tanti secoli
aleggia per entro le caverne preistoriche e i se-
polcreti etruschi, intorno alle mura ciclopiche e
ai templi greci, su gli archi romani e le torri
feudali; voi potreste ricomporre cosi la demopsi-
cologia deir Italia, e dai monti alle valli, lungo i
fiumi e su i mari della patria, cooperante la na-
tura, ritessere per tutto il bel paese la poesia
eterna, e non più cantata, del popolo; e preferite
la muffa dei piccoli cerchi, i pettegolezzi delle
combriccole, la letteratura delle fredde arguzie e
dello stento ? Provate gli studi severi ; e sentirete
il disinteressato conforto dello scoprire un fatto
o un monumento ancor nuovo della nostra storia,
una legge o una forma incognita della nostra
antica arte, di quanto avanzi le misere e maligne
soddisfazioni d' una troppo facile diagnosi intorno
a un romanzo nato male o a una manatella di
versi scrofolosi. Entrate nelle biblioteche e negli
archivi d'Italia, tanto frugati dagli stranieri; e
sentirete alla prova come anche quella aria e
quella solitudine, per chi gli frequenti co '1 desi-
derio puro del conoscere, con 1' amore del nome
della patria, con la conscienza dell' immanente
CRITICA E ARTE. 197
vita del genere umano, siano sane e piene di vi-
sioni da quanto V aria e V orror sacro delle vec-
chie foreste: sentirete come gli studi fatti in si-
lenzio, con la quieta fatica di tutti i giorni, con
la feconda pazienza di chi sa aspettare, con la
serenità di chi vede in fine d' ogni intenzione la
scienza e la verità, rafforzino, sollevino, miglio-
rino r ingegno e V animo. 1 giovini non possono
generalmente esser critici; e, per due o tre che
riescano, cento lasciano ai rovi della via i bran-
delli del loro ingegno o ne vengon fuori tutti in-
zaccherati di pedanteria e tutti irti le vesti di
pugnitopi: la critica è per gli anni maturi. Per i
giovani è la storia letteraria e civile, specialmente
trattata per monografie: essi portando nelle ri-
cerche r alacrità delle forze, nei raffronti 1' agilità
dell' ingegno, nella erudizione la fantasia degli
anni loro, possono infondere nell' opera storica
un' anima di poesia che alla scuola antica per
avventura mancava. Peccato che prescelgano di
andare nel numero dei più! —
Cosi io risponderei al critico giovinetto, se il
far prèdiche e lo scriver lettere non mi noiasse;
invece scelgo la via per me più comoda alla sua
nimicizia, non gli rispondo. Tanti altri del resto
gli rispondono, e nell' interesse loro lo proseguono
e lo circondano di conforti, di lodi, di lusinghe
e d' insidie, se bene il codice punisce 1' eccita-
mento alla corruzione.
198 CRITICA E ARTE.
IV.
Tra i produttori di critica periodica un bel
tipo è anche il professore. Intendiamoci bene. Non
che alle scuole italiane (dico specialmente delle
secondarie; che forniscono un certo numero di
tali scrittori) manchino gl'insegnanti dotti e seri:
vi abondano anzi, e attempati che onoratamente
conservano le tradizioni dell' arte, e giovini che
animosamente propagano gli acquisti della scienza*,
vi abondano, e laboriosi, modesti, obHati adem-
piono il nobile officio con una intelligenza di amore
e una religione del dovere degna di maggior
premio che la nazione oggi non dia. Ma ci furono
anni pur troppo che chiunque avesse stampato
due strofe o avesse perpetrato una tragedia o un
romanzo o buttato giù per un giornale gli an-
nunzi dei libri nuovi d' una società editrice o dato
segno di saper leggere nei salotti delle signore di
parte governativa, faceva valere i suoi diritti a
una cattedra; e il Governo prima o poi lo man-
dava a insegnare letteratura o storia o qualche
cosa di simile in un liceo o in altri instituti. Ora,
in Italia, il letterato puro, uno cioè il quale pro-
fessi di non sapere fare altro che scrivere e di-
scorrere più o meno male di letteratura più o
meno amena senza che abbia nulla di suo né un
ufficio né un esercizio civile, in ItaHa, dico, un
tale uomo è novantanove per cento un cattivo
CRITICA E ARTE. 199
arnese, o almeno un ozioso, che, passata senz' arte
né parte la gioventù, cerca di sgabellarsela pe *1
resto a spese del pubblico, e non vuole ricorrere
a mestieri più faticosi e difficili ma più onorati,
come sarebbe il professore di salti mortali o il
dimostratore di bestie feroci. Ancora: ammesso
pure che uno faccia delle strofe belle, cioè ben
colorite e sonanti, e di be' periodi, cioè con molte
belle frasi, quel tale a ogni modo e per ciò a
punto è quel che v' ha al mondo di più inetto e
di meno idoneo all' insegnamento. Un facitore di
strofe e di periodi, preso anche in grande e in
bello, ha sempre qualche cosa, che dico qualche
cosa?, ha sempre molto, molto assai, della donna
civetta: fatto maestro, si mette allo specchio e si
raggiusta i capelli a ogni minuto dinanzi alle in-
telligenze degli scolari. E invece di leggere e in-
terpretare Dante, legge e interpreta sé stesso.
E gli scolari lo abbordano cosi: — Professore,
per oggi ci faccia lezione su quel suo dramma
di cui ci parlò l' altro giorno. — Professore, ci
spieghi un po' quel suo articolo stampato, sa?,
nel giornale di ier 1' altro. — Professore, ci rac-
conti un po' di quando era a Milano o a Torino
€ che conobbe il Manzoni o il Guerrazzi. — Gli
scolari, s' intende, sónosi addomesticati con lui da
che egli tenne con loro questi o simili propositi:
— Cari miei, oggigiorno non si fa più scuola
come una volta. Con quattro chiacchiere cosi alla
buona, vedete, s' impara più che da dieci libri di
200 CRITICA E ARTE.
testo. Quel pedante dello scrittor tale! ha cosi
poco cervello costui, che in questo calamaio sguaz-
zerebbe. I grandi autori bisogna sentirli, ecco
tutto ; e Dante si commenta co ^1 cuore. — E in-
tanto cavava fuori una sigaretta, e V accendeva,
E — Volete delle sigarette • — ripigliava — e il
precetto più sicuro per far bene la prosa? Scri-
vete come parlate, co '1 vostro cuore su la penna,,
con la vostra lingua su la carta: siate immediati
come il profeta in conspetto di Dio, quando apriva
la bocca e faceva ah ah ah. Volete intendere la
poesia o farne? Eccovi la ricetta, la vera, la sola,
la immensa'_^ricetta : Amate, amate, amate. A pro-
posito, vedeste l' Ernestina ieri al passeggio?
Carina, non è vero? Oh sentite questi versi che
ho fatti per lei —.E cosi le speranze della patria
imparano, o imparavano, letteratura.
Ma, se il professore fa lezioni come altri fa-
rebbe un' appendice di giornale umoristica, per
converso poi e per compenso fa gli articoli di
critica nei giornali come farebbe una lezione. In
generale 1' abitudine della cattedra nuoce agli
scrittori e li vizia, o li rilassa ed esaurisce. Ca-
pisco che r Italia, la quale vuole darsi il lusso
d' una letteratura moderna per la stessa ragione
che un nobile spiantato vuol tenere carrozza, i
suoi scrittori buoni o cattivi finisca con farli pro-
fessori. I Medici li facevano canonici, gli Estensi,
per quel che ne dice V Ariosto, cavallari; e forse
che questo era il meglio, almen per V igiene. Ma
CRITICA E ARTE. 201
in tanta abondanza di gente che si ostina a scri-
vere per un popolo che si ostina a non leggere
il Governo italiano non può fare tanto sottili di-
squisizioni; e infastidito da certi sbadigli che tra
la noia e V appetito si prolungano come guaiti,
afferra di quando in quando pe '1 bavero dell'abito
qualcuno degli sciagurati^ e lo scaraventa in qual-
cuna delle scuole italiane, e gli grida dietro — Va
là, insegna qualche cosa anche tu, se non altro
la prosa dei giornali illustrati e la poesia dei li-
bretti d'opera. O che lo stato non deve entrarci
per nulla nel rinnovamento della letteratura e del-
l' arte ? — Ora figuratevi un librettista o un faci-
tore di barcarole e di rispetti divenuto professore:
è il mio personaggio, del quale vi disegnai un
aspetto : eccovi 1' altro. — Se mi han fatto pro-
fessore — egli ragiona — , vuol dire che io devo
esser maestro di qualche cosa: ma professore mi
han nominato per quelle mie strofe e per quei
versi: dunque quelle strofe e quei versi sono un
canone dell'arte — ; e conchiude delimitando il
regno dell' arte dall' orizzonte della sua cattedra
ai termini delle sue strofe. D' allora in poi l' ul-
tima età gloriosa della poesia è per lui il bene-
detto anno che egli compose quelle sue strofe; e
chi ha fatto strofe dopo di lui è per lo meno
sospetto. Che se per caso quel sospetto fosse
tanto sfacciato da piacere a più d' uno, il profes-
sore lo riguarda e lo tiene per suo personale
nemico. E la sua ragion critica, tutti se ne accor-
202 CRITICA E ARTE.
^ono, in somma è questa: — Voi avete il torto
di esser letto più di me, e il peccato di esser lo-
dato più di me; e aveste l'impudenza di pensare
€ di fare diverso da me. Certe idee io le conce-
pisco cosi; certe elaborazioni io le eseguisco cosi,
certe cose io le dico cosi; e voi le concepite, le
eseguite, le dite a modo vostro: pedante! Io ho
il gusto di certi generi e di certe forme, e voi
no: dottrinario! Io sono arrivato a questo punto,
e qui ho chiuso il mio mondo ; e voi volete andar
fuori e oltre di qui: codino! — Tutto ciò con
molti discorsi di estetica e di storia. Dai quali
apparisce portentosa non tanto la pochezza di
quello che il professore sa quanto la sicurezza
con cui ignora V immensità dell' ignoranza sua.
Egli, per esempio, avrà finito di leggere ieri un
libro sufficientemente vecchio di teoriche nuove:
come di quelle teoriche ieri egli non ne cono-
sceva nulla, oggi non può dare a credersi che
gli altri ne sapessero qualche cosa; e cosi do-
mani ve le serve in tavola nell' articolo che scrive
intorno al vostro ultimo libro, ammiccando alla
gente su V inscienza e la semplicità vostra. E cosi
egli, che non fa mai la lezione agli alunni, la fa
sempre agli scrittori; e i suoi articoli sono stufa-
tini di pedanteria alla moderna con le cipolline
dello spirito. No, v' è di peggio. Come i re di
Francia ammettevano i cortigiani all' onore di
vederli a desinare, cosi il professore, dopo una
strippata di letture eterogenee, convita il pubblico
CRITICA E ARTE. 203
allo sfogo del suo stomaco letterario. E non trova
nessuno che gli dica — Professore, oh ci faccia
un po' il piacere di digerire in famiglia — .
V.
Or dunque, ritornando a lui, il signor Guer-
zonì capirà perché fino a oggi io non abbia avuto
che dire con i miei critici. Degli ingiuriatori e dei
calunniatori non si parla né meno: avendo io
detto male, a modo mio, di molte persone e di
molte cose, è naturale che molti dicano, a modo
loro, male di me. Ma, giacché oggi mi si fa in-
nanzi il signor Guerzoni con quella sua aria e
mi esorta ad " accogliere la critica cortese ed
onesta come un' amica, a disputar seco ma ad
ascoltarla „, ecco io ascoltandolo (a disputare non
m'impegno ancora) mi proverò a studiare anche
lui. E lo classifico sùbito.
Del genere critico italiano la varietà più nuova
è quella che io vorrei chiamare il meraviglioso,
per certa sua ideal somighanza agli eleganti fran-
cesi che nel tempo del Direttorio acquistaronsi
<:otesta denominazione con lo sfoggio dei discorsi,
dei baveri, degli ornamenti barocchi e con la
morbida ostentazione d' una boriosa contentezza
di sé e di certa avventataggine né aristocratica
né repubblicana ma di risaliti. A rappresentare il
critico meraviglioso non ho bisogno di raffrontare
e di astrarre, prendo il signor Guerzoni e il suo
204 * CRITICA E ARTE.
articolo della Gazzetta ufficiale intorno alle mie
Nuove poesie: articolo che egli intitolò Nota
nella stampa a parte, di cui volle favorirmi.
VI.
Il signor Guerzoni entra in campo come un
uomo troppo superiore alle piccole questioni e al
tecnicismo letterario: indipendente, liberale, anche,
a detta sua, anarchico, egli non è stato mai, e
non è, né un classicista né un romantico^ non ha
capito mai nulla, egli lo dice, delle definizioni e
distinzioni e classificazioni che tanta brava gente
ha voluto fare di queste due parole (pag. 5). Ora,
che il signor Guerzoni non sia né classicista né
romantico, egli intende bene che a me non im-
porta più di tanto e non importerà di molto
né meno ai seguaci che possano tuttora avere
quelle due scuole. Ma che non abbia capito nulla
a certe distinzioni (lasciamo andare le defini-
zioni e le classificazioni) f ciò fa male a dirlo
uno che professa critica. Il " giovine depu-
tato „ (è la circonlocuzione con cui lo vezzeggia
il Fanfulla) mi rassomiglia un po' a un lione di
calva e ritinta eleganza, il quale corteggiasse oggi
una signora con le frasi delle Meditazioni
del Lamartine. Quelle cose stava bene dirle circa
il 1831; tiriamo via, anche avanti il quarant'otto,
quando V Italia, ristucca d' una questione che tra
noi fu sempre dibattuta molto superficialmente e
CRITICA E ARTE. 205
per lo più da puri retori, preparavasi a ben altre
questioni : allora il dire quelle cose poteva essere
indizio d' ingegno indipendente ed acquistar fama
di saputo a un ragazzo che uscisse dalle scuole
dei barnabiti o degli scolopii. Ma oggi, dopo che
la questione è passata dal campo letterario allo
scientifico, dopo che storici solenni han creduto
dover disaminare cotesti indirizzi e contrasti ar-
tistici che rispondevano si intimamente agli indi-
rizzi e ai contrasti filosofici e politici della gene-
razione intercessa tra la sosta della rivoluzione
fi-ancese e i cominciamenti della rivoluzione eu-
ropea, oggi, dopo che la critica germanica e
francese si è tanto affaccendata intorno la scuola
romantica e la classica, vantarsi oggi di non ca-
pirne nulla, è tale una ingenuità quale non può
permetterla a sé stesso altri che V appendicista
d' una Gazzetta Ufficiale italiana. Un si fatto cri-
tico ha rinunziato a capire molte cose, e special-
mente la diversità dei tre momenti razionali ed
estetici della odierna società europea, dal '15 al '30,
dal '30 al '48, dal '48 al '70 : dopo di che fa sorridere
quando dimanda a me come dovrebbe egli ca-
pire perché io abbia fatto classico il sole e ro-
mantica la luna (pag. 6). Uno scrittore dell' Al/ge-
meine Zcitiing ha invece capito benissimo, in
que' miei versi intitolati Classicismo e Romanti-
cismo a' quali il signor Guerzoni allude, ciò che
altri nato nella terra del sole, ove i critici vengon
su ispirati come gì' improvvisatori e i cantori di
2o6 CRITICA E ARTE.
barcarole, non ha capito e difficilmente capirebbe
anche spiegandoglielo. L' italiano, con quella pra-
tica arguzia che fiorisce sotto lo stile dei giorna-
listi del bel paese, scherza su '1 mio repubblica-
nizzare il sole: al che io non ho veramente pensato
mai, ma ci ha pensato ben egli, per ammonirmi
che " il più bel sole della terra splendeva tanto
sui cesarei misfatti di Farsaglia e di Austerlitz che
sulle repubblicane epopee di Valmy e di Jemmap-
pes „. Tanti complimenti al " sole della terra „l
Il signor Guerzoni seguita concedendomi di
molte cose. — Spiritus fiat ubi vult, egli scrive ;
venga il poeta donde vuole, vada dove gli piace —
(pag. 6). La generosità del critico è grande quanto
la inesperienza: ei non sa misurare coli' occhio
del pensiero i termini prevedibili delle sue lar-
ghezze. E cosi a pagina sei mi permette, quasi mi
fossi confessato a lui de' miei peccati di gusto, di
preferire il Heine a Giovenale, Vittore Hugo al-
l'Ariosto, il Goethe al Manzoni; e a pagina dicia-
sette mi rimprovera del ricorrere che fo alle lettera-
ture straniere e del chieder loro in prestito storia,
soggetti ed imagini, quasi che lo Shakespeare non
avesse messo in dramma storie greche e romane,
leggende italiane e danesi, quasi che l'Ariosto e
il Tasso non avessero fatto due poemi di materia
francese ed europea, quasi che Dante fosse na-
zionale come un cinese e come il signor Guerzoni.
A pagina sei mi permette di preferire Omero allo
Shakespeare; e a pagina ventuno mi avverte che
CRITICA E ARTE. 207
r Italia ha scacciato da tempo dalla sua letteratura
ogni elemento pagano e mitologico. A pagina sei mi
permette di scegliere i maestri e i materiali dove mi
pare, e a pagina ventuno mi ammonisce che fo male
a tornare al Rinascimento e non seguitare la scuola
del Parini, del Manzoni, del Giusti. Povero signor
Guerzoni !, mi rassomiglia un maestro di villaggio,
il quale abbia da fare con una di quelle tante
birbe che anche senza la legge dell* istruzione
obbligatoria popolano le scuole elementari. Mi
par di vederlo su le tracce d'un ragazzo che gli
è scappato di scuola: figuratevi sia il figliolo del
sindaco, verso il quale debba il maestro rispon-
dere di tutte le possibili capestrerie del mariòlo.
E il vecchio si scalmana a chiamarlo e cercarlo
per r orto o pe' campi vicini alla scuola: quand' a
un tratto odesi dietro su dall' alto uno sbercio
della nota voce : si volta, e te lo vede passeg-
giare con atteggiamento napoleonico su le gron-
daie del tetto. Ed egli via alle scale; si ferma,
per ripigliar fiato, a una finestra del secondo
piano : to', eccotelo là su '1 fico, che tempesta di
ficuzzi acerbi il vecchio cane di casa, il quale si
contenta di guardarlo con queir occhio tranquillo,
tollerante, bonario, quasi paterno, che i vecchi
cani hanno per i ragazzi, come ammonendo il
padrone: Lascialo fare, li scavezzacolli han sempre
un santo che li protegge. Cosi avviene al signor
Guerzoni con me. Egli, che del classicismo e del
romanticismo non ha, come afferma, capito mai
208 CRITICA E ARTE.
nulla^ ma che viceversa poi ritiene su'l classicismo
€ il romanticismo le teoriche del suo vecchio
maestro di retorica^ egli mi cerca a ponente e
mi trova a levante, mi persegue rivoluzionario e
mi raggiunge tradizionale, mi rincorre classico e
mi riscontra romantico. E allora, " Oh, egli
■" esclama, non ostento di certo per Aristotile ed
■" Orazio il sovrano disprezzo che affètta la scuola
*' da cui sembra derivare il mio poeta „ — (pag. 7).
Ma quale scuola di grazia? quella del sole clas-
sico (pag. 6)? quella dell' elemento pagano e mi-
tologico (pag. 21)? quella delle forme illustri ma
immobili del quattrocento e del cinquecento (ivi)?,
alle quali scuole il mio critico si compiange che
io voglia ricondurre il popolo italiano. Oh via,
egli non sa a qual santo votarsi. E come devo
disprezzare Orazio io, il quale, sempre secondo
il signor Guerzoni a pagina quindici, " marito
su '1 mio plettro al riso di Orazio il caustico di
Heine „?
E qui mi fo lecito di avvertire il signor Guer-
zoni che io non ho fatto mai il cozzone di matri-
moni, e specialmente tra maschi : accompagni pur
egli, paraninfo leggiadro, il " caustico „ e il " riso „,
sposi di un solo sesso e di cosi diversa natura;
ma scelga altro letto che il plettro. Far consu-
mare un matrimonio neroniano sopra un pettine?
ohibò, né meno in metafora ! Ma il signor Guerzoni
loda a pagina ventuno il popolo itaHano, che " a
poco a poco vada giubbilando le barbogie autorità
CRITICA E ARTE. 209
dei rettori (sic) e dei dizionari „, e a pagina sette
dichiara eh' ei non vuol " noie né dispute retto-
riche ed estetiche, né ripeschi di definizioni e ca-
tegorie, che accetta tutto e ingoia tutto „. E non
teme che qualcheduno gU osservi — Ecco. Ella,
signor Guerzoni, può ingoiare tutto quello che
vuole. Ma tanta altura di disprezzi e di sufficienze
con tanta bassura di fondi e tanta povertà di
coltura, cotesto non lo ingoieremo noi. Imperoc-
ché veda, signor Guerzoni: altro è che il critico
non ostenti e anzi dissimuli sotto il panneggia-
mento dello stile gì' impalcamenti dell' estetica e
i materiaU dell' erudizione letteraria, altro è che
lo scrittore di gusto raschi d' attorno l' opera sua
i trucioli che vi può aver lasciato il maneggio
della pialla retorica, altro è eh' e' non impolveri
i lettori sfogliando loro tuttavia su '1 viso la gram-
matica e il dizionario; ed altro è che il critico e
lo scrittore si glorino d' ignorare la storia lette-
raria, di non capire le questioni e le teoriche
estetiche, di disprezzare la retorica la gramma-
tica e i dizionari. Per esempio. Che Ella, signor
Guerzoni, disprezzi tanto la retorica, quando Ella
sa " maritare il riso e il caustico sul plettro „,
quando la sua cosi detta Jtota è piena zeppa
non già della retorica d' Aristotile ma di luoghi
comuni che le scusano la dottrina e di brutte
metafore che le scusano le ragioni; questo non
lo ingoieremo noi. Che Ella vada giubilando le
grammatiche e i dizionari, e intanto scriva ref-
Carducci. 4. 14
2IO CRITICA E ARTE.
tori (pag. 21 ), con due t, per retori, paleggiare
con una sola / (pag. 5) e con sola una t atos-
sicata (pag. 4); e cavi dal suo arsenale i freni
arzenti (pag. io) e le parole che risonano dalle
camene (pag. 7) e le ricette che si propinano (pag. 11);
che Ella possegga tale una prosodia da rifare a
Enotrio i versi cosi
Voliamo, voliam insieme, fiera gentile (pag. 10),
e
Levano le strofe d'intorno alla mia fronte (pag. 14),
e tale un senso della sintassi da scrivere un pe-
riodo come questo " \J Italia nostra non è un
" portento di salute, ma daW essere ammorbata
" e incancherita come la sogna Enotrio Romano
" ci corre „ ; questo, signor Guerzoni, non lo in-
goieremo noi. Il Sainte-Beuve, che era il Sainte-
Beuve, soleva dire che molto in letteratura di-
pende dall' aver fatto un buon corso di retorica.
Noi non chiediamo tanto per il signor Guerzoni;
ma un po' di grammatica e un po' di dizionario
non gli farà male. Nella repubblica delle lettere
uno può essere quel che vuole, ma educato ha
da essere: ora chi professando critica maltratta
la sua lingua, bastona i versi, manda innanzi i
periodi a calci di dietro, quegli nella repubblica-
delie lettere non è uomo educato; e noi nella
repubblica delle lettere siamo aristocratici.
CRITICA E ARTE. 211
VII.
Se non che il signor Guerzoni nella vanità
sua meravigliosa non bada a queste minuzie.
I critici italiani moderni abusano un po' tutti del-
l' io ; ma 1' egotismo del signor Guerzoni è unico
anche in Italia. Egli è capace di citare 1' autorità
sua cosi : " L' ho scritto anch' io tante volte „
(pag. 6). È capace di presentarsi da sé cosi:
" Anzitutto, perché conosca subito con chi hai a
" fare, io sono di quei critici, come il tuo Vittor
" Hugo che ami tanto e il mio Manzoni che non
" ami punto „ ecc. ecc. (pag. 5). E capace di
fare, come dicesi oggi, il suo programma cosi:
" Quanto a me, te l' annunzio fin d' ora, la tua
" potenza come la tua miseria non mi tange „.
" Io son deciso a dirti tutto, tutto quello "che
" non i libri, le teorie e le rettoriche, ma la testa
" mia e il cuore mio son venuti bisbigliandomi da
" loro dacché ti leggo „. Il Lessing, il Macaulay,
il Sainte-Beuve, il Foscolo e il Tommaseo non
osarono mai di essere tanto primitivi e ispirati.
II signor Guerzoni par Dante:
Io mi son un che, quando
Amore spira, noto, ed, a quel modo
Ch'ei detta dentro, vo significando.
Per vero egU ci presenta il suo io un po' meglio
che non facesse Dante; ce lo presenta pettinato
con la scriminatura nel mezzo e le ciocche rac-
212 CRITICA E ARTE.
colte e sbuffanti dall' una parte e l' altra su le
tempie. Le ciocche sbuffanti sono : " la testa mia
e il cuore mio „. Le semplici espressioni " la
mia testa e il mio cuore „ non avrebbero suffi-
cientemente rilevato V importanza dell' individua-
lità guerzoniana. Que' possessivi in fondo furono
r ultimo colpo di pettine, co '1 quale e con una
leggiera voltatina di capo e con un sorriso di
compiacenza il signor Guerzoni si congedò dallo
specchio osannandosi nel cuore suo e nella testa
sua. E cosi acconciato venne a drappeggiarsi in
quel gran lenzuolo con la Croce di Savoia in cima
che è la Gazzetta ufficiale, per prestare all' au-
scultazione degl' impiegati del regno i palpiti del
cuore suo; o, se vi piace meglio, venne ad assi-
dersi tra le colonne dell' appendice come in con-
fessionale, e credè di aver ricevuto la mia con-
fessione e datami la penitenza, scambiando per
la mia voce viva l'eco delle Nuove poesie al-
terata e confusa nelle caverne della testa sua. Io
veramente potrei fargli osservare : come egli non
sia precisamente l' Alighieri da parlar cosi alto
del " cuore suo „ e della " testa sua „, ma si un
appendicista della Gazzetta ufficiale: come, appen-
dicista della Gazzetta ufficiale qual è, egli non
abbia detto nulla che altri non abbiano detto e
meglio di lui, con più garbo il critico dell' Opi-
nione, con più franca e addottrinata malignità
quel del Corriere di Milano: come, stando così
le cose, il venirci il signor Guerzoni ad annun-
CRITICA E ARTE. 213
ziare nella Gazzetta ufficiale che egli " pensa con
la testa e sente col cuore „, ciò che ogni essere
umanamente organizzato fa, può sembrare un' in-
genuità strana. Io potrei fargli osservare tutto co-
testO; ed altro; ma sarebbe tempo perduto. Egli,
sago togaque inclytus, come lo salutano i suoi nuovi
amici, è troppo sicuro di avermi reso un grandis-
simo onore degnandosi di farmi cosi liberalmente
parte di quello che i due rispettabili organi della
testa sua e del cuore suo si bisbigliavan tra loro
su *1 conto mio. Ringraziamolo dunque, e contrac-
cambiamo, possibilmente.
Io non conosco il signor Guerzoni ; ma ei deve
essere un bravo e beli' uomo. Se non che i suoi
amici gli danno a tutto pasto del giovine veterano
e del deputato giovine, gli ripetono tuttavia eh' ei
serba dell' ardenza militare anche scrivendo. Ed
ei, pare, ci tiene un poco a fare il tenentino di
cavalleria della letteratura giornalistica; e a quando
a quando con la giannetta della figura di senti-
mento percuote o carezza la coscia del suo io,
per farne rilevare le rotondità e la impostatura.
Redentore dei piccoli calabresi, ispiratore dell' il-
lustre Zanella., fa piangere le giovani madri e
spuntare i luccioloni a Fanfulla\ e questa è la
parte soave del giovine veterano, è il favo del
mele nella bocca del leone. Vindice delle tradi-
zioni nazionali e civili. Michele arcangelo del-
l' Italia, della virtù, della fede, e un po' po' anche
del vecchio Geova, discende, nella potenza del
214 CRITICA E ARTE.
SUO nome, con la spada lingueggiante del suo
stile, dal cielo della Gazzetta ufficiale su '1 cantore
di Satana: e questa è la parte militare del gio-
vine deputato. Del resto, è un arcangelo mo-
derno, un arcangelo klopstochiano, di quelli che
svolgono in lunghissimi inni le risposte ai discorsi
della corona e le mozioni e le interpellanze del
paradiso parlamentare, ma che non caricano a
fondo come gli arcangeli cromwelliani del Milton.
In fatti, che v' è di militare nella critica del
signor Guerzoni? La franchezza forse di citare
mozzo un passo di certo mio discorso su '1 Giusti
(pag. 19), quasi testimonianza delle mie idee di
una volta intorno la poesia satirica, quando io
non intendevo in quel passo che a render mani-
festi i concetti del poeta toscano con le parole
di lui? La franchezza dell' enumerare le stragi
che io ho menate tra' miei critici (pag. 3), quando
egli è il primo o, tutt' al più, il secondo a cui io
risponda? La franchezza dell'esporre le ragioni e
le cause della mia vita affettiva e del ritrattarmi
con sallustiana romanticità, quand' egli non mi
conosce? Non che a me dispiaccia di esser rap-
presentato come un lioncello ferito che balza
arricciando la giubba, come un Apollo musagete
e scorticatore, come un Heine italiano, come un
Byron maremmano il quale porti dalla prima gio-
vinezza nel core la piaga immarginabile di un
disinganno : se bene io sono sano, riboccante
anzi di salute, come giudicavami il bravo tedesco
CRITICA E ARTE. 215
dell' Allgemeìne Zeitung, se bene minaccio di cam-
pare ancora di molti anni senza servirmi delle
ricette propinatemi dal mio critico, alla fin fine
nella leggenda guerzoniana io ci guadagno un
tanto per la plastica: il mio arcangelo mi fa, come
dicon oggi, posare innanzi alle dame, le quali
amano l' accademia e le piaghe al cuore. Non
dunque per me, ma per la critica, mi permetto
di far considerare al signor Guerzoni che vera-
mente non è franchezza militare cotesta, ma si
quel che dicevasi leggerezza una volta, quando
la leggerezza e V avventataggine del riferire, del
narrare, del rappresentare erano reputate difetto
in qualsivoglia scrittura e tanto più in una critica.
O v' ha egli forse dell' austerità soldatesca in
queir esortarmi ad " accogliere la critica cortese
ed onesta come un'amica „ (pag. 4), e poi dirmi
" bilioso „ (pag. 3), " scervellato e selvatico „
(pag. 4), parlare della mia " atrabile „ (pag. io),
e delle mie " morbose rancure „ e " stizze im-
potenti „ (pag. 15), e del mio " sciagurato tem-
peramento „ e del " tormento del cistifele „ e
dei " morsi dell'orgoglio „ (pag. 11), e del " pa-
rosismo cronico di sdegno „ e del " priapismo
intellettuale „ (pag. 17) che mi offendono, e degli
" urli di furore „ (pag. 16) e dei " gridi di rabbia
fehna „ (pag. 17) che gitto all'aria nel " tumulto
anarchico de* miei errori „ (pag. 16)? Per mili-
tare, mi par soverchia la loquacità del diverbio»
Od è egli in fine una rimembranza della vita di
21 6 -^\ CRITICA E ARTE.
caserma e del modo dì trattare i gregari quel-
r uso delle lunghe apostrofi in seconda persona
singolare che il signor Guerzoni predilige? E qui
da verO; da poi che in caserma non siamo e
siamo lontani dai tempi di Grecia e di Roma e
dalle costumanze repubblicane^ di primo tratto, al
sentirsi fermare e concionare con tanto di tu, vien
subito pensato — Chi è questo cocchiere? — , e
vien fatto di recarsi con le mani in guardia ne
dubbio che il franco concionatore s' avanzi di
momento in momento a tamburinarvi con le dita
il ventre. Ma non v' è pericolo. E tutto affare di
stile. Il signor Guerzoni crede di procedere un
po' dal Foscolo e un po' più dal Manzoni. E dal
Foscolo accatta 1' entusiasmo civile, e parla co '1 tu
fatidico, co '1 classico tu, agli accòliti del sacerdozio
delle Muse: piglia dal Manzoni la elevazione mo-
rale di padre Cristoforo, e parla co '1 tu evange-
lico ai fedeli ed ai penitenti. Il militare in fondo
in fondo è scolastico e frate.
Già: il signor Guerzoni ha, come i frati e i
preti, la intuizione privilegiata di una verità og-
gettiva fatta a conto suo e de' suoi e concepita e
imposta come necessariamente universale. Quante
volte ritornino in quelle poche sue pagine le pa-
role verità e vero, non l' ho contato ; ma sono
molte; e ogni volta la verità e il vero è quello
che il signor Guerzoni sente o pensa o crede o
scrive egli, e questa sua verità e questo suo vero
egli lo consuma per sé e lo comunica agli altri
CRITICA E ARTE. 21 7
come i sacerdoti cattolici il corpo di Gesù. Egli, per
esempio, mi ammonisce a pagina quattro che tra le
voci levatemisi da torno ve ne ha tale che " scende
dair alto, forte di verità ed ispirata d' amore „ ;
e cotesta voce è, s' intende, la sua. E, dopo che
cotesta voce fu stampata nella Gazzetta Ufficiale
( r alto ), poi tirata a parte e rilegata in fascicoli,
egli m' indirizzò con amore un di quei . fascicoli,
" certo, com* ei vi scriveva su, eh' io non temessi
anzi desiderassi la verità onestamente e schietta-
mente detta „. Io gli risposi cosi:
Mio signore. Ella, che inclina al cristianesimo, avrà pro-
babilmente letto l'evangelio di Nicodemo: giova conoscere
anche li evangeli apocrifi. Ora in quell'evangelio si legge:
— Disse Pilato a Gesù « Che cosa è verità? » Disse Gesù « La
verità è dal cielo » — Cotali- parole dell'evangelio di Nicodemo
mi son rifiorite nella memoria, scorrendo quelle con le quali
Ella mi indirizza la sua nota circa le Nuove poesie, « certo
che io non tema anzi desideri la verità onestamente e schiet-
tamente detta », e rileggendo in essa nota queste altre, « Credi
a me: fra quelle voci taluna, lo so, striscia dal basso.... ma
tal altra ti scende dall' alto, forte di verità e ispirata d'amore ».
E anche vedo come in Lei parli, non il critico, ma il veggente,
l'apostolo, 0, per lo meno, il predicatore. E per ciò mi concedo
risponderle co 'l sacro testo, Obdtirattiin est cor Pharaonis\
da poi che non oserei riprendere io, per rivolgergliela, la grave
dimanda di Pilato a Gesù, Quid est veritas? ....
Cosi scrissi al signor Guerzoni. E di fatti la
sua, com' egli la chiama, nota mi ricordava una
predica, che udii da ragazzo, di un cappuccino
contro gF increduli. Anche il cappuccino apostro-
fava l'incredulo co '1 tu, e con molto vivace ipo-
2l8 CRITICA E ARTE.
tiposì e con aria solenne se lo traeva a pie del
pulpito, e battendo le nocche su '1 davanzale del
pulpito costringeva lo sciagurato ad ascoltarlo dal
basso; e gli inventava la sua vita e le cagioni
dell' incredulità sua, e gli diceva insolenze, per
amore, s' intende, e con la intenzione di richia-
marlo a Dio, e lo introduceva a interloquire per
rispondergli poi vittoriosamente, di che applau-
diva sé stesso con un suo scoppio di risa che
pareva un terremoto sussultorio, e si batteva le
mani; e quindi lo scaraventava in inferno, e vol-
gendosi ai fedeli diceva — Vedete? — ; e tutta
questa roba chiamava poi filosofia cristiana, a
punto come il signor Guerzoni dà per critica ita-
liana la sua. Se non che, per essere giusti, il si-
gnor Guerzoni mostra più d' una volta di quella
soave unzione cristiana che il cappuccino barbuto
non aveva: un umido raggio di affetto gli brilla
nella mistica accensione dell' occhio : egli vi danna
al rogo, vi manda all'inferno, ma piange su voi:
si vede in somma eh' e' deve essere stato allevato
in qualche seminario liberalesco, come ve n' era
a' bei tempi del Gioberti, poco prima e poco dopo
il 1848. Udite pietose parole con le quali inco-
mincia a divinarmi (son le stesse, o press' a poco,
che il mio maestro di umanità, un padre sco-
lopio, adoperava per il Byron ed il Leopardi:
c'è, come vedete, da contentarsi): " Giosuè Car-
" ducei (scrive il signor Guerzoni a pagina dieci)
" deve essere una delle tante anime stanche ed
CRITICA E ARTE. 2I9
" inferme, scontente di tutto e di tutti, che
" avendo perduto da tempo il grande punto
" d* appoggio della fede sono condannate a ba-
" rellar perpetuamente nel vuoto oscuro del dub-
" bio e dello scetticismo „. E ancóra " — Eno-
" trio Romano! — mi grida a pagina diciasette —
" Voi siete condannato ad un grande tormento,
" anche più grande di quello di non poter amare :
" quello di non poterlo esprimere „. Si che il
cantore di Satana si troverebbe a peggior condi-
zioni che non Satana stesso ; su '1 quale santa
Teresa costumava di piangere un giorno ogni
settimana, perché V infelice, diceva singhiozzando
la bruna santa spagnola, non può amare; e forse
pensava alla felicità di essere amata da una tale
natura. Io ali* inferno effettivo non ci sono ancora;
e la intercessione del signor Guerzoni, santa Te-
resa della critica italiana, chi sa non possa va-
lermi? Chi sa che un bel giorno il signor Guer-
zoni ed io non abbiamo a tubare d' amore, l' uno
in faccia dell'altro, su i banchi del parlamento,
come due bianchi o iridescenti colombi?
Per intanto il signor Guerzoni ha due altre
qualità del frate pio : la pesantezza e V abnega-
zione. Egli è proprio un buon missionario della
virtù e della fede ne' paesi dell' arte. E come di-
guazzano que' suoi zoccoloni di periodi in quella
sua dicitura paludosa di bassa Lombardia ! Come
suda il pover' uomo a cavargli su da quella pol-
tiglia attaccaticcia barbottante e fetente della sua
220 CRITICA E ARTE.
elocuzione ! Com' è oppresso da queir aria bassa
e grigia del suo idealismo triviale; per la quale
fumano le putride e tangibili evaporazioni de' suoi
paroloni ! Che afa e che umido insieme per quelle
sue lunghe colonne della Gazzetta ufficialeX Dopo
le prime capriole del suo egotismo, non un sor-
riso di verde, non un saluto di alberi, non l'am-
miccare capriccioso di un colle, non un muggito
di bove, non un filo di sole anche annacquato.
È un paesaggio caffè e panerà della Lomellina:
sono risaie, che maturano il riso al proprietario,
ma che mettono l'intontimento e il freddo della
quartana a dosso a chi le trascorre. Quanto dee
aver penato a scrivere per la buona causa il si-
gnor Guerzoni !
Errai; o, a dir meglio, caricai di troppo i co-
lori. Lo scrivere del signor Guerzoni non è poi
cosi brullo e sconsolato com' io 1' ho dipinto.
Qualche volta egli scherza: si, in quella sua va-
porosa facondia, con quella gravezza di periodi,
egli scherza. Figuratevi che a un certo punto
(pag. 15), dopo minacciato di dirmi " tutto quello
" che nemmen tu, Enotrio, hai sognato, perché
^' anche solo sognandolo non saresti più te „, ag-
giunge in nota " Vedi, Enotrio: per romperla
^' sùbito col tuo Fucci, gli butto in viso questa
" bella sgrammaticatura del tuo vivo parlar to-
^' scano, sperando che essa almeno mi interceda
^* grazia presso te „. Carina, non è vero?, l'idea
d' intenerirmi con le sgrammaticature. Ma il più
CRITICA E ARTE. 221
puro sale delle sue arguzie, il fior fiore dell'ideai
grazia raflfaellesca del suo umorismo è dove, ac-
cennato al non poter egli capire perché io abbia
fatto repubblicano il sole (che non ho fatto mai)
e paolotta la luna, aggiunge:
Eppure, se non m'ing'anno, il più bel sole della terra splen-
deva tanto sui cesarei misfatti di Farsaglia e di Austerlitz che
sulle repubblicane epopee del Trasimeno e di Jemmappes, e
ho sempre sentito dire che la povera Cinzia ha retto il can-
delliere tanto ai classici amori di Paride e di Elena che alle
romantiche venture di Giulietta e Romeo. Freschi davvero se
anche il sole e la luna si mettessero a parteggiare con noi di
quaggiù! Di giorno e di notte sarebbe sempre buio pesto, e
sarebbe proprio la volta, per mancanza d'illuminazione mi-
gliore, di darsi per vinti alle grazie petroliere.
Che poderosità di spirito, lettori mici! pare un
ippopotamo che balli. Io m' imagino, quando la
Gazzetta ufficiale arriva ai comuni dell' ultima Ca-
labria o del circondario d' Aosta, io m' imagino le
stupefazioni e i furori d' entusiasmo di quei sin-
daci e consiglieri nell' abbattersi a leggere simili
tratti. Come gli abitanti di non so più qual città
greca, alla rappresentazione d' un dramma di Eu-
ripide invasi di sacro entusiasmo, deliraron tre
giorni, tre giorni aggiraronsi per la città rican-
tando i versi del coro che celebrava la potenza
di amore, cosi nei comuni dell' ultima Calabria e
dell' aostino io m' imagino un altr' e tale delirio
dai sindaci dai consiglieri dai pretori e dagli spe-
ziali propagarsi e appigliarsi al popolo tutto; e
preti e donne e briganti e spazzacamini discor-
222 CRITICA E ARTE.
rere tutta una settimana di Austerlitz e di Far-
salia, del Trasimeno e di Jemmapes, di Paride e
d' Elena, di Giulietta e di Romeo, di Cinzia e del
candeliere, del sole repubblicano e delle grazie
petroliere ; e i piccoli calabresi, delizia del signor
Guerzoni, a mezzogiorno, e i piccoli albini a set-
tentrione, rapiti dall' esempio dei padri in estetica
frenesia, trinciare capriole in piazza da mane a
sera, circondando cosi di un ingenuo e cordiale
omaggio a lor modo la sentita, e concepita gran-
dezza ippopotamica dello spirito guerzoniano, pro-
cedente per il lungo e il largo d'Italia nel vasto
foglio della Gazzetta ufficiale.
Vili.
Ma, con tutta la sua eleganza monastica e la
grazia sua d* ippopotamo, potrebb' essere in fine
che il signor Guerzoni pensasse bene e ragionasse
diritto: sono cose che in Italia alle volte si danno:
Cosi all'aprir d'un rustico Sileno
Meraviglie vedea l'antica etade.
Alla prova.
" La poesia — scrive il signor Guerzoni a pa-
gina otto — , giusta la immortale e sola definizione
" che accetto, è del vero ti divino splendore „.
Ecco: io non odio le definizioni con quell' odio
di cui le prosegue il signor Guerzoni; ma, quando
definizioni han da essere, non le amo in decasil-
labi. A cotesta definizione che Platone fece del
CRITICA E ARTE. 223
bello, ora che un deputato ce la ricanta in versi,
avviene quel che all' elegie militari di Tirteo nei
duodecasillabi del prete Arcangeli : non è più lei.
Perché, veda il signor Guerzoni, altro è che Pla-
tone definisse il bello per isplendore del vero,
ove chi sa che cosa suoni vero nel sistema e nel
linguaggio platonico intende e accetta o rifiuta;
e altro è che il signor Guerzoni trasporti la de-
finizione platonica dal bello, concetto astratto,
idealità metafisica, . alla poesia, cosa concreta e
reale, come si farebbe di un cartello d' appigionasi
da una casa all' altra. Cotesto platonismo melo-
drammatico, che afi'ètta di dir tutto e non dice
nulla, è de' soliti refiigi della critica principiante,
della critica sentimentale e declamatrice, è di
quella roba che si tira per tutti i versi come la
trippa, le giubbe de' contadini e la bibbia. Pe-
rocché chi è che non creda di possedere un po' di
vero a questo mondo? Non tutti certamente quanto
il signor Guerzoni; ma tutti un pochettino cre-
diamo di averne, e forse ne abbiamo. Cosi anche
r arcade accetta la definizione platonica guerzo-
niana, e — Si: la poesia " E del vero il divino
splendore „ ; e il vero è il mio belato al pie di
Fille, e il non vero è il ruggito byroniano a canto
di Medora e di Zuleica — . E di rincontro il pu-
rista — Si, si: la poesia " E del vero il divino
splendore „ ; e il vero sono i modi danteschi dei
quali io constello il mio aulico eloquio
fra il parlar de' moderni e il sermon prisco,
224 CRITICA E ARTE.
e il non vero sono i barbarismi i neologismi e la
lavatura di piatti del Manzoni. — Si, mille volte si,
— entra di rincontro a dire il manzoniano : — la
poesia " È del vero il divino splendore „; e il
vero è solo quello che io veggo e adoro nel
Manzoni, e il non vero è tutto quello che è fuori
del Manzoni.
Ma no, ripiglia alla sua volta il signor Guer-
zoni: " il vero il mio poeta sa che non è solo
quella spera di mondo che ei vede dal fine-
strino del suo studio, né quella porzione d'uomo
che incontra nell' ambito della sua scuola, né
quel barlume d' idea che gli tremola dinanzi al
chiarore della sua lucerna fra il monte dei suoi
palinsesti : il vero è tutto V uomo, tutta la na-
tura, tutto r universo „. Lasciamo da parte i
palinsesti : per quel suo odio all' " autorità bar-
bogia „ dei dizionarii, che in altro scritto gli
fé' scambiare spigolistra per spigolatore, chi sa
cosa mai di serpentesco crede il signor Guer-
zoni che siano i palinsesti! e per ciò li am-
monta intorno al suo poeta ; il quale non è
veramente il cardinal Mai, e, se anche sapesse
leggere i palinsesti, non ne troverebbe mica per
tutt' i canti da ammonticchiarseli intorno nello
studio. Lasciamo anche la ipotiposi del finestrino
e del chiarore della lucerna: o sta a vedere, che
d' ora innanzi il poeta, per piacere al signor Guer-
zoni, dovrà essere un ignorante, non aver arte
né parte se non forse politica, e andar tutto di
CRITICA E ARTE. 225
girelloni! nel qual caso il Foscolo lo Shelley il
Platen il Leopardi sarebbero gente da palinsesti.
Lasciamo i palinsesti i finestrini e le lucerne, e
veniamo al vero. Dunque il vero non è una sfera
di mondo né una porzione di uomo né un bar-
lume d'idea; si, è tutto l'uomo, tutta la natura,
tutto r universo. Benissimo : ma quella spera,
quella porzione, quel barlume saranno sempre
parti del vero e non saranno il falso. E poi,
anche il falso non è, idealmente pensato, un vero?
E questo vero dov' è ? fuori o dentro ? E chi è
che percepisce, che idealizza, che fa questo vero,
il quale è tutto l' uomo, tutta la natura, tutto l' uni-
verso? Sono eglino il signor Guerzoni e i critici
pari suoi, i quali par che pensino come 1' Arlec-
chino dell' antica commedia italiana quando diceva
a Colombina — Vedi? tutto il mondo è fatto come
casa nostra — ? O vogliamo del vero fare una
regia cointeressata? O vogliamo ritornare al-
l' " ente che crea 1' esistente „ e al " lumen quod
illuminat omnem hominem venientem in hunc
mundum „? Spieghiamoci un po', e senza frasi.
Ecco: io per me crederei che del vero ciascun
uomo avesse una sua intuizione e si formasse
un' idealità sua, e che quel vero il quale è tutto
r uomo, tutta la natura, tutta l' idea, consti per
ciascuno di veri particolari e vada in veri par-
ticolari individuato : crederei che 1' artista, quando
fosse giunto a rappresentare con la maggiore
sincerità ed efficacia possibile quella sua idealità,
Carducci. 4. 15
220 CRITICA E ARTE.
avrebbe fatto quel che è la sua parte ; e, da poi
che né i tempi né le condizioni o disposizioni
artistiche né i modi o i mezzi dell' arte sono
sempre e in tutti gli stessi, crederei che anche
avrebbe fatto la parte sua, quando rendesse con
la maggiore efficacia e sincerità possibile quella
spera, quella porzione, quel bagliore di mondo,
di uomini, di idee, che egli avesse meglio veduto
e più fortemente percepito. Che vuole il signor
Guerzoni? non tutti siamo Omero o Dante o
Shakespeare. Ed egli stesso se ne accorge, sog-
giungendo " Questo è il campo prescritto al poeta,
e beato lui se lo può correre intero! „ O dun-
que contentiamoci, a questi lumi di luna, anche
di una spera.
" Badi però — seguita ancora il signor Guer-
zoni sempre a pag. 8 — il mio poeta, che questo
" campo non può essere né oltrepassato né rimpic-
" ciolito „. Ah, il signor Guerzoni, il quale poco fa
parlava di spere, di porzioni, di barlumi, ora téme
che il suo poeta oltrepassi tutto V uomo, tutta la
natura, tutta l'idea? Ed egli, che " non ha paura
della libertà „ (pag. 7), egli " anarchico „ (ivi),
si affretta a chiudere i cancelli : " Non oltrepas-
" sato, perché oltre i suoi confini stanno le vuote
" nebbie del falso sempre preste a disciogliersi al
" primo sole del vero ed a precipitare nel mare
" dell' oblio il temerario vate che vi abbia spinto
" r icareo volo „.
O Muse, o Febo, o Bacco, o Agatirsi!
CRITICA E ARTE. 227
Il falso che non è il vero, e il vero che non è
il falso; il falso che è la nebbia, e il vero che è
jl sole; e le nebbie del falso che si disciolgono
e precipitano esse i temerari vati; e il mare del-
l'oblio; e r icareo volo. E questo si dice parlar
chiaro. Ah, il ragionamento del signor Guerzoni
mi par di vederlo. Povero pagliaccio, paonazzo
in viso dal digiuno e dalla fatica, batte il tam-
buro con un ultimo indistinto brontolio disperato,
e le braccia gli cadono giù, e le bacchette gli
scivolano dalle mani. La retorica intanto, ninfa
dello spettacolo mantrugiata, con lo sgualcito gon-
nellino dei tropi saltellante su '1 dubbio color ro-
seo della maglia pur diguazzante intorno alle
polpe meschine, la retorica, ninfa dello spettacolo,
tira il telone d' indiana; acciò Y inclito contadiname
venga ad ammirare il diluvio universale delle pa-
role senza né arca né Ararat. 11 diluvio avviene a
pagina 7, e a pagina 6 il signor Guerzoni aveva
intimato: " E prima di tutto, che il mio poeta
" cerchi di ragionare. Perché davvero sarebbe
*' un privilegio singolare, che ad uno, perché dice
" di abbeverare i suoi cavalli alle fonti di Par-
" nasso, fosse lecito di non ragionare, il che
" torna a dire, di non esser uomo „.
Come sul capo al naufrago
L' onda s' avvolve e pesa,
L'onda su cui del misero
Dritta pur dianzi e tesa
Scorrea la vista a scernere
Prode remote invan ....
228 CRITICA E ARTE.
CitO; per conforto del signor Guerzoni, un poeta a
lui caro ; e, dopo tanta iattura, non ho il coraggio
di ammonirlo come " da vero sarebbe un privi-
" legio singolare che ad uno „, perchè affastella
figure retoriche su figure retoriche; " fosse lecito
" di dir che ragiona „ e che " ricerca il vero „,
e che " solo l'amore delle lettere e della patria
" lo muove e fa parlare „ (pag. 26).
Ma il signor Guerzoni seguita intrepido : " Non
" rimpicciolito, perché chi scambia il microcosmo
" che brulica nella sua mente coli' universo che
" gli muove e vive d' attorno, è anche desti-
" nato a cogliere palme proporzionate (!) al
" breve solco che egli ha coltivato, ed a mo-
" rire mediocre ed oscuro col piccolo mondo
" da lui suscitato ! „ Co '1 punto ammirativo in
fine, quasi indice steso a proferir la sentenza.
E pure si potrebbe opporre che un micro-
cosmo soggettivo sono anche la Divina Com-
media e il Faust dirimpetto non pure alla na-
tura e al vero universo, ma all' epopea omerica
e ai drammi dello Shakespeare; che un microco-
smo soggettivo sono e la lirica del Leopardi in
paragone a quella di Pindaro e la satira di Gio-
venale in paragone a quella di Aristofane, e che
ciò non per tanto il Leopardi è un poeta larga-
mente umano e Giovenale poteva con ogni di-
ritto affermare,
Quidquid agunt homines, votum, timor, ira, voluptas,
Gaudia, discursus, nostri est farrago libelli.
CRITICA E ARTE. 229
Ma a che? Il signor Guerzoni dice di quelle
cose, perché tutto al mondo si può dire, perché
la repubblica letteraria permette le case di tolle-
ranza dei luoghi comuni ove vada a sfogarsi chi
ha la libidine di scrivere, perché certi adulterii
tra i termini propri e le metafore, certi incesti
tra le lettere e i suoni, nella civiltà odierna son
leciti. Tutta quella paginetta ottava del signor Guer-
zoni è un non senso; ed egli, non so se per ina-
nimar me coir esempio a " spogliarmi la pesante
" casacca delle mie passioni „ (pag. 22), ha troppo
esposte le nudità non greche del suo ingegno.
Del resto quel tanto insistere del signor Guer-
zoni su '1 difetto di verità ne' miei versi, su le " biz-
zarrie del mio pensiero „ (pag. 17 ) su le " idee „
mie " balzane „ e " capricciose „ (pag. 21), mi
ricorda Cecco d' Ascoli. Costui vantava in faccia
all'Ahghieri la sua Acerba cosi:
Qui non si sogna per la selva oscura ....
Qui non si canta al modo del poeta
Che finge imaginando cose vane;
e a proposito del conte Ugolino e di Vanni Fucci
diceva con una sua smorfia d' uomo serio.
Lascio le ciance e torno su nel vero,
La favole mi fur sempre nemiche.
Non so se il signor Guerzoni sia profondo in ma-
tematiche, per la qual parte Guglielmo Libri fece
nella sua storia lodi insigni di Cecco, e riabilitò,
come oggi dicesi, quel triste e invidioso pedante:
230 CRITICA E ARTE.
nel resto, nella critica del vero, vo* dire, egli il
signor Guerzoni mi rinnova un poMa figura di
CeccO; che non è bella. E né meno è bella quella
del Lampredi, dottissimo per altro di giure; il
quale, secondo la rappresentazione che ne fece
Vittorio Alfieri,
Udita e vista la temerità
D' un certo Alfieri che stampando va
Tragedie in cui quell'armonia non v'ha
Che a me piacendo a tutti piacerà,
conchiudeva,
Io gì' inibisco l'immortalità.
Non sono due belle figure: e pure (tant'è vero
che nulla v' ha più d' originale ) il signor Guerzoni
ha voluto rifarle. E dire che non era proprio il
caso! perché da Dante e dall' Alfieri a me ci corre
oh quanto! Per cosi poca cosa come sono io, per
un uomo " destinato a morire mediocre ed oscuro
col suo piccolo mondo „, tanta virtù di abnega-
zione è senza esempio. Per convertirmi, o alla
disperata, per provocare su la mia testa V abo-
minazione dei buoni, far da sé nella Gazzetta uf-
ficiale V esecuzione capitale del proprio giudizio,
il taglio della pancia del proprio raziocinio, le son
cose da giapponesi; per altro, prima delle ultime
riforme e delle ambascerie in Europa.
CRITICA E ARTE. 23 1
IX.
E egli più felice il signor Guerzoni, quando dal
negare passa all' affermare, quando, cioè, dalla
eliminazione del come non deve essere il poeta
passa alla dimostrazione del come deve essere?
Le intenzioni sono buone.
Non scelga — egli scrive a pag. 9 — per salire sull'ultima
cima del monte l'ora più torbida, ma la più serena della sua
vita; e allora quando sia giunto alla vetta, sicuro che nessun
velo appanni la sua pupilla, abbracci con uno sguardo tutta
la vasta scena di splendori e di tenebre, di gioie e di dolori
d'odi e d'amori che l'orizzonte della terra racchiude, vi libri
sopra il volo della sua anima, e canti. Egli sarà poeta: quanda
giudicherà sarà giusto, quando canterà sarà sincero, quando-
dipingerà non sarà manierato^ quando cercherà la veste é gli
ornamenti del suo pensiero la memoria delle cose osservate
glie la porgerà spontanea, nella ricca semplicità in cui la
stessa natura li produce; quando infine vorrà far centro del-
l'universo il mondo del proprio spirito, egli non sarà più
solo: ognuno sentirà in lui un fratello, ognuno ascolterà il la-
mento od il giubilo delia sua anima come l' eco dell' anima
propria, e le sue canzoni tiamandate da generazione in gene-
razione diverranno a poco a poco il patrimonio poetico d' uà
popolo intero e com'esso immortali.
Cosi il signor Guerzoni. E io non risponderò
co '1 Parini,
E dalli e dalli e dalli e dalli e dalli
Con questi cavolacci riscaldati.
io mi contenterò di osservare che tutto cotesto-
è sentimentalismo lamartiniano, e non di quel
232 CRITICA E ARTE.
bello; è una meditazione poetica in prosa non
corretta; è 1' arcadia, civile o umanitaria se vo-
lete, ma è r arcadia in critica. Come se il poeta
potesse eleggere egli 1' ora di salire su '1 monte,
come se il poeta potesse egli fare il torbo o il
sereno intorno a sé ! Oh vada un pò* il signor
Guerzoni, e mi precipiti dal suo paradiso Dante
Alighieri, perché scelse V ora amara dell' esilio a
smarrirsi nella selva oscura di questa bella Italia
e della società umana e riuscir quindi all' inferno!
Oh vada, e mi fustighi un po' Giorgio Byron,
perché intorno alla sua testa di poeta non facea
mai sereno! Ma cotesta è critica, anzi retorica,
anzi precettistica, più misera e pretenziosa, più
tirannica e falsa, più irragionevole e insussistente,
più accademica e pedantesca che non quella del
secolo passato. I nostri buoni avi intendevano ad
agguagliare, appianare, rotondare le forme, voi
le anime: essi alla fin fine ammirarono il Rous-
seau e r Alfieri, voi li negate. Voi, a lasciarvi
fare, ridurreste la selva dodonea come il bosco
parrasio che era una volta li in Roma nella villa
Rospigliosi : le grandi e antiche querce, che
hanno mormorii sacri e fatidici, e che^ quando la
tramontana vi dà dentro, scrollano le lunghe
criniere verdi e mandano ruggiti come file di
leoni in battaglia, con che gusto voi le potereste,
le rimondereste, le pettinereste e acconcereste a
spalliere, le curvereste in pergola o in capannuc-
cia, come i meli nani del potager di Colorno can-
CRITICA E ARTE. 233
tato dal Frugoni! Fortuna che esse hanno i rami
alti, assai alti, per la vostra statura ! Pur troppo, la
borghesia dominante vuole, anche in arte, livel-
lar tutto, tutto ridurre all' imagine sua, all' utilita-
rismo puro, al giusto mezzo, alla finzione costi-
tuzionale, alla corruzione sistematica, alla onesta
ipocrisia bottegaia, al dondolare, al barellare, al-
l' equivoco, come oggi direbbesi, in permanenza.
Il poeta, . quale lo ritrae il signor Guerzoni, non
è mai esistito : ma giova imaginarselo e proporlo
cosi. Cotesto egoista di poeta, cotesto ragioniere
con le ali alla testa, ali piccolette e tozzotte anzi
che no come quelle del caduceo di Mercurio, su
la cima del monte si abbandonerebbe all' estasi
della contemplazione, nuoterebbe tra gli splen-
dori della visione; e facendo 1' occhio di pesce
alle capelliere bionde degli angeli, e allungando
in mezzo le nuvole le mani agli incarnati bale-
nanti a sdruci di tra il lungo ondeggiare dei càmici
bianchi, non vedrebbe intanto, o mostrerebbe di
non vedere, quelli che rubano e quelli che ten-
gono il sacco, quelli che vendono 1' anima e quelli
che la comprano, e quelli che trascinano la pa-
tria nel corso mascherato dell' ignominia e al ve-
glione della ruina, e quelli che sparnazzano in
viso alla plebe i coriandoli dell' onestà, della li-
bertà, della virtù, della fede, per accecarla almeno
pochi istanti, che non vegga il consumarsi delle
fornicazioni. Creda a me il signor Guerzoni: la-
sciamo star le cose come stanno. Non poUicol-
234 CRITICA E ARTE.
tura in poesia, non stie. U aquila lasciamola stare
aquila, falco il falco, usignolo V usignolo : i pic-
cioni i galletti e i tacchini abbiano del becchime
in buon dato.
Del resto un poeta misurato, temperato, tutto-
a modo e a verso, sobrio e pudico, che le sappia
far bene, che vada d' accordo con tutti, che ab-
bracci tutto, r odio e r amore, il bianco e il nero,,
il rosso e il turchino, e con tutto ciò non scet-
tico nei conti del piacere e dell* utile suo, un tal
poeta, se al signor Guerzoni piace, glielo potremo,,
co *1 tempo e con la paglia, presentare stagionato.
Di tipi che si accostino al suo ideale ne avanza
qualcuno tra ì vecchi, e più ne cresce: i critici
giovinetti augurano in fatti un dolce futuro soda-
hzio di poeti del bello italo regno che cantino tutti
a un tono, e dopo cantato si dicano V un V altro
prosit, come dopo la messa i preti in sagre-
stia, e si rivelino e dimostrino V un V altro le
proprie perfezioni e bellezze. Ma forse che il
signor Guerzoni desidera qualche cosa di pili
nuovo, propriamente suo. Oh senta il signor Guer-
zoni : se egli vuole avere un poeta costituzionale
del centro a modo suo, sa egli quel che ha da
fare? Dia retta a me. Pigli un de' suoi piccoli
calabresi; e, lavato e pettinato che sia, se lo re-
chi in collo, e se lo educhi su '1 cuore suo, se lo
instruisca con la testa sua, lo tenga a dieta di
latte e vegetali, gli eradichi dal petto ogni germe
di passione, gli attuti nel cervello ogni ribol-
CRITICA E ARTE. 235
limento di fantasia^ gli purghi dal sangue ogni
elemento pagano; e poi gli faccia quella opera-
zione per la quale Origene volle assicurarsi il
regno dei cieli. Dopo di che, gli dimostri la sua
teorica; e gli dia a divedere come la poesia mo-
derna deve essere, né più né meno, il mestiere
di imitare il Parini il Manzoni il Giusti: e non
Grecia e non Roma, per carità; non rinascimento,
non letterature straniere; ma qui in famiglia tra
noi viventi, che siamo tanto belli e tanto bravi;
e semplicità, schiettezza, verità, di quella che il
signor Guerzoni ha, di quella che tutti oggi in
Italia hanno, ne son piene le fosse. E poi gli dica :
— Va, figliuol mio, sii comune, sii volgare, e
piaci a tutti: va, e ama senza trasporto; va, e
canta constituzionalmente, metodicamente, orto-
dossamente, la virtù, la fede, la patria. — E verrà
su un nuovo Metastasino borghese, poeta aulico
della terza Italia; ei canterà gli epinicii delle ar-
meggerie di destra e delle evoluzioni di sinistra,
e gli imenei delle due onorevoli metà coi rispet-
tivi centri, e i genetliaci di quelle belle coselline
che ne vengono fuora: comporrà nelle ore di ri-
poso idilli sociali a uso delle banche privilegiate
e melodrammi civili e umanitari su le rivoluzioni
e su *1. modo di scioglierle e di legarle. Ma badi
il signor Guerzoni : gli faccia V operazione di Ori-
gène. Altrimenti il piccolo calabrese, se un bel
giorno si ricordi che suo padre lo vendè, che il'
suo padrone lo picchiò lo affamò lo contaminò,
236 CRITICA E ARTE.
che la società gli fece l' elemosina con una pedata,
che egli rappresentò all' estero la pitoccheria e
la spietata ingordigia e la venale servilità dei di-
scendenti di Roma, se un bel giorno il piccolo
calabrese si ricordi quel che ha veduto saputo e
sofferto prima della sua pahngenesi, può darsi
che finisca co '1 gettare il plettro in faccia a' suoi
ascoltatori; e, come adoperò Ercole con Lino,
spezzi la cetra su la testa al suo maestro ( che
Dio non vogha) e fugga nelle libere selve, se
ne rimarrà, a fare il brigante, metaforicamente
s' intende.
X.
Ma intanto, fin che sia compiuta la educazione
del piccolo calabrese, il signor Guerzoni ha tutto
il diritto di tenermi e predicarmi per un poeta
scettico e insieme fazioso: ha tutto il diritto di
credere che io porga li orecchi " al fischio delle
" sètte e al clamore dei tri vii „ (pag. 22), e di af-
fermare che io " umilio la mia musa a razzolare
" le scorie dei giornalucoli libeUisti e petrolieri „
(pag. 14). Io conosco un po' la storia; e so che
gli austriacanti dicevano lo stesso, o press' a poco,
del Berchet; i conservatori francesi e italiani, del
Beranger e del Giusti; i bonapartisti, dell'Hugo;
e posso congetturare che i democratici di Lesbo
e di Atene avranno ai tempi loro detto lo stesso
di Alceo e di Aristofane aristocratici.
CRITICA E ARTE. 237
Il signor Guerzoni ha anche tutto il diritto di
accusarmi per petroliere: egli non fa che ripetere
quel che scriveva una volta il signor barone
Franco Mistrali e quel che un giornale accredi-
tato per tutt' altro che per fino spirito, la Gazzetta
d' Italia, disse motteggiando più volte e dice
forse ancora. Ha tutto il diritto di scaricare i
tuoni della sua indignazione su quel mio settenario
che titolò di vile la patria: se non che anche a
prendere le difese dell' Italia contro di me fu primo
il signor Mistrali; e mi fulminò dall' alto del suo
sentimento nazionale, e calpestò con quel suo
nobile e vigoroso piede le mie corde " tempe-
rate „ ( mi par eh' e' dicesse ) " nel fango e nel
vino „. Veda bene il signor Guerzoni eh' egli non
è originale né meno negli accessorii. Uno sforzo
ei l'ha fatto; s'è provato a mettere in scena le
tombe di Groppello: " Ed oggi ancora da ognuno
" dei gemiti di madre, da ognuna delle ferite di
" eroi sepolti a Groppello, esce una voce che vi
" grida — Cancellatela, Enotrie, cancellatela quella
" parola: essa non è vera, e, se deve essere il
" prezzo della nostra apoteosi, noi la rifiutiamo „.
Non è trovata male; e coteste parole, declamate
lentamente in tono di basso profondo, possono
anche fare 1' effetto di un racconto d' apparizione
d' ombre in una tragedia del secolo passato. Io
per altro potrei rispondere che per quei versi mi
scrisse cose onorifiche Benedetto Cairoli, il quale
non mi tiene indegno della sua cara e preziosa
238 CRITICA E ARTE.
benevolenza : potrei rispondere che giovini prodi,
se altri mai, nominati all' ordine del giorno da
Giuseppe Garibaldi dopo una battaglia, e che ora
con forte ingegno e grande animo vivono oscuri
alla campagna o servono con devozione incon-
taminata la patria tra le armi, mi han voluto bene
per quei versi; che sopra quei versi hanno pianto
€ fremuto uomini prodi, veterani della difesa di
Roma, avanzi di tutte le patrie battaglie, e che
pur servono incontaminati la patria. Cotesto e al-,
tro potrei rispondere: ma a che? Serbiamo, ser-
biamo, nel sacrario dell' anima certe soddisfa-
zioni e certe ricompense; non comunichiamole
ai volghi.
Finalmente, il signor Guerzoni ha, se vuole
pigliarselo, tutto il diritto di parlarmi in nome
dell' Italia, di ammonirmi a credere nella virtù e
ad insegnare la fede. Se non che, anche qui po-
trei rispondere: La virtù? ma quale? La fede?
ma in che ? L' Italia opportunista, la scettica Italia,
tanto ha abusato ed abusa di coteste parole, che
elleno ne son divenute a quello che il signor
Guerzoni, traducendo dall' Hugo, dice delle deno-
minazioni di classicismo e romanticismo: " segni
" senza significato, espressioni senza espressione,
" parole vaghe che ciascuno definisce a seconda
de' suoi odi o de' suoi pregiudizi „. Certo, che
anche a me piacerebbe di avere della virtù e della
fede con molti buoni di banca per giunta; mi pia-
cerebbe di avere assicurato un posto tra gli uo-
CRITICA E ARTE. 239
mini illustri di Plutarco e un palchetto al Comu-
nale^ la colazione a venti franchi da Doney e
la tomba in Santa Croce; mi piacerebbe di esser
salutato Catone, e di spender francamente le
rendite del catonato nella ricreazione del mutar le
Marzie, sicuro che, morto, il pubblico mi spesasse
poi i figliuoli. Mi piacerebbe... Ma no, non mi pia-
cerebbe niente affatto. Preferisco che il signor
Guerzoni mi predichi uom senza fede e senza
virtù; e io non gli chiederò né meno lo spec-
chietto della questura o il polizzino pasquale.
Ma quel che il signor Guerzoni non ha diritto
a fare è presentarsi al pubblico e a me come
giudice imparziale. No, imparziale ei non è. La
sua nota piena zeppa di politica è li a smentirlo.
È li a smentirlo quella smorfia perpetua a cui si
contrae il suo scrivere, smorfia che vorrebbe es-
ser di sorriso, ma è la stiratura dei nervi sotto
lo sforzo di comprimere il rantolo della rabbia.
Air imbarazzo convulso co '1 quale sgomitola al-
cuni periodi, si vede la voglia che avrebbe, que-
sto arcangelo, di darmi, potendo, delle pugna.
Come gli addomesticatori di certe bestie, egli mi
mostra con V una mano la sferza, che non mi
coglie, e con V altra il pezzuol dello zucchero, che
non mi alletta; e questo egli chiama imparzialità.
Egli mi tiene press' a poco un discorso si fatto:
— Voi siete un pazzo orgoglioso. Ma, se vi farete
buono, se vi ridurrete a pensare a sentire a vo-
lere come noi pensiamo sentiamo vogliamo, se
240 CRITICA E ARTE.
verrete a noi, noi vi proclameremo poeta, poeta
della nazione, vi metteremo in luogo luminoso e
alto. Altrimenti
Io v'inibisco l'immortalità. —
Faccia pure, signor Guerzoni : ma io non vengo.
Né il signor Guerzoni ha diritto a parlare in
nome dell' arte. Scrittore faticoso, pesante, imba-
razzato, gonfio, vano; rimpinzo di retorica; mal
fermo nella grammatica; non sicuro nell'ortogra-
fìa; spropositato di lingua; duro di orecchio; egli
non può levarsi giudice di stile e di versifica-
zione. Digiuno di studi classici; indòtto della sto-
ria letteraria, dei fondamenti della critica e del-
l'estetica; ignaro della parte seria delle lettera-
ture straniere e del movimento letterario odierno;
per ciò, di angusti intelletti artistici, e scambiante
per principii d' arte universali le declamazioni
d' una idiosincrasia liberale e civile e le tiranne-
sche ed efimere esclusività della piccola scuola
borghese odierna; egli non può né farsi né dar
ragione del mio svolgimento poetico, né di qua-
lunque altro; egli non può conoscere ed estimare
adeguatamente le elaborazioni e la fusione di
certi elementi nell' opera mia; egli non può né
intendere né distinguere con tatto sicuro le mie
imitazioni e le mie innovazioni, la mia parte tra-
dizionale e la rivoluzionaria, quel che nella poesia
italiana ho rinnovato o importato e quel che ho
fatto. Egli in tutti i miei versi non si dà pensiero
CRITICA E ARTEl 24I
che della contenenza e della forma materiale ; ma
dinanzi agli atteggiamenti vari onde il mio lavoro
le permuta egli abbaglia, piglia il capogiro, e fi-
nisce per disperato co '1 mandarmi al diavolo;
L* imbarazzo, la confusione, le contraddizioni di
quelle pochine e tisiche idee guerzoniane in quelle
venti paginette sono una pietà.
Certamente, che qualunque cittadino, non che
il signor Guerzoni, è nel suo pieno diritto di dire
a me e al pubblico o per istampa o anche con
affissi, che io non gh piaccio. Ma se un cittadino,
solo perché si chiama signor Guerzoni, perché è
stato maggiore dei volontari e segretario del ge-
nerale Garibaldi e ora siede al centro del par-
lamento italiano, delle sue poverette impressioni
soggettive viene a farne nella Gazzetta Ufficiale
una teoria critica, una lezione d'arte, a me, che,
se artista non sono riuscito, ho studiato e studio
l'arte da molti anni e per ogni verso e in ogni
forma, e non per sollazzo, non per distrazione,
non a tempo avanzato, ma con fatiche di tutti i
giorni, con occupazione di tutta la vita, con pas-
sione purissima e disinteressata e degna oh certo
di miglior esito, a me, che, se non sono un gran
che in poesia, di critica e di letteratura m' intendo
pur qualche cosa; se il signor Guerzoni, dico, con
quel po' po' di buon gusto e di dottrina che si
rimpasta, con que' mezzi e con quelle forze che
possiede, viene ad impancarmisi innanzi maestro;
allora io me gli levo in faccia, e, non se ne ab-
Carducci. 4. .16
242 CRITICA E ARTE.
bia a male, gli dico: Ecco, a punto perché siete
voi e perché fate cosi, ecco, io vi dico che in
arte e in letteratura voi, signor Guerzoni, non
capite nulla e non contate nulla. No, V amare iì
Manzoni e Y aver letto il Giusti e il Parini e il
Foscolo, r aver fatto certi studi alla rinfusa in
un' occasione qualunque, non basta per licenziare
alcuno all' esercizio di critico. No, V essere una
particella anche voi della sovranità nazionale rap-
presentata, se può avervi aperto 1' adito ad addi-
mostrarvi in giornali e in riviste le quali riman-
gono chiuse a tanti uomini valenti, non v' infonde
né vi conferisce facoltà ed autorità veruna di
critico. E tanto più francamente e caldamente
ve lo dico, quanto oggimai in Italia tutto è e fa
la politica, anche i critici, anche gli scrittori, an-
che i professori; quanto tutti voglion discorrere di
arte in Italia quelli che meno ne sanno; quanto
in Italia nel fatto dell' arte e delle lettere non
si tiene per disonesto l' entrare uno a trattare
e professare cose che ignora del tutto; quanto
in Italia non si ha più dell' arte né rispetto né
amore né culto veruno; quanto in Italia la triste
genia dei dilettanti si atteggia da per tutto alla
dittatura; quanto in Italia siam divenuti al basso
impero delle lettere, dove ogni pretoriano può
giocare o almeno vender l'impero; quanto co-
testi esempi traviano vie più sempre ogni giorno
la gioventù, e minacciano di ridurre agli ultimi
termini la povera arte italiana, la quale i nostri
CRITICA E ARTE. 243
padri gloriosi le varo n tanto alto e che oggi è
caduta ad essere servetta umilissima e a pena
tollerata di consorterie politiche e di camorre
giornalistiche, roba da quarta pagina di gazzette
e da fiere di beneficenza. Oh, ciò che Teofilo
Gautier diceva della letteratura della Jeune France
sotto Luigi Filippo, quanto è più vero della nuova
letteratura italiana sotto Vittorio Emanuele! " Uno
" può fare il ciabattino o il mercante di fiammi-
" feri, che è uno stato più onorevole e sicuro.
" D' accordo. Ma in fine ciabattini o mercanti di
" fiammiferi non tutti possono essere; e poi ci
" bisogna un noviziato. Il mestiere d' autore è il
" solo per cui non bisogna noviziato: basta non
" saper punto il francese e pochissimo l' orto-
" grafia. „
Per tutte le quali cause ho voluto, non rispon-
dere al signor Guerzoni, ma dimostrare a questo
signor deputato di non so qual circondario al
parlamento italiano la insufficienza de' suoi titoli
a esser deputato dell' arte per qualunque circon-
dario, e che la elezione fatta di sé da sé stesso
io non la reputo valida e ne riferisco all' Italia.
XI.
Queste note alla Nota del signor Guerzoni su
le mie Nuove Poesie io le pubblicava in un
giornale di Bologna ai primi di marzo del '74.
Avevo un bel riferirne all' Italia. Parecchi gior-
244 CRITICA E ARTE.
nali dì parte moderata riproducevano intanto la
nota guerzoniana (e credevano cosi far mostra
d' imparzialità ) come un giudizio illuminato, equo,
benevolo, irrefiutabile : altri vi tessevano intorno
altri articoli per dimostrare i meriti letterari del
critico. Ce n' era bisogno : il signor Guerzoni
allora concorreva o aspirava, come dicono, a non
so qual cattedra di letteratura: in somma voleva
smettere il deputato e cominciare il professore.
Il FanfuUa, un giornaletto che è un giornalone,
e che conta di molto tra gli svogliati d' Italia, il
FanfuUa, non pure autorevolissimo, come sanno
tutti, in letteratura, ma anche assai competente,
quel che non tutti sapevano, a disaminare i titoli
per r insegnamento, il FanfuUa affermava che, se
pure altri titoli al professorato non avesse avuto
il signor Guerzoni, sarebbe bastato il Saggio su
le poesie del Carducci, un saggio che in altro
paese, diceva il FanfuUa che lo doveva sapere,
a quest' ora avrebbe suscitato chi sa che bella
agitazione di discussioni critiche ! E anche diceva
che il signor Guerzoni> se non poesie in versi,
aveva fatto poesie a colpi di fucile; e disse poi
che egli era un critico d' azione. Raccomandare
cosi su pe' giornali un petente didascalico è, non
vi pare?, curioso: più curioso ancora, farsi o la-
sciarsi raccomandare cosi: curiosissimo poi, otte-
ner cattedre cosi. Ma pur troppo della letteratura
italiana da un pezzo in qua e' è da ripetere quel
che il Royer-Collard diceva della monarchia di
I
CRITICA E ARTE. 245
Luigi Filippo : U abaisscnient éclatc de toutes parts.
E certo non metteva conto parlare di tali miserie^
se non si fosse trattato di vendicare un po' tanta
brava gente, la quale lavora e aspetta e pazienta
da tanto tempo, e si vede sacrificata a certi di-
lettanti, che, stanchi un bel giorno di fare qualche
altra cosa, vogliono fare il professore. Del resto
il signor Guerzoni è come s' ha a dire?
un critico, no ; un letterato, né meno ; è in
somma uno scrittore di buona fede. Pubblicò,
poco dopo fatto professore, un libro intitolato II
terzo rinascimento (per lui in Italia si ri-
nasce e si rimuore a ogni secolo). Ora, tra i
troppi libri che trattano di storia letteraria italiana,
pochi, ma pochi bene, ve ne può essere spropo-
sitati come quello: e che spropositi! li rileva sor-
ridendo uno scolare di liceo : e pure il signor
Guerzoni aveva il coraggio di scrivere in cima
a quel libro queste parole, proprio cosi, punto e
virgola: " Che ci sia della dottrina, non credo:
" dell' amore, si deve sentire : della precisione, lo
" affermo „. Ancora: tra i troppi nostri libri di let-
teratura accademica, quello del signor Guerzoni è
il più veramente, il più interamente, il più preten-
ziosamente accademico: e pure in tutto quel suo
libro il signor Guerzoni perde la voce e si batte
i fianchi a inveire contro le accademie. Uno scrit-
tore che opera cosi per me è di buona fede : che
volete fargli? E per amore di questa sua buona
fede e anche di alcune pagine che brillano qua.
246 CRITICA E ARTE.
e là SU quella boba, vorrei poter dare al signor
Guerzoni un consiglio. Me lo permette, non è
vero, il signor Guerzoni, che ne diede tanti a me ?
Oh senta dunque. Metta da canto ogni preten-
sione alla critica storica e psicologica : butti per la
finestra ogni idea di erudizione : non citi mai mai
mai versi latini o italiani ; o, citandoli, mi faccia il
piacere, non faccia, come ne lo lodava il Fan-
fulla, della poesia a colpi di fucile, cioè non me
li storpi: non si dilunghi in troppe scorrerie per
quei pezzi di storia che tutti conoscono: declami
meno, assai meno, molto meno : lasci in pace gli
arcadi (a questi lumi di luna!): scriva un po' più
italiano, e non si abbandoni troppo a quella sua
lingua parlata, che già nessuno parla se non fos-
sero quelli che scrivono male; e con queste av-
vertenze e co '1 tempo potrà riuscire a fare un
po' di letteratura per le signore assai passabile.
XII.
Uno che manca al tutto di buona fede, come
di altre cose buone, è il signor Bernardino Zen-
drini. Egli seguitò a distendere per tre o quattro
fascicoli della Nuova Antologia un suo discorso
su Enrico Heine e i suoi interpreti; tutto per
amor mio e di Giuseppe Chiarini, che non di-
cemmo molto bene de' versi e delle versioni del
signor Bernardino. A me consacrò nulla meno
che la bellezza di ottanta pagine in ottavo, e io
CRITICA E ARTE. 247
a lui nella seconda edizione delle Nuove Poesie
questa noticina:
Il sig'nor Bernardino Zendrini in uno o più articoli d'una
•sua. scrittura, Enrico Heine e i suoi interpreti, che si va pub-
blicando nella Nuova Antologia (deccmbre 1874 e gennaio e feb-
braio 1875), fa una gran fatica di scambietti e capriole intorno
ia terribilità con la quale io ho rappresentato il Heine; e a
provare che egli ryorrfa un rivoluzionario o un repubblicano
quale lo mostro o me lo imagino io, ma che fu soltanto un
umorista, un capo scarico, un artista, il signor Zendrini ci dà
una gran lezione, come se io non sapessi, come se molti non
sapessero, le variazioni, le contraddizioni, le debolezze che
erano e sono nell'animo e nei libri del poeta tedesco, e quanto
in lui prevalesse agli altri sentimenti quello dell'arte. Se io
avessi voglia di prendere il pretesto di Arrigo Heine per isfo-
gare i miei umori, mi sarebbe facilissimo con alla mano tante
e tante pagine de' Reisebilder, dell'Ueber Deutschland,
delle Franzosischc Zustande, del Deutschland ein
WintermHrchen, non che d'altre poesie, rispondere al
signor Zendrini dimostrandogli quale e quanto rivoluzionario
fosse il Heine. Ma oh via, egli lo sa meglio di me, e solo
s' infinge cosi un poco, e giuoca di citazioncelle e di gam-
bate retoriche (perocché v' è anche una retorica popolare
e pettt-niattre, ed è della peggiore), sempre presupponendo
e ammettendo a suo conto che io faccio tuti'uno della ri-
voluzione filosofica religiosa e sociale e della forma repub-
blicana. Già. il signor Zendrini, come critico, ha questa le-
stezza singolare d'ingegno e di stile; egli s' imagina e dà ad
intendere ai lettori che i suoi avversari pensino e facciano
come a lui torna comodo, e poi con una giocondità di chiasso
infantile, che del resto vi mette allegria, distrugge i castelletti
•di rena eh' ei s'è fabbricato su '1 breve lido della sua fantasia.
Per esempio, egli scrive: « Carlo i ispirò al Heine, com'è
noto, anche una delle più belle storie del suo Romanzerò, tra-
dotta, e abbastanza bene, dal Carducci.... Carducci fa naiu-
248 CRITICA E ARTE.
Talmente servire alla sua prediletta idea repubblicana cosi
l'autore di questa storia o leggenda come la leggenda mede-
sima che Heine ha scritto eii artiste. » Ma che « servire »?
ma che « naturalmente »? ma onde ha cavato il signor Zen-
drini ciò che mi fa dire? « Carducci fa »! Ma che maniera df
fare piuttosto è quella del signor Bernard'no? Io non ho fatto-
nulla, io non ho espresso finora giudizio di sorta su '1 Carlo I
del Heine: se vorrò 0 volessi farlo, lo farò o lo farei con quella
chiarezza e nettezza che io amo: egli intanto tenga pure, se
gli piace, il Carlo I per una poesia monarchica, ma non venga
a farmi dire o pensare quel che non ho detto. Ancora; « È im-
possibile — afferma il signor Zendrini — immaginar due nature
di scrittori più sostanzialmente diverse; e la loro dissomi-
glianza maggiore è appunto là dove il Carducci crede essergli
maggiormente congiunto, cioè nel colore e, ci si perdoni il bi-
sticcio, nel calore politico ». Ma quando mai ho io creduto o
lasciato credere agli altri ch'io creda di esser congiunto al
Heine? Altro che dissomiglianza! io credo, so e sento di esser
tanto distante dal Heine da non lasciar luogo a confronti o a
misure: e anche, me lo permetta o no il signor Zendrini, credo
sento e so di essere io, proprio io, fatto male, ma fatto a modo
mio. D'un' altra cosa dovrebbe persuadersi il signor Zendrini:
che in critica, e specialmente in, certa critica, bisogna fare le
citazioni esatte ed intere, chi non voglia passare per quel che
non può essere mai un poeta quale vagheggia sé stesso il si-
gnor Zendrini, un poeta, cioè, naturalone e pazzarellone, che
porta su '1 piatto dei suoi versi in processione il suo coricino
tremolante di espansività, come in certe cromolitografie per i
contadini. Santa Agaia le sue poppe. Ecco un esempio di certe
citazioni d-.l signor Zendrini: « Anche il Carducci, per giusti-
ficare le sue simpatie per la beata Giuntini, rivendica per sé
la libertà dell'artista che senza fede ricrea le forme della fede;
ma se l'inno sacro non è che opera d'arte non dovrà e non
potrà dirsi altrettanto dell'inno politico? Se la sua Giuntini
gli è non meno indifferente di Danton e di Marat, e non sono-
tutti e tre che i suoi personaggi, perché colorar lutto in
CRITICA E ARTE. 249
rosso? » Tutto bene: ma egli ha dimenticato che in quella
nota cui accenna, alla mia ode giovanile alla beata Diana io
seguitavo dicendo: « Né io poi negli anni seri ho più commesso-
di questi sacrilegi] retorici >• Di si fatti sgambetti di citazioni
e supposizioni e di pedanterie furbacchiole, ce n' è una grazia
di Dio nelle tre lunghe concioni, che il signor Zendrini ha.
opposto a sei strofette. e che non hanno, creda pure il signor
Zendrini, risoluta la questione.
Cosi la noticina. Eccomi ora a mostrare, bre-
vemente, degli sgambetti, delle supposizioni e
delle pedanterie furbacchiole del signor Zendrini,
un po' più che non potessi nella noticina. Dei
criterii e delle teoriche, non parlo; perché non
intendo né difendermi né disputare.
^ XIII.
A proposito " dello stil nuovo latino „, dello
stile cioè co '1 quale a me parvero scritte certe
*' canzonette assettatuzze e matte e sgrammaticate
borghesemente „, il signor Zendrini tira fuori
Dante, e afferma che quello stile " ha tanto di
barba; ce lo insegnò Dante, quando, cominciata
la Commedia in latino, la ricominciò in ita-
liano „ ecc. [Nuova Antologia, xxviii, io); e qui
e altrove si affanna a provare che la sua poesia,
quella poesia eh' ei vorrebbe popolare e che è so-
lamente borghese, procede da Dante. Ma con che
faccia, nella questione della poesia sua e borghese,
osa il signor Zendrini nominar Dante? Dante, il
cui lavoro giovanile fu tutto di reazione contro i
250 CRITICA E ARTE.
rìmsiton plebei di Toscana e di Puglia? Dante che
parla cosi rispettosamente di co/ori retorici, che
chiama padre suo il Guinicelli e seguitò e compie
la scuola bolognese, la quale prima applicò alle
nuove rime la dottrina e la tradizione dello stile
latino? Dante che prese a maestro e duce Vir-
gilio, da cui crede aver tolto lo bello stilel Dante,
r autore del Vulgare Eloquio, il campione cioè del
volgare illustre, aulico, cardinale, curiale, il tratta-
tista della ornata eloquenza, il precettore (ì^Ws. poesia
regolata, il definitore dello stile tragico e del co-
mico e deir elegiaco, il teorico della abitudine delle
stanzel Dante, in fine, il primo, per età come
per grandezza, dei nuovi classici? Certo che l'Ali-
ghieri è, quando ha da essere, popolare, e anche
plebeo: popolare di vena come Omero, magnifi-
camente e robustamente plebeo come Aristofane.
Ma da questo alla scuola del signor Zendrini, la
quale scambia per popolarità il cicaleccio dei sa-
lettini e la linguetta delle donnine borghesi che
leggono romanzi, ci corre, oh se ci corre!
Se non che è giusto ricordare come il signor
Zendrini avesse il coraggio di scrivere intorno a
Dante certe cose che altri chiameranno strofe e
che per me non han nome se non di peccato, o
meglio di vizio, del vizio occulto che eccita e
contamina nei ragazzi malavezzi o racchiusi la
trista sensualità senza amore: ora chi ha letto
quelle cose, sa bene che al signor Zendrini la
natura negò ogni intelligenza per la poesia di
CRITICA E ARTE. 25 1
Dante. Udite qui un po' dell' eterno idillio di Dante
e Beatrice:
Solo a Bice il ballo è tedio,
La bambina è già si schiva!
Del color di fiamma viva
Ha la vesta e biondo il crin.
Un fanciul la guarda estatico.
I compagni il chiaman Dante.
Dei lor giochi ei non è amante:
Già SI mesto è il fanciullin.
Tra quella monnina Schifalpoco (come dicevano
i cinquecentisti) e questa ghignetta di fanciullo
malescio e dispettoso, non so chi meriti più sca-
paccioni. E non siamo ancora al principio.
Antepone al loro strepito,
Come Bice, i fiori e il verde:
Tra i cespugli ella si perde,
Ei la segue di lontan.
Le si accosta, già congiungono
Le manine e cosi uniti -
I due piccioli romiti ,
Fra le piante errando van
E non esserci né una fantesca né una sorella
maggiore o una zia che gli scopra e lo dica a
mamma e li faccia andare scalzi a letto ! C è in
vece delle api e delle farfalle, le quali ronzano
con la stessa preziosità che negli idilli di tutti i
Melibeì degli ultimi due secoli :
L'ape d'or, de' cespi immemore.
Ronza intorno desiosa:
« Su quei labbri c'è la rosa,
Delibarla non potrò ? »
252 CRITICA E ARTE.
La farfalla, eterno simbolo,
Curiosa vola intorno:
« Picciol vate, io pure un giorno
Una imago t' offrirò. »
Ma i Melibei; bisogna pur convenirne, non giun-
sero mai a un ideale come questo, all' arcadia
co '1 lattime !
Tra le foglie il capo sporgono
Con rossor le dolci fraghe:
Par che arrossino presaghe
Di venturo indegno duol.
Egli un di, proscritto e macero
Per la selva andrà perduto,
E il ristoro d' un minuto
Dalle fraghe egli avrà sol.
Proprio un Dante buccolico. Avete visto mai, let-
tori, i pastorelli del Vatteau? Piccini e carini
tanto, non è vero? con il loro abitino di seta
verde a ricami, con la loro parrucchina incipriata
e il cappellino a tre cornini. Or bene, pigliate uà
di cotesti pastorellini, rimpiccinitelo anche un
po' più, mettetegli a dosso un lucchettino rosso
e un cappuccetto aguzzo, e atteggiatelo a bimbo
serio co '1 suo bravo naso lungo e la sua bazzetta
sentimentale, e imaginate che dica delle scioc-
chezze come queste che ora udirete: eccovi il
Dante del signor Zendrini.
Oggi i due tra i fiori esultino,
Fiori anch' ei di questa aiuola!
« Più la rosa o la viola
Ami, Dante, o il gelsomin? »
CRITICA E ARTE. 253
« Amo tutto: e rosa e candido
Gelsomino e violetta;
Ed adoro un'angioletta
Che mi penso aver vicin. »
Santi scapaccioni! Pare tutto il signor Zendrini.
« Ami, o B'ce, più le rondini
O gli occulti usig-nolelti ?
E son essi i prediletti? »
Dice trepido il garzon.
« Amo tutto; e gaie rondini
E usignoli; e l'uomo adoro
Che non tócca i nidi loro
Ed è buono coni' ei son ! »
E basta cosi; se no, è il caso di dire come quel
personaggio di Aristofane, oc? (xo: X£x:tvyjv, che io
non starò a ridire in italiano, ma che il Sainte-
Beuve traduce, Donnez-moi la euvette. Conchiu-
dendo, quando uno è stato tanto fatuo da scri-
vere e da dare a stampare versi intorno a Dante
come cotesti, quel tale può anche dire, senza col-
pabilità, che a far versi come cotesti e come al-
tri simili egli ha imparato da Dante.. E torniamo
alla storia letteraria.
Della quale non maggior conoscenza dimostra il
signor Zendrini, quando vuole aggreggiare la sua
poesia a quella di Vittore Hugo " e alla gloriosa
pleiade di scrittori del 1830 capitanati da lui „
{Nuova Antologia, xxviii, 368). Prima di tutto, egli
avrà voluto dire del 1827, perché nel 1830 la ple-
iade (com' egli impropriamente denomina gli scrit-
tori del cenacolo o del rinnovamento hughiano,
254 CRITICA E ARTE.
che non furono precisamente sette) scadeva già
e scompagnavasi in faccia alla politica. Dopo
ciò, è ben vero che l'Hugo chiamò péra la péra
dove nella sua poesia, e intendeva del dramma,
e' entrava la péra, cosa del resto che tutti i veri
poeti fanno, e che oggi in Italia qualcheduno al
bisogno fa, più spesso e più arditamente che non
i suoi critici : è vero che V Hugo e i suoi minori
dieder la caccia alle circonlocuzioni del falso Pin-
daro Le Brun e alle amplificazioni del falso Vir-
gilio Delille; ma non è men vero che essi resti-
tuirono alla poesia francese cosi poveretta da
Malherbe in poi quello splendore della lingua
poetica che al signor Zendrini fa male agli occhi.
Ma che? dimentica egH il signor Zendrini, o non
sa, che la pleiade si gloriava di procedere da
Andrea Chénier, il poeta più classicamente ari-
stocratico del secolo decimottavo? Dimentica egli
le poesie più veramente belle dell' Hugo, poesie
che sono la più splendida condanna eh' uom possa
imaginare della poetica zendriniana? Dimentica
egli che il manifesto critico della nuova scuola
fu il libro del Sainte-Beuve su Ronsard e i poeti
del secolo decimosesto, che il signor Zendrini
deve ragionevolmente detestare? e che nel cena-
colo e' era, o si disse, un gran Ronsard in folio,
ne' cui margini e nelle pagine bianche ciascun
degli accolti inscrivea versi e giaculatorie, come
vóti e offerte su l'-^ara? Studi bene il signor Zen-
drini i poeti del romanticismo francese, e vedrà
CRITICA E ARTE. 255
quanto dedussero e imitarono dalla versificazione
e dallo stile classico; troppo classico, della vera
pleiade del cinquecento, quanto rinnovarono e rin-
frescarono della lingua del Ronsard e di quella
del Marot, del D' Aubigné e di Régnier.
Ho su '1 tavolino un libro, ultimamente pub-
blicato, del Sainte-Beuve, poeta e critico della
pleiade del i8jo, come dice il signor Zendrini, e
mi ricordo d* avervi letto, pochi giorni sono, due
pagine su la lingua poetica, le quali mi par bene
porre sotto gli occhi de' miei lettori :
Al Manzoni concediamo volentieri ciò eh' e' dice su la dif-
ficoltà e gl'inconvenienti a cui va incontro chi voglia scrivere
in buona prosa italiana opere lunghe su certi argomenti; ma,
per la poesìa, in quella specie di lingua, non pili artificiale, ma
superiore alla lingua usuale e d' un ordine più alto, d' un ordine
che sta per sé, lingua che è permesso e anche imposto a ogni
poeta serio di raccogliere e far sua, stentiamo a non vedere
più tosto un vantaggio. Che altro in fine era essa la bella
poesia latina? e credete che in versi Orazio e Virgilio parlas-
sero la stessa lingua che il popolino di Roma? Quasi altr'e
tanto, credo, nella letteratura greca potrebbe dirsi della bella
lingua attica, la quale era di certo un po' artificiale, pur rac-
costandosi più che ad altro al tono e al gusto del popolo
d'Atene, proprio come in Italia la bella lingua ama ripeter
le origini dal popolo di Firenze. In francese non avemmo
nulla di simile; e nella poesia a ben altre lagnanze fu data
occasione. La poesia ebbe la pretesa di parlare come la prosa,
con la meno possibile differenza. Cominciò Malherbe, ricordia-
mocene, a vantarsi d'andare in cerca di parole pe'l suo vo-
cabolario tra i facchini de' granai e tra la gente de' mercati:
or non n' è mica accaduto che le persone del popolo in Francia
abbiansi mandati per lo senno a mente i versi del Malherbe e
256 CRITICA E ARTE.
^li abbiati potuto intendere! Tali condizioni, con un po' più dì
povertà che la prosa, la poesia se le impose dunque gratuita-
mente e rimettendoci un tanto perché restando chiara e cor-
rente non ne diventò più popolare. A prova di bontà pe' versi
francesi, Voltaire diede la famosa ricetta: Metteteli in prosa.
La poesia in Francia seguitò per questa via da Malherbe sin
alla fine dgl secolo decimottavo. In luogo d'avere, come altrove
si ebbero, quelle che si potrebbero chiamare le logge, ella non
ebbe, se è permesso il termine, che un marciapiede, benissimo
fatto, ma pochissimo sollevato disopra alla prosa. A' nostri
giorni è stato tentato di rendere alla poesia il suo linguaggio
proprio, il suo stile, le sue imagini, i suoi privilegi; ma l' im-
presa potè parere assai artificiale, per ciò che bisognò andare
in cerca d' esempi nel passato più a dietro di Malherbe, esempi,
per di più, manchevolissimi e senza splendore d'autorità. È un
bel pezzo che Fénelon nella sua Lettera all' Accademia fran-
cese parve aver riconosciuto tale inferiorità della poesia fran-
cese in paragone alla poesia degli antichi. Or in italiano, la
mercé di Dante e grazie alla facoltà per ogni poeta moderno
di riferirsi a quelli alti esempi e sollevarsi oltre il livello di
tutt' i giorni, la poesia tenne sempre il suo alto grado, o al-
meno lo ricupera ogni volta che vien su un vero poeta. Cosi
potrebbesi rispondere al Manzoni, all' autore dei cori del Car-
magnola e degl' Inni sacri.
Cosi il Sainte-Beuve nelle Chroniques pa-
risiennes (pag. 127). E il signor Zendrini sa
qual sorta di realista era, già molto prima che
cotesta denominazione esistesse, il Sainte-Beuve,
€ come nelle Pensées d'aoùt specialmente si
piacesse, se non di costeggiare co '1 verso la
prosa, certo di fare una specie di poesia parlata,
il sermo lirico ed elegiaco.
Io confesso di essere dell' opinione del Sainte-
Beuve. Odio la lingua accademica che prevalse
CRITICA E ARTE. 257
in molte opere poetiche degli ultimi secoli: ma
amo, adorO; la lingua di Dante e del Petrarca,
la lingua de' poeti popolari del quattrocento, la
lingua degli elegantissimi poeti del cinquecento,
la lingua de* poeti classici dell' ultima età; amo e
studio e uso a tempo la lingua del popolo, la
nata e non fatta lingua del popolo, tanto più fa-
cilmente, credo, quanto ne ho in casa la fonte e
non mi bisogna ricorrere alle cannelle dei nuovi
accademici popolari: e con tutto questo non mi
perito né vergogno di dedurre anche quello che
mi par bene dal greco e dal latino. Ma a punto
tutto questo al signor Zendrini non piace. Il mio
lavoro artistico è, o vorrebbe essere, di amore, di
conciliazione, di allargamento, di calda fusione;
il suo è repulsione, esclusivismo, ristringiménto.
Egli si è fatto un cotal suo tipettino di poesietta
piccinina, piccinina, piccinina; e la manda attorno
con una vesticciuola miserina, strettuccia, strac-
ciatella, smontata di colore, sbiadita, con fron-
zoli, qua e là, di fiori secchi; ed ella se ne va
cosi tutta impettita e in ghingheri, occhieggiando
sé stessa, come certe povere figliolette di famiglie
scadute quando la mamma ha racconciato al loro
dosso un vestitino, già passato per tutte le sorelle
maggiori e che servi anche al di di nozze della
madre. Povero signor Zendrini! ecco, non posso
infingermi, io odio la sua poesìa, perché tutto ciò
che mi ributta esteticamente io lo odio; ma egli,
come uomo, come prossimo, come Zendrini, mi
Carduccl 4. 17
258 CRITICA E ARTE.
fa compassione. Povero signor Zendrini! egli crede
che quel suo mostricino sia la poesia giovine,
la poesia sana, la poesia che ha, come dicono,
dell' avvenire ; e non sente il puzzo di morticino
che quel corpiciàttolo tramanda. Intanto la tristan-
zuola, come pur troppo certi bambini condannati
dalla natura al morbo e alla morte, è istintiva-
mente, fisiologicamente, cattiva e maligna, e gi-
ronzola facendo smorfie, boccacce, dispetti a questo
e a quello, e qui butta nel pozzo il gatto di casa, e
là ti schiaccia il capo agli uccellini, e da per tutto,
tutto ciò che è lieto e sano, ella lo guarda come
se facesse male a lei, con occhi che sputano il ve-
leno. Povero padre ! menatelo, voi suoi amici, un
po' fuori, fategli fare un viaggetto di distrazione
per qualche colonna di giornale : in questo men-
tre la bamberòttola finirà di morire, è il meglio
che possa fare; e qualcheduno di voi le inalzerà
un sepolcretto all' ombra d' un vasetto di fiori,
e, tanto per dire qualche cosa, (già, d'una iscri-
zione non si può fare a meno, e, morti, siamo
tutti brava gente) ci scriverete su, magari, che
ella era un' angeletta ma che i topi le rosero le ali.
Per adesso, come io uso vestire le mie poesie
un po' meglio che il signor Zendrini non faccia
le sue, cosi egli trova da dire anche su'l taglio
di quelle vesti. Già, a sentir lui, io piglio di qua
e di là gli emistichi e le frasi di questo o quei
classico, o gli piglio una idea una imagine una
figura; e poi ci appiccico su una parola di mio
CRITICA E ARTE. 259
come chi dicesse un pennacchino, e cosi imma-
scherate le mando al corso. Gli esempi eh' ei
reca non sono, a dir vero, molti, ma sono certo
evidentissimi. Io descrivo néìV Idillio maremmano
il fianco baldanzoso ed il restio
Seno a i freni del vel.
Ora sapete voi donde ho disegnato quel seno?
Da un verso del Foscolo nelle Grazie dove ri-
corda le brianzole
Di nera treccia insigni e di sen colmo.
Ve ne sareste accorti voi? No? Né men io, né,
credo, nessuno : tant' è vero che a un altro cri-
tico cotesta mia pareva una descrizione da Ba-
tacchi. Ancora: io tradussi gli ultimi due versi
del Re di Tuie, a lettera cosi:
E giù gli cadde spento
L' occhio, e non bevve più.
Bene : il signor Zendrini è capace di trovare che
io ho imitato un verso del xxx del Purgatorio,
Gli occhi mi cadder giù nel chiaro fonte,
ma che lo sciupai con queir appiccicaticcio dello
spento. E dire che là è Dante il quale vergognoso
abbassa gli occhi e si riscontra nella sua imagine
rispecchiata dal fiume sacro, e qui è il re di Tuie
che muore. Confessate, lettori miei, che per es-
sere pedanti a questo segno ci vuole, è giusto
riconoscerlo, un zinzin di fantasia. Ma non è
nulla. Credereste voi che per disegnare il ghigno
26o CRITICA E ARTE.
di Marat io avessi preso le linee del viso dì
Dante quando sorride a due poeti, Virgilio e
Stazio? E pure, secondo il signor Zendrini, è evi-
dente. Io scrissi
e sprizzò allora
Da i cavi di Marat occhi un balen
Di riso,
e Dante cantò
Un lampeggiar di riso dimostromrai,
e non so chi altri^ perché di Dante non è certo
questo emistichio che il signor Zendrini gli at-
tribuisse; " e balenommi un riso „.
Più avanti il signor Zendrini dà a divedere,
cosi di straforo, che io possa aver preso qualche
tinta per la prima stanza del mio Carnevale
da una sua versione di Heine. Qui la memoria
non l'ha servito bene: il Carnevale fu pubbli-
cato in un giornale fiorentino del 1863, prima
assai della versione zendriniana. In altri accorgi-
menti poetici, del resto, o^ meglio, in altri usi del
mestiere, mi riscontro con lui, se bene io non
spinga la franchezza del colpo di mano tant' oltre
quanto lui. A certo punto del suo discorso [Nuova
Antologia, xxviii, 12) il signor Zendrini si sbiz-
zarrisce con le dieresi delle quali io indiademo^
egli dice, le parole; e dice che nel Canto del-
l'Italia che va in Campidoglio tiro il collo
ad archeologo per far tornare il verso; e più
avanti ammira non so che pennino d' una mia
CRITICA E ARTE. 26 1
dieresi. Ecco: io non negherò al signor Zendrini
che a qualche archeologo di mia conoscenza, il
quale conturba i morti e incomoda i vivi, non mi
lasciassi andare, in qualche accesso di natura
prima, a tirargli il collo: ma al mio archeologo
inglese non glie T ho tirato di certo : era inu-
tile, o in verso o in prosa archeologo ha il
collo lungo cinque sillabe. Ha egli il signor Ber-
nardino altrettanto pura la conscienza di si fatti
tiramenti di collo a danno di creature più gra-
ziose e innocue che V archeologo? Apro il vo-
lume delle Primepoesiedi Bernardino Zendrini
(Padova, Giammartini, 1871, lire 4, 50. Vediamo
di fargliene spacciar qualche copia), e m' imbatto
in versi come questi:
Oh il pennello, il pennel per degnamente
Effig/arte!
Sul conscio destri'er dalla recente
Vittoria ecco tu riedi, o Bonaparte.
pag. 13.
E origliai con Jessica,
In blande estive sere,
Origliai la musica
Delle remote fiere.
pag. 99.
Ad ospite regal che giunto è appena
Ella prepara accoglienze e feste.
pag. 193.
Con che cor, morettina ! Con che cor I con
che cor! con che cor! E non è nulla. Ei si di-
verte a tirare il collo fino alle conchiglie per ri-
202 CRITICA E ARTE.
durle alla misura di quattro sillabe, che il verso
voleva : per compenso dà un calcio dietro al grave
palombaro e lo trasmuta in un palombaro sdruc-
ciolo tanto fatto. Udite:
Infido oceano,
Amici, è il mondo:
Mesto palombaro,
Ne ho tócco il fondo.
Sperai raccogliervi
La perla, ed ahi
Vuote conchiglie
Io raccattai.
Sempre cosi, povero Bernardino ; anche nella in-
teressantissima posizione di " mesto palombaro „.
In fine: il signor Zendrini mi rimprovera i " pe-
riodi interminati „ (xxviii 21) e che " camminano
a pause „ : bene ; credereste voi, lettori, che
sempre tra quelle Prime poesie del signor Ber-
nardino ve n* è una eh' è tutta 'un periodo di
ventiquattro versi? ve n' è un'altra che si gro-
giola, come una biscia al sole, in un periodo di
ben ventisei versi per cinque pause ? e nelF una
e neir altra i versi vanno rimati a due a due
come una regola di fi*ati in processione? Non te-
mete, non temete, lettori miei : non ve le reciterò :
potrà, chi voglia, leggerle alle pagine 261 e 268
del su lodato volume: s'intitolano Povertà
d' imagini e Lissa.
Dispiace anche a me, quanto deve infastidire
il lettore, questo insistere su minuzzaglie del me-
CRITICA E ARTE. 263
stiere. Ma che ci ho che fare io se il signor Zen-
drini, con tutto queir odio che ostenta alla pe-
danteria, trattando di Heine in tre o quattro
fascicoli della Nuova Antologia, ha trovato il
modo di discorrere, invece, delle mie parole per-
seguitandole fin nelle sillabe? Io ho dovuto ri-
prendere sol per un momento il suo giuoco, non
per difender me, ma per ridere un po' di lui.
E ora passiamo a cose, per modo di dire, più
serie.
Il signor Zendrini ha una vera smania di co-
glier me in contraddizione con me stesso come
^democratico e razionalista; e a ciò piglia le pòste
il meglio che può. Egli mi rinfaccia che " bia-
" simo Cesare per avere aperto il senato ai sena-
" tori da' gialli crini e per aver mandato la plebe
" ad arare valli straniere „, quando il primo fu
provvedimento essenzialmente democratico, e so-
ciale il secondo (xxviii, 353). Sta bene: ma io
né biasimo né lodo; nel sonetto secondo su '1 Ce-
sarismo io reco que' due fatti in prova della po-
tenza e della gloria alla quale Cesare era giunto :
tant' è vero che ricordo anche i suoi trionfi e la
riforma del calendario. Sùbito dopo mi accusa che
io mostri di " preferire la bella storia aristocratica
" di Tacito, campione dell'oligarchia, alla storia do-
" cumentata, la quale è uno de' più preziosi acqui-
^ sti della democrazia e della civiltà „. Chi nega
il prezioso acquisto ? Anche questa volta il signor
Zendrini avrebbe potuto risparmiarsi V incomodo
264 CRITICA E ARTE.
di far lezione; se avesse voluto ricordarsi che
neir Io triumphe, a cui egli allude, io mi pro-
posi di metter a fronte glorie e nomi romani a
glorie e nomi di politici e di scrittori del nuovo
regnO; e non altro, non altro. Cosi preferii Tacito
ad alcuni storici contemporanei; e come uomo e
pensatore e osservatore e scrittore lo preferisco,
anche fuor di poesia, non pure agli odierni autori
di storie documentate, ma al gran padre della
erudizione e della critica storica, al Muratori.
Il signor Zendrini anche rimescola la questione
del Satana. Io di quel Satana oramai ne ho
fin sopra gli occhi, e sono stufo, più che stufo, del
dover riparlare di lui e di me. Ma dimostrare come
certa gente fa la critica e qual sorta di critica da
certa gente è spacciata per arguta, dotta, inge-
gnosa, e specialmente imparziale, mi par che sia
bfene; e forse che anche di questo m* illudo. Il si-
gnor Zendrini in somma prova e riprova: 1° che
Dante e il Tasso e il Milton hanno dipinto il
diavolo altrimenti da me: grazie, essi erano i poeti
della fede: 2° che altrimenti 1' hanno rappresen-
tato anche il Goethe e il Byron e il Heine: gra-
zie ancora, essi maneggiavano epicamente o dram-
maticamente il diavolo leggendario: 3° che la fan-
tasia popolare concepisce il diavolo altrimenti:
mille grazie per T ultima volta, il popolo nel
diavolo ci crede, o ci credeva. Dopo ciò il signor
Zendrini si degna d' ammettere che nel Satana
io abbia voluto rappresentare un' idea filosofica.
CRITICA E ARTE. 265
ma per tale rappresentazione egli crede che
avrei fatto meglio a sceglier Prometeo^ come fe-
cero il Monti e lo Shelley; e qui grandi lodi
de* due poeti. Alle quali io consento di lietissimo
cuore: ma da che il Monti e lo Shelley rinnova-
rono cosi bene filosoficamente il gran titano di
Eschilo, non pare anche al signor Zendrini che sa-
rebbe stato e impudente e imprudente ed inutile se
r avessi ripreso a trattare io di terza mano? A ogni
modo, non era il caso : Prometeo raffigura stupen-
damente la lotta del pensiero umano co '1 teologico
in generale: io doveva rappresentare la vitalità,
la guerra, la vittoria del naturalismo e del ra-
zionalismo dentro e contro la chiesa cristiana;
e Prometeo a ciò non mi serviva, invece mi ser-
viva benissimo Satana. È vero o non è vero che
la chiesa cattolica, anzi tutte le chiese cristiane,
ha ed hanno sempre maledetto e maledicono
come orgoglio satanico, come opere e istiga-
zioni diaboHche, il hbero pensiero, la scienza,
i sentimenti umani e naturali, tutte insomma le
belle cose che enumerai nella lettera a Qui-
rico Filopanti? È vero o non è vero che Gre-
gorio XVI titolava d' invenzione diabolica il va-
pore ? Dunque volete che tutto ciò sia Satana?
E Satana sia. Viva Satana ! Ecco il concetto e
la ragione dell' inno a Satana. Tutte queste cose
furono da me dette e ridette nelle risposte al
Filopanti e al critico del Diritto. — Ma no —
ripiglia il signor Zendrini, non dandosene per in-
206 CRITICA E ARTE.
teso e stemperando in otto paginone con molto
loquace malignità quel che il Filopanti disse con
molta onestà in due paginette — nO; voi non po-
tevate farlo, perché il tipo del Satana è deter-
minato — . E io l'ho fatto: che cosa ci farebbe
Ella, professore mio?
Che cosa ci fa il signor Zendrini? Delle so-
lite. — Ma come? — egli oppone — voi m' incar-
nate Satana nel Savonarola e in Lutero, due dei
più credenti e convinti cristiani! — Non io, pro-
fessore, non io; ma la Chiesa Cattolica. Tutto ciò
che insorge contro di lei, tutto ciò che accenna a
uscire fuori di lei, non pur dubitando o riformando,
ma ricordando, ammonendo, deplorando, per lei
è satanico: e Alessandro vi, il nefando, dovea
maledire la perversità diabolica del frate di San
Marco; e Leone x, il pagano, avvertire popoH e
principi a guardarsi dalle diaboliche seduzioni del
frate di Sant' Agostino. Tutto ciò non capisce, o
vuole non capire, il signor Zendrini, e osserva:
" Forse V essere il Savonarola un repubblicano
" (come poteva esserlo egli, fiorentino del se-
" colo decimoquinto, riformatore e frate) ha se-
" dotto il Carducci a crearne un repubblicano mo-
" derno, a fare un moderno razionalista d' uno
" de' più fanatici e austeri tra i credenti. „ Il
signor Zendrini pare si dia a credere che basta
lo sgrammaticare per non esset pedanti: ma di
rado a me è avvenuto di trovare tra i gramma-
tici un pedante della forza sua, se pedante è da
CRITICA E ARTE. 267
dire chi fa lezióne a ogni pie sospinto e su cose
che tutti conoscono. Certo il signor Zendrini non
è obbligato a sapere come e quanto nel 1865 io
scandalizzassi i neopiagnoni fiorentini con quel
che dissi del Savonarola in un discorso all' Ate-
neo, poi stampato in un giornale di Firenze. Ma
vegga, se vuole, il discorso che misi innanzi alle
poesie toscane del Poliziano nel 1863; e legga
anche, o egli o il lettor mio, queste due pagine
de' miei Studi letterari:
E pure, mentre per un lato l'elemento ecclesiastico segui-
tava esagerando la sua trasformazione romana fino a far pa-
gana la corte dei papi, il principio religioso per T altro lato,
contro il sensualismo classico del Fontano, contro lo scetti-
cismo popolaresco del Pulci, contro il paganesimo artistico
del Poliziano, contro 1' idealismo romanzesco del Boiardo,
contro la corruzione dei Medici, di Firenze, d' Italia e della
Chiesa, contro il Rinascimento in somma, insorgeva con un
ultimo tentativo di ascetica reazione in persona di Girolamo
Savonarola. Non tutto il clero, a dir vero, avea seguitato il
ponteficato nella sua abiettazione, e nella sua degenerazione
la Chiesa: che anzi, quanto più quella e questa avanzavano,
tanto più, in quegli ordini specialmente che parteciparono con
maggiore ardenza al rinnovamento cattolico dei secoli deci-
mosecondo e decimoterzo, andavano crescendo gli spiriti del-
l'opposizione: la quale negli scrittori ascetici del trecento e
del quattrocento va sempre più maturando un cotal concetto
di riformazione, tanto più chiaramente accennato quanto quegli
scrittori sentivano la necessità di raffermare, purificando la
Chiesa, il sentimento cristiano e il dogma cattolico contro la
civiltà profana che d' ogni parte dilagava e premeva. E il mo-
vimento di opposizione cristiana mise capo in Girolamo Sa-
vonarola. Nel quale, posto per un'incidenza che non è tutta
268 CRITICA E, ARTE.
caso, tra il chiudere del medio evo e l'aprirsi della modernità,
quasi a raccogliere e benedire gli ultimi aneliti della libertà
popolana già sorta nel nome del cristianesimo e a mandare
l'ultima vampa di fede verso i tempi nuovi, voi vedete con-
vergere le aspirazioni più pure, voi vedete rinascere le figure
più ardite del monachismo democratico. In lui lo sdegno su la
corruzione della chiesa che traeva alla solitudine i contem-
planti, in lui r amore alle plebi fraterne che richiamava su le
piazze e tra le armi dei cittadini contendenti ad uccidersi i
frati paceri, in lui la scienza teologica e civile di Tommaso,
in lui il repubblicanismo di Arnaldo, in lui finalmente anche
le fantasie e le fantasticherie di lacopone da Todi. E di quel
pensiero italiano che intorno alla religione andavasi da secoli
svolgendo nell'arte nella scienza nella politica, di quel pen-
siero che è lo stesso così in Arnaldo repubblicano all'antica
come in Dante ghibellino e nel Petrarca letterato, cosi in
fra' lacopone maniaco religioso come nel Sacchetti novelliere
profano, il Savonarola pronunziò la formola: Rinnovamento
della Chiesa. Era troppo tardi. Quel che nella mente italiana
del Savonarola era avanzato di intendimento civile tra le
ebrietà mistiche del chiostro, ei'lo depose gloriosamente nella
instituzione del Consiglio grande: del resto, come martire re-
ligioso, salva la reverenza debita sempre a cui nobilita il ge-
nere umano. attestando co '1 sangue suo la sua fede, come no-
vatore mistico, egli (perché no '1 diremo?) egli è misero. Ri-
vocare il medio evo su la fine del secolo decimoquinto; far da
profeta alla generazione tra cui cresceva il Guicciardini; ri-
durre tutta a un monastero la città ove il Boccaccio avea no-
vellato di ser Ciappelletto e dell'agnolo Gabriele, la città ove
di poco avea scritto il Pulci; respingere le fantasie dalla natura,
novamente rivelatasi, alla visione, le menti dalla libertà e
dagli strumenti suoi, novamente conquistati, alla scolastica: fu
concetto, quanto superbo, altrettanto importuno e vano. Il Ri-
nascimento sfolgorava da tutte le parti; da tutti i marmi
scolpiti, da tutte le tele dipinte, da tutti i libri stampati in
Firenze e in Italia, irrompeva la ribellione della carne contro
CRITICA E ARTE. 269
lo spirito, della ragione contro il misticismo; ed egli, povero
frate, rizzando suoi roghi innocenti contro l'arte e la natura,
parodiava gli argomenti dì discussione di Roma: egli ribelle,
egli scomunicato, egli in nome del principio d'autorità desti-
nato a ben altri roghi. E non sentiva che la riforma d'Italia
era il rinascimento pagano, che la riforma puramente religiosa
era riservata ad altri popoli più sinceramente cristiani; e tra
le ridde de' suoi piagnoni non vedeva, povero frate, in qualche
canto della piazza sorridere pietosamente il pallido viso di
Nicolò Machiavelli!
E ora veniamo alle mie imitazioni. 11 signor
Zendrini, con quel modo di dire che dice e non
dice; accenna, com' io, citando gli autori i quali
conferirono all' idea del mio Satana, dimenticassi
il Baudelaire. Potrei rispondere che citai anche
troppi, e che in fine in fine il Satana come crea-
zione lirica non la riconosco da alcuno : potrei
rispondere che nel 1863 io non conosceva il Bau-
delaire. Ma io non sono né tanto umile né tanto su-
perbo da volere che gli avversari mi credano su
la parola. Carte in tavola. Ecco delle Litanies de
Satan di Carlo Baudelaire.
O toi, le plus savant et le plus beau des Anges,
Dieu trahi par le sort et prive de louanges,
O Satan, prends pitie de ma longue misere I
O Prince de 1' exil, à qui 1' on a fait tort,
Et qui, vaincu, toujours te redresses plus fort,
O Satan, prends pitie de ma longue misere!
Toi qui sais tout, grand roi des choses souterraines,
Guérisseur familier des angoisses humaines,
O Satan, prends pitie de ma longue misere!
270 CRITICA E ARTE.
Toi qui, m6me aux lépreux, aux parias maudits.
Enseignes par 1' amour le goùt du Paradis,
O Satan, prends pitie de ma longue misere!
O toi qui de la Mort, ta vieille et forte amante,
Engendras l'Espérance, — une folle charmante! —,
O Satan, prends pitie de ma longue misere!
Toi qui fais au proscri't ce regard calme et haut
Qui damne tout un peuple autour d'un échafaud,
O Satan, prends pitie de ma longue misere!
Toi qui sais en quels coins de terres envieuses
Le Dieu jaloux cacha les pierres précieuses,
O Satan, prends, pitie de ma longue misere!
Toi dont l'oeil clair connaìt les profonds arsenaux
Où dort enseveli le peuple des métaux,
O Satan, prends pitie de ma longue misere!
E legga chi vuole nei Fiori del male il resto
di queste litam'e, e giudichi quanto abbiano che
fare co '1 mio inno. Ancora : il signor Zendrini af-
ferma che il " mio cavallo sauro „ (quello sa-
pete, dell' Avanti! avanti!, che ha dato, pare,
qualche calcio anche al signor Bernardino) af-
ferma, dunque, che quel " cavai sauro è un ca-
vallo da sella che mi ha noleggiato Vittor Hugo „.
Carte in tavola, per la seconda volta. Ecco Le
Cheval dell' Hugo :
Je r avais salsi par la bride;
Je tirais, les poings dans les noeuds,
Ayant dans les sourcils la ride
De cet efifort vertigineux.
CRITICA E ARTE. 27 1
C était le grand cheval de gioire,
Né de la mer comme Astarté,
A qui r aurore donne à boire
Dans les urncs de la clarté;
L' alérion aux bonds sublimes,
Qui se crfbre, immense, indompté,
Plein du hennissement des cimes,
Dans la bleue immortalile.
\
Tout genie, élevant sa coupé,
Dressant sa torche, au fond des cieux.
Superbe, a passe sur la croupe
De ce monstre mystérieux.
Les poetes et les prophètes,
O terre, tu les reconnais
Aux brùlures que leur ont faites
Les étoiles de son harnais.
Il soufflé l'ode, l'epopèe.
Le drame, les puissants effrois.
Hors des fourreaùx les coups d'épée,
Les forfaits hors du coeur des rois
Pére de la source sereine,
Il fait du rocher ténébreux,
Jaillir pourles Grecs Hippocrène
Et Raphidim pour les Hébreux.
Il traverse l'Apocalypse;
Pale, il a la mort sur son dos.
Sa grande aile brumeuse éclipse
La lune devant Ténédos.
Le cri d'Amos, 1' humeur d'Achille
Gonfie sa narine et lui sied;
La mesure du vers d'Eschyle,
C est le battement de son pied.
272 CRITICA E ARTE.
Sur le fruit mort il penche 1' arbre,
Les mères sur l'enfant tombe;
Lugubre, il fait Rachel de marbré,
Il fait de Pierre Niobé. ecc. ecc.
Tali i mìei plagi.
Nelle note alle Nuove Poesie io scrissi:
Séguito a notare tutte le imagini e i pensieri e i movi-
menti lirici che debbo a poeti moderni stranieri. Che se v'ha
per ciò chi mi tacci di minore originalità, io sono ben lieto
di poter conferire all'erudizione sua con queste mie noterelle.
Vi sono poeti che debbono agli stranieri od ai nostri men re-
centi o men letti invenzioni intiere, intiere composizioni, in-
tieri sfoghi di sentimenti e di affetti originalissimi; v' è chi
traduce quasi a lettera, e non bene, poesie intiere straniere e
le mette tra le sue: ma quei signori non sono né tribuni né
petrolieri. « Siamo onesti », disse un giorno il barone Ricasoli:
e fu peggio di prima. E io, dopo ciò, non ho né l'autorità né il
coraggio di dir lo stesso in letteratura, quantunque 1' ammoni-
mento non sarebbe per avventura inopportuno.
Scrissi cosi; e ora proverò che non scrìssi in
vano. Apro le Prime Poesie del signor Zen-
drini (Padova, Giammartini; 187 1, lire 4, 50. Ve-
diamo almeno di fargli esitare qualche copia del
volume), e a pagina 265 leggo:
DOMANI È FESTA
Tutta è raccolta nella stanzetta
La famiglinola. Più che mai lesta
La madre il tutto dispone e assetta:
Domani è festa.
La nonna fila, biascia preghiere
L'egra bisava; traverso i vetri
Guarda il fanciullo le nubi nere
Che sembran spetri.
CRITICA E ARTE. 273
Livido lampo talor le avviva ;
Strepita il tuono, fischiano i venti;
Mista a gragnuola la pioggia estiva
Cade a torrenti.
IL FANCIULLO
Grandine e vento! che diavoleto!
Breve è la rabbia della tempesta.
Domani il vento farò star cheto:
Domani è festa.
Domani, o mamma, non si va a scuola,
Si va raminghi per la foresta;
Doman si gioca sulla piazzuola:
Domani è festa.
LA MADRE
Oggi tempesta, domani gioia,
Lieto banchetto, splendida vesta!
Domani, o cari, bando alla noia:
Domani è festa.
Lampi e saette! La vita è un lampo.
La morte, il fulmine, segue improvviso !
Tra r uno e l'altro però c'è campo
Per un sorriso !
LA XON'.VA
La nonna fila, fa la calzetta,
La parca cena la nonna appresta :
Povera nonna! più non l'alletta
Il df di festa.
Nel mio buon tempo godevo anch' io
Ornarmi il crine de' fior pili belli.
Ma la vecchiezza ci toglie il brio
Come i capelli!
Carduccl 4. 18
274- CRITICA E ARTE.
LA BISAVA
Nel mio cantuccio qui accovacciata)
China la informe tremola testa,
Penso alla fossa che m'han scavata,
Non alla festa.
E forse è questo l'ultimo giorno,
Forse è suonata già l'ora mia.
La morte udite ruggirmi attorno?
Gesumaria! —
E ratto il fulmine segue il baleno.
Di quattro vite non una resta.
Là da ponente rompe il sereno:
Domani è festa.
Bellina^ non è vero? Un po' bolsa, un po' gialla,
un po' sbilenca, un po'sucida; ma bellina. Se non
che, apro anche un altro libro, Hausbuch aus
deutschen Dichtern seit Claudius, una
antologia critica fatta dallo Storm e stampata in
Hamburg nel 1870; e tra altre poesie di Gustavo-
Schwab vi leggo, a pagina 284, questa che
traduco :
IL TEMPORALE
Bisavola, nonna, madre e bambino stanno insieme nella
cupa stanza. Il bambino si trastulla, la mamma si fa bella»
r ava fila, 1' avola tutta curva siede dietro la stufa ne' piumacci.
Che aria affannosa che fa!
Il bambino dice — Dimani è festa. Come vo' ruzzare alle
siepi verdi! come vo' saltare per il piano e pe' colli! quanti
bei fiori vo' cogliere! Voglio tanto bene al prato! — Udite come
brontola il tuono?
La mamma dice — Dimani è festa; e farem tutti un'al-
legria di convito. Anch'io mi allestisco l'abito festivo. La vita
CRITICA E ARTE. 275
ha pur de' piaceri dopo le noie, e allora il sole rifulge come
oro. — Udite come brontola il tuono?
La nonna dice — Dimani è festa. Per la nonna non v' b
più giorni di festa. Ella cucina il desinare, ella fila per fare i
vestiti. La vita è tutta pensieri e molta fatica: buon per quello
che fa il suo dovere! — Udite come brontola il tuono!
La bisavola dice — Dimani è festa. Io avrei tanto caro
di morire dimani! Io non posso più né cantar né scherzare, non
posso badare a nulla né lavorare: che cosa ci fo io ancora nel
mondo? — Vedete come il fulmine cade là?
Essi non odono, essi non vedono. Fiammeggia in vivo chia-
rore la stanza. Bisavola, nonna, madre e bambino sono. tutti
insieme tócchi dalla saetta: un colpo finisce quattro vite. E di-
mani è festa.
Onesto Bernardino! Non piglia^ no, i cavalli a
nolO; lui ! Ma mi fa venire a mente un rivenditore
di cappelli vecchi, unti e ammaccati, famoso a
Firenze, quando io era ragazzo, co '1 nome di
Rubaciuchi.
Ciò non per tanto Fanfiilla preconizzava il
polpettone zendriniano, come una critica supe-
riore, un po' arguta e frizzante per me, ma ad ogni
modo leale e imparziale.
XIV.
• E queste critiche " oneste „ e " cortesi „ io
doveva poi, se avessi dato retta ai consigli del
signor Guerzoni, " accogliere „ come " amiche „
ed " ascoltarle „ e " disputar con loro „. Ascol-
tate in fatti le ho: ma del disputare, se il signor
Guerzoni me lo concede, non ne faremo nulla.
276 CRITICA E ARTE.
No : quand* anche i signori Guerzoni e Zendrini
fossero stati^ se possibile, più onesti e cortesi di
quello che furono, io non avrei disputato con loro:
né con loro né con altri.
Non per superbia: vero è che in Italia chiun-
que si tiene per un pezzo grosso, tiene anche
per indegno di sé e troppo a sé inferiore il ri-
spondere alle critiche che gli vengano fatte: ma
io non sono né un pezzo grosso né un pezzo duro,
sono un uomo. Non per un fino accorgimento:
se bene è anche più vero che uno scrittore, e
massime un verseggiatore, il quale risponda a* suoi
critici diventa ridicolo e si aliena gli spiriti dei
lettori e del pubblico, forse per quella gran ra-
gione d' umanità per la quale, se uno è morsicato
da un cane e gli dà un calcio, novantanove per
cento pigliano le parti del cane. E né meno per
quella miglior ragione, che non giova distrarsi
dall'opera ed è meglio fare che discorrere: io
non ho poi quella gran vocazione e voglia di fare
che qualcuno suppone, e amo distrarmi. Dunque
perché né disputo né disputerei? Perché, inutile.
Vi sono diverse età della poesia e diversi
tempi per i poeti o pe' rimatori. V è una prima
età, nella quale tutto il popolo fa la sua poesia,
tutto il popolo la canta : V epopea è l' aureola della
nazione, è come lo splendore che cinge il castello
de' gloriosi nel limbo di Dante,
un foco
Ch' emisperio di tenebre vincia:
CRITICA E ARTE. 277
meglio ancora^ è la fiamma e la luce che esce
dalla conflagrazione e dalla incandescenza dei
vari elementi del popolo che si fondono in na-
zione. Quella è V età barbara, V età eroica, V età
divina : allora la critica non e' è, o e' è sotto la
forma di Tersite, e si bastona. Altra età corre,
quando un popolo uscendo da uno stato di bar-
barie non eroica ma prodotta e provenuta dallo
scadimento e dalla corruttela vuol rinnovarsi e
restituirsi: allora la poesia è una forza e un fat-
tore insieme di civiltà; e il poeta è anche critico,
e pone egli stesso le ragioni e la teorica del-
l' arte sua. E V età politica ; e Dante chiama savi
ì poeti, e scrive la Commedia e la Vulgare
Eloquenza, e commenta egli le sue canzoni nella
Vita nuova e nel Convivio. E vi sono età
splendide, che la poesia non è più né produzione
naturale e spontanea del popolo né elemento e
fattore necessario d' incivilimento, ma è un gran
bisogno estetico di tutta la società. Sono le età
artistiche per eccellenza, nelle quali come la pit-
tura la scultura e V architettura si considerano
quasi parti integrali di un tutto armonico di guisa
che il quadro e l' affresco, la statua e il basso
rilievo sono fatti per V edifizio e V edifizio è fatto
per quelli, cosi la poesia e la letteratura entrano
come necessari ornamenti nello stato, che è ar-
chitettura della politica e della religione. Sono
quelle in somma le età di Pericle, di Leone x
(se vogliamo denominare da un breve regno
278 CRITICA E ARTE.
tutto un secolo di meravigliosa cultura italiana),
di Luigi XIV, nelle quali V ideale della poesia
è in esso lo stato e la critica in tutta la nazione :
allora Pietro Corneille difende il Cid e T Acca-
demia lo giudica, allora le controversie su la Ge-
rusalemme liberata sono quasi un affar di
stato per tutta l' Italia. E vi sono in fine altre età
meno splendide, nelle quali, essendo una nazione
su'l trasmutarsi a nuove condizioni politiche, i
poeti, i quali non dirò con una frase antica che
sieno vati veramente, ma che hanno da natura,
come certe bestie, l' irrequietudine nervosa in-
nanzi al terremoto, cominciano trasmutando essi
certe forme dell'arte che han finito di svolgersi.
Sono le età critiche; e allora i poeti combattono
intorno all' opera loro con le armi di offesa e di
difesa ; e 1' Alfieri scrive la lettera al Calsabigi, e
il Manzoni le lettere su le unità drammatiche e
su '1 romanticismo, e 1' Hugo la prefazione al
Cromwel. Vi sono finalmente altre età, nelle quali
queir ordine sociale che ha fatto la rivoluzione,
a rifarsi dei digiuni d' una volta e delle conti-
nenze eroiche della lotta, irrompe nei godimenti
■della vittoria, del potere, della vita; e inebriato
-di sensualismo slabbra le forme dell' arte, e ne
versa i liquori e i profumi per la strada, e i mo-
nelli ne bevono facendo giumella delle palme, e
ne lambiscono i cani. Allora la poesia se ne va,
.se già non se n' è andata.
intendiamoci bene. Non che la poesia muoia.
CRITICA E ARTE. 279
Avete letto, lettori miei, il Don Chisciotte?
Certo che si: se no, gittate sùbito questo mio
•libro, e andate e leggete quello. L' osserva-
zione che sto per esporvi credo sia del Heine,
ma non so più dove, e ve la rifaccio a modo
mio. Quante volte non si adopera il buon Sancio
Pancia a far persuaso V eroe, che il suo glo-
rioso scudo d' argento è un bacino di barbiere,
che la sua graziosa principessa è una Caterinetta
la quale dà beccare ai polli in un cortile, che
non occorre metter la lancia in resta contro i
muhni a vento i quali non sono affatto giganti !
Con quanta onesta pietà non lo ammonisce su la
vanità e i pericoli delle sue imprese, che vanno
dì consueto a finire in una fiocca di bastonate!
S' impunta anche tal volta a non voler più segui-
tarlo: ma tant' è: il Pancia è tratto da forza ignota
a trottare su '1 positivo asino suo dietro 1' astratto
rossinante del magro cavaliere. Cosi succede del
mondo e della poesia. No, ciò che il volgo teme
odia e deride sotto nome di poesia non muore.
I bottegai potranno, un di questi prossimi giorni,
bandire Omero e Dante dalle scuole, il Leopardi
r Alfieri e lo Schiller dalle biblioteche ; potranno
decretare che il solo stile permesso dallo stato è
quello dei dispacci telegrafici, che la sola arte
dallo stato protetta è l' operetta comica dell' Of-
fenbach, e .poi serafici di salute e della conscienza
di aver salvata la patria andarsene a cena con
due ballerine per uno. Ma che? domani la fi-
28o CRITICA E ARTE.
gliuola del bottegaio rifarà ella a conto suo
r Amore e Morte del Leopardi ingoiando del-
l' arsenico o del fosforo di fiammiferi sciolto nel-
r acqua; e il genitore, salvatala, dovrà darle il
marito che ella vuole e pagare la dote. E, sono
pochi anni, quanti figliuoli di bottegai scappavan
di casa alle chiamate del General Garibaldi, e
corsero incontro alle palle, non si sa perché,
quando la bottega andava bene e lo statuto fun-
zionava non mica male; certo per quel che so-
gnavano r Alfieri e lo Schiller, per la libertà,
per r onore della patria, per la rivoluzione; e i
poveri padri doverono poi pagare i rotti e metter
fuori le bandiere.
La poesia dunque non muore; 1' arte della poe-
sia muore, 1' arte della poesia nel suo antico e
puro significato di elaborazione estetica, metrica,
disinteressata. Di che io non faccio, né potrei
senza ridicolo, accusa o rimprovero (tanto più
che a suo tempo so di certo che rinascerà): ma
dico che la borghesia dominante, educata com*è,
con i suoi intendimenti e instituti di vita, non ha
più, o perde ogni giorno più, le abitudini le pre-
parazioni e gli ozi che si richiedono a capire e
amare la poesia vera. La borghesia moderna
venne a dominare, che non aveva eredità arti-
stica, che non aveva ideale altro che quello del
Rousseau: con la rivoluzione francese di fatti in-
cominciano il sentimentalismo fantastico e decla-
matorio e la prosa poetica. Prima, la Stael e lo
CRITICA E ARTE. 28 1
Chateaubriand senza né il dono né 1* amore del
verso ammaliarono la generazione del Consolato
e dell' Impero co '1 romanzo lirico ed epico. Poi, il
celebre recitatore tragico, il Talma, andava racco-
mandando ai poeti: — Non più versi belli — . Nella
ristaurazione, contro il rinascente fervore della
poesia metrica, il Beyle conchiudeva — Non versi
del tutto — ; ed egli, prima di porsi a scrivere, co-
stumava, o almeno lo diceva e consigliavalo agli
altri, di leggere a modello di stile parecchi arti-
coli del Codice civile; il che non lo salvò dallo
scrivere falso e affettato. Costui era impotente
alla creazione d'arte; e i suoi romanzi lo mo-
strano, nominatamente Le rouge et lenoir,
titolo che è la difinizione più esatta del modo suo
di rappresentare. Ma potente ingegno d' inventore
e di osservatore ebbe il Balzac, e non sapea farsi
ragione che si trovasse del piacere a fare de' versi
e che Teofilo Gautier ne componesse. — Ma co-
testo non è della copia per la stampa — diceva,
facendo spallucce, 1' epicureo e industriale e in-
gegnosissimo descrittore e rappresentatore della
borghesìa, quando vedeva il suo amico empire di
piccole e ineguali righe la breve pagina. Egli fu
r autore e il padre di quel realismo in prosa del
secondo impero, che oggi trionfa e ha finito di
sotterrare la poesia come arte. Questi fecondi e
copiosi scrittori, che sanno con lunghi romanzi
e con drammi non brevi tener sempre eccitata e
tormentata la lussuria estetica di milioni di let-
282 CRITICA E ARTE.
tori e leggìtrici; potrebbero ragionevolmente dire
al Goethe, se egli escisse oggi fuori coir Er-
manno e Dorotea — Ma cotesto non è un li-
bro — . Noi poi; meschini rimatori lirici; tra questa
letteratura e in questa società, dobbiamo far la
figura di persone, che in un passeggio del giorno
di festa affollato di carrozze e cavalcate trascor-
renti con tutte le eleganze e li agi del lusso, se
ne vadano serie serie per la loro via camminando
a galletto zoppo.
Cosi è, cari confratelli in rimeria: noi oggi-
giorno siamo Non vi dirò che cosa siamo,
perché voi ve ne avreste a male. Né giova op-
porre che gli esempi da me recati sono di Fran-
cia: prima di tutto, perché a punto. in Francia la
borghesia ha avuto campo di svolgersi in tutti i
suoi intendimenti e in tutte le sue manifestazioni
si politiche come filosofiche, e quindi quel che è
avvenuto là avviene, o comincia ad avvenire e
finirà di avvenire, anche qui: poi, perché '( tanto
è vero ciò che ho detto) la odierna letteratura
italiana non è altro che riproduzione e copia della
letteratura francese; ci sarà qua e là qualche
spruzzaglia di tedesco, ma il fondo è francese,
ma sopra tutto quel che nella letteratura italiana
odierna manca è l' italiano.
La poesia dunque (ripigliando il discorso prin-
cipale) oggigiorno non è più né la produzione
immediata o mediata del popolo, né un elemento
di civiltà per la nazione, né un bisogno estetico
CRITICA E ARTE. 283
della società, né instrumento di rivoluzione o
mezzo di rinnovamento : ella, salvo qualche volta
o più volte il dramma e il romanzo, se pure il
romanzo può assegnarsi alla poesia, ella è tutta
individuale. Quanto all' Italia, io dirò cosa che
muterà in istrici tutti i nostri dolci montoni di
Arcadia, montoni, del resto, rispettabilissimi: il
popolo italiano è. stato sempre, nel significato ar-
tistico e non sensuale della parola, poco poetico:
oggi poi non v' è più corrente alcuna d' intelli-
genza tra i poeti e lui. Quando tutta la nazione
aveva bisogno di poesia, ed ella stessa aiutava
a farla, allora un criterio generale dell' arte poe-
tica v' era, e più d' un giudice poteva sorgere ad
applicarlo. Oggi no. Nessuno oggi ha il diritto
d'intimare al poeta: Voi dovete fare cosi, e non
cosi. E con quale autorità, su quali massime,
con qual consentimento dell' universale o dei più,
in nome di chi, o di che, si farebbe tale intima-
zione? Il poeta oggi ha in sé stesso la. ispirazione
la norma il criterio dell' arte sua : in parole po-
vere, egli può fare quel che vuole e come vuole;
pur che n' abbia, ci s' intende, la forza, e sappia
eleggere la materia dell' arte e maneggiare gì' in-
strumenti. Giudicarlo, nei rapporti o nei contatti
d' idee e di sentimenti che egli abbia coli' età sua,
può solamente, a suo tempo, e s'ei lo meriti, lo
storico: avvertirne i difetti in meno o in più, e
correggerlo, ov' ei falli o sia men forte e ine-
guale neir opera, non può se non chi ha 1' uso e i
284 CRITICA E ARTE.
segreti del mestiere: accoglierlo o respingerlo, a
smanacciate o a fischi e pedate, possono tutti:
spiegarlo, dovrebbero i critici: mostrargli la via
e imporgli — Andate per questa — , non può nes-
suno. Unica arte che rimanga popolare veramente
e sia negli amori di tutti (badiamo, che oggi-
giorno tutti vuol dire una o due parti: non mai
come oggigiorno fu cosi poco vero che una parte
non è il tutto ) è la musica : per la musica v' è
sempre un pubblico, che, se anche non la in-
tende, la festeggia, si accalora per lei, la paga
magnificamente, un pubbHco che ha bisogno di
averne ogni giorno e di nuova: per la musica
la richiesta cresce tuttavia, e però ella può avere
apprezzatori e giudici anche nell' universale : con
tutto ciò fino i maestri di musica cominciano a
mormorare non so che dei giudizi del pubblico.
Figuratevi un artefice di versi, un artefice cioè
deir arte meno popolare e più solitaria che
oggi sia, di un' arte o meglio d' una sciopera-
taggine per la quale ogni persona che abbia
un po' di stima di sé è strettamente obbligata
ad avere almeno un po' di diffidenza e di fred-
dezza; figuratevi, dico, se un artefice di versi,
a punto per tutto cotesto, può sottomettersi a
ricevere lezione, in nome di certe astrazioni
che mutano di cervello a cervello, dal primo-
soggetto che fonderà i principìi della sua auto-
rità di giudice nel non saper egli far versi o nel
farli male!
CRITICA E ARTE. 285
L' Alfieri a' suoi tempi cantava :
Ben può sentenza il volgo dar su i vuoti
ArmonYosi incettator d' oblio,
Di baie pregni e al vero Apollo ignoti:
Ma prezzar quelli che il furor natio
Sforza a dir carmi a verità devoti
Non r osi, no, chi non è vate o iddio.
Io un po' più modesto dell' Alfieri^ forse sola-
mente perché meno forte, scrissi or già sono
quattr' anni ;
La poesia oggimai è cosa affatto inutile: che se anche man-
casse del tutto, verun minimo congegno della macchina sociale
ne andrebbe men bene: il perché, penso ancora, il poeta non
dee tenersi obbligato di obbedire a certe, come si direbbe,
esigenze del tempo. Che se la cetera dell'anima sua, anzi che
agitarsi sotto 1' ala della Psiche fugace e rispondere agli echi
del passato, agli aliti dell' avvenire, al rumore solenne dei se-
coli e delle generazioni procedenti, si lascia carezzare all'au-
retta che move dai ventagli delle signore e dai pennacchi dei
soldati, s'increspa al fruscio della toga professorale o allo
spiegazzare della gazzetta, guai al poeta, guai al poeta; se
pure è poeta! Affacciarsi alla finestra a ogni variare di tem-
peratura per vedere qoali fogge vesta il gusto della maggio-
ranza legale, distrae, raffredda, incivettisce l'anima. Il poeta
esprima sé stesso e i suoi convincimenti morali ed artistici
più sincero, più schietto, più risoluto che può: il resto non è
afTar suo.
In tali concetti mi ha sempre più raffermato
quel po' di buona fortuna che è toccata a' miei
versi. Buona fortuna, che, confesso, io era assai
lontano dall' aspettarmi, come non ho cercato mai
286 CRITICA E ARTE.
né gli articoli de' critici né gli amori del pubblico ;
forse perché non speravo di conseguirli. Tanto
ciò è vero, che incominciai scrivendo odi pagane
quando era tra i primi elementi dell' educazione
letteraria lo scherno della cosi detta mitologia:
che ai Lcvia-Gravia inscrissi la formola sepol-
crale romana Sibi suis fecit (cioè, Questa tomba
fece a sé ed ai suoi versi), e non li misi in com-
mercio : che in fine, non potendo dimettere 1' abi-
tudine di verseggiare (chi ha bevuto una volta a
certi fiaschi, gli ci bisogna ribere, pur troppo), mi
presi un pseudonimo, a punto per non pregiudi-
care co' versi a quel po' di meno male, che, a
giudizio di alcuni, potevo fare negli studi di storia
letteraria e di filologia italiana. Per ciò tutto cre-
derei di avere qualche diritto a esser creduto. So
ne persuadano pure amici e non amici : scrivendo
versi né mi proposi né mi propongo quelle cose
inaudite, intentate, portentose, che molti credono :
non mi propongo né meno di essere originale:
è una cosa tanto comune! Io mi propongo e mi
proposi soltanto di esprimere, per uno sgravio di
psicologia, con la maggiore sincerità ed efficacia
possibile, certe fantasie e certe passioni che mi
si movono per lo spirito, e di rappresentarle pro-
prio co '1 colore e con l' attitudine del momento in
cui le sento e le veggo io, e non coi colori o
con le attitudini di ieri 1' altro o di domani, e non
coi colori e le attitudini in cui altri voglia darmi
a credere che piacerà meglio agli altri di vederle
CRITICA E ARTE. 287
o in cui gli altri possano vederne o sentirne dì
consimili. .
XV.
Tale essendo la mia poetica, io non disputo.
Anche questo sarà, come alcun dice, un'asineria.
Vi ricordate 1' asino a cui il divino Omero com-
para Aiace? Assomigliare a un asino d' Omero,
è una tentazione di vanità: " E come quando un
asino andando a un campo di frumento prevale
tardo e ostinato ai fanciulli, e già su '1 suo dosso
sónosi rotti molti bastoni, e pure egli entrato
tónde la mèsse profonda, e i fanciulli pur lo bat-
tono con i bastoni ; ma la lor forza è bambina, e
a stento ne lo cacciano dopo satollo; cosi allora
i troiani magnanimi e i da lunge chiamati ausi-
liari „ eccetera eccetera. Iliade, libro xi, v. 358
NOVISSIMA POLEMICA
Carducci. 4. 19
Dal Preludio di Bolo a,
num. 10, novembre 1878:
in Confessioni e battaglie diG. C, serie 1»,
Roma, Sommaruga, 1882.
uando il popolo d*Isdraele (veggano
i critici e poeti nazareni che noi
pagani conosciamo anche un po' il
i> Vecchio Testamento) confortato da
Nehemia si mise ali' opera di riedificare le mura
di Gerusalemme, Sanballat horonita e Tobia ham-
monita servo e Ghezem arabo da prima se ne
facevano beffe; ma, udendo poi e vedendo come
r opera di giorno in giorno avanzasse, si congiu-
rarono insieme per isturbarla a mano armata.
Allora " coloro che lavoravano all' edificio del
muro, e coloro che portavano i pesi, e coloro che
gli caricavano, con una delle mani lavoravano
air opera e con Y altra tenevano un dardo. Quei
che edificavano aveano anche ciascuno la sua
spada cinta in su' fianchi; e cosi edificavano.
E il trombettiere era presso di me .„. — . Questo
292 NOVISSIMA POLEMICA. ;
ordinò e questo lasciò scritto Nehemia (cap. iv,
vers. 17 e 18).
Lo stesso dobbiamo fare, e da più anni fac-
ciamo, noi, come ci chiamano, della nuova scuola
o della scuola dell' avvenire, noi cioè che usciti
dalla servitù di Nebucdnesar, per grazia di Dio
divenuto bestia, vogliamo vivere, pensare, amare,
adorare e scrivere a modo nostro. Ed è bello a
vedere nella Nova Polemica Lorenzo Stec-
chetti con r una mano tener la cazzuola, e, svelto
ed elegante operaio, murare il suo tempio o la
casa ; con V altra, sbirciato d' un rapido girar degli
occhi il nemico, tirare la spada, e d' un colpo
tagliare o il naso a Ghezem arabo o gli orecchi
a Sanballat horonita che gli avea molto lunghi, o
pure al vile Tobia servo che fugge tagliar via
una braciola da quelle posteriorità carnose ove si
appioppano i calci ai poltroni. E poi serio e se-
reno torna, fischiando e cantando, al lavoro.
" I critici — mi scrive un amico, che è, per-
ché non nominarlo?, Giuseppe Chiarini — i cri-
tici hanno reso anche un servizio all' arte e alla
letteratura, che acquista, a loro dispetto, un nuovo
buon libro. „ È proprio vero. E se quei cenci di
sonetti che quel povero untorello del signor pro-
fessor Rizzi gridando al morbo ci gittò da Mi-
lano tutti inzuppati della tabe delle sue scrofole
romantiche, se quelle eiaculazioni a intervalli più
o meno corti, chiamati con faccia da apostolo
versi, che ci fece dalla gentil Firenze, forse dopo
NOVISSIMA POLEMICA. 293
un' indigestione di paolotteria giustesca, il signor
eomko Luigi Alberti, furono la cagion materiale
deir Annunciazione e del Dies irae, allora biso-
gna confessare che i veristi non hanno poi tutti
i. torti; e che le brutture sono a tempo belle e
buone, non foss' altro, a far da concime ai fiori.
E benedetta l'Arcadia, la quale, o classica o ro-
mantica, o manzoniana o guerrazziana, o monar-
chica o democratica o socialistica, è pur sempre
la' scuola nazionale italiana, se, cercando tèmi a
cantilene e prose accademiche ad ogni costo e
trovatili negli oltraggi alla tradizione e alla me-
trica patria, ha, per contrasto, mosso lo Stecchetti
a^ scrivere il Wiener Blut e il Congedo !
Può anche darsi che le Nova Polemica non
abbiano un cosi grande e intero successo quale
ebbero le Postuma; perché tutti oggimai sanno
che lo Stecchetti è vivo', "e questo risuscitato dice
a tutti le sue ragioni fuor de' denti e ride su '1
muso agli sciocchi, e perché in fine il pubblico è
un po' come certe donne, dopo i primi favori fa
qualche volta il ritroso. Ma delle ultime poesie
dello Stecchetti, parecchie, al parer mio, superano,
come lavoro d' arte, le Postuma. In queste e in
quelle, dove e quando sono belle veramente, e' è
sempre la stessa faciHtà scioltezza ed eleganza
di imaginazione, di passaggi, di verseggiatura;
ma nelle Polemica apparisce maggiore la va-
rietà: elle annunziano e attestano con più fran-
chezza una facoltà plastica che trionferà anche
294 NOVISSIMA POLEMICA.
più potente, quando che sia, in opere serenamente
oggettive. E dovrebbero nei lettori onesti e di-
screti, se anche freddi o non bene disposti, ope-
rare un miglior effetto, dovrebbero movere e de-
terminare un' inclinazione tra di affetto e di stima
al poeta. " In quest' ultimo libro — - mi scriveva
il Chiarini — anche quello che e' è di men pudico
non offende, perché acquista un valore più arti-
stico dalla intenzione satirica, e dietro lo Stec-
chetti fa capo il Guerrini, il Guerrini uomo e cit-
tadino „. Vero: ma i poeti pudichi e i critici
virtuosi non se ne accorgeranno di certo, fa-
ranno vista di non aver capito il Prologo e
seguiteranno a dar del porco al Guerrini e
anche a me.
IL
Già: daranno, anzi han già dato, del porco
anche a me, che pure ho scritto V Ideale e le
Primavere elleniche. Ma ora facciamo un po' i
conti. E cominciamo dall' intenderci, se è pos-
sibile. Prima di tutto, metto da parte quei poveri
seminaristi, che, scampati pur ora al convitto del
vostro idealismo debilitante, o signori, sónosi
messi a rimare in versi non sempre giusti il bor-
dello e lo stravizio. E una reazione, naturalissima
del resto, di ragazzi, cotesta: e cotesti ragazzi
seguitano ad essere idealisti, idealisti al rovescio;
NOVISSIMA POLEMICA. 295
e' m* hanno un po' V aria del Povero diavolo di
Voltaire :
Hélas!
Dans mon grenier, entre deux sales draps,
Je célébrais les faveurs de Glycère,
De qui jamais n'approcha ma misere;
Ma triste voix chantait d'un gosier sec
Le vin mousseux, le frontignan, le grec,
Buvant de 1' eau dans un vieux pot à bière.
Anche a me, se ci bado, questa mostra in
versi, che dura da qualche mese, di tante alcove
in disordine non piace punto, perché in somma è
poco pulita, e riesce, come tutte le mostre, cor-
dialmente noiosa. Desidero poi che il Guerrini
s' allarghi fuor del genere voluttuario, come ha
già mostrato di volere e sapere e poter fare. E av-
verto in ultimo che non consento a quello che
nel prologo alle Nova Polemica il Guerrini
dice troppo generalmente e troppo assolutamente
delle donne: non le credo cioè tutte e tanto sca-
dute, a ogni modo ho ancora un debole di ca-
valleria per Antigone e per Erminia. Dopo ciò:
a noi, critici virtuosi.
Volete ammettere, si o no — e già, anche se non
lo ammettete, è vero, — che Olindo Guerrini nei
Postuma volle fare un po' di patologia della con-
dizione morbosa a cui è venuto nelle ultime gene-
razioni l'amore? Ora: questa idealizzazione della
mollezza fannullona solo perché è fantastica, questa
trasformazione del sensualismo a passione sublime^
296 NOVISSIMA POLEMICA.
questa sapiente educazione del verme che nello
smammolamento delle aspirazioni o delle fruizioni
del vago e dell' infinito ci ha da forare le midolla
deir ossa, questa distillazione acuta e sottile della
voluttà per tutti i filtri della riflessione in tutti i
più reconditi pori dell' essere, questo rispecchia-
mento del dolce peccato e della colpa accarezzata
ricercato e accomodato per tutti i prismi dell' arte
e in tutte le faccettature della parola; tutto questo,
dico, chi r ha fatto, chi 1' ha prodotto, chi 1' ha
voluto ? Tutto questo, domando, non fu il portato
necessario dell' idealismo sposato al sentimenta-
lismo nel romanticismo? Perché anatemizzate i
figliuoli nel nome dei loro padri idealisti e roman-
tici? Badate bene: Lorenzo Stecchetti, il fantastico
Stecchetti, non Olindo Guerrini, è molto più idea-
lista che voi non crediate, che voi. non vogliate,
che voi non fingiate credere. Alfredo di Musset,
in cui la monelleria del genio è smussata da un
difetto assoluto di mascolinità, come la eleganza
del suo dire è scemata dalla debolezza del rimare;
Alfredo di Musset, che a tutti i generosi tumulti
della vita sfugge su '1 seno della donna, e, se gli
vien meno la donna, si raccomanda a Dio e fri-
gna dietro l' ideale ; Alfredo di Musset ha pro-
creato legittimamente Lorenzo Stecchetti, che
muore del mal sottile a ventidue anni, facendo la
preghiera della sera.
NOVISSIMA POLEMICA. 297
III.
Ma le oscenità plastiche, le oscenità volute^
meditate, elaborate da Olindo Guerrini, dove son
elleno? Che direste voi, critici virtuosi, d' uno
che tacciasse d' oscenità il più amabile forse dei
grandi poeti italiani, il poeta di Gerusalemme e
di Cristo, Torquato Tasso? Or bene, trovatemi
voi una poesia del Guerrini che accenni pur da
lontano alla lascivia di questo madrigale del
Tasso.
Nel dolce seno de la bella Glori
Tirsi, che del suo fine
Già languendo sentia 1' ore vicine.
Tirsi, levando gli occhi
Ne' languidetti rai del suo desio,
— Anima, — disse — ornai beata mori — .
Quand' ella — Cime, ben mio,
Aspetta! — sospirò dolce anelando —
Ahi crudo, ir dunque a morte
Senza m^e pensi? Io teco, e non me 'n pento,
Morir promisi; e già moro, e già sento
Le mortali mie scorte — .
Perché 1' una e 1' altr' alma insieme scòcchi,
Si stringe egli soave, e sol risponde
Con meste voci alle voci gioconde.
Oh fortunati, 1' un entro spirando
Nella bocca dell'altra! una dolce ombra
Di morte gli occhi lor tremanti adombra;
E si sentian, mancando i rotti accenti,
Agghiacciar tra le labbra i baci ardenti.
298 NOVISSIMA POLEMICA.
E di Pietro Corneille, l'autore deirHorace
del Cid e del Polyeucte, conoscete voi certi
versi intitolati U occasion per due recouverte ? Ah
no, innocentini? E allora, coraggio, èccovene qui
due strofe : godetevelo l' idealizzatore dell' eroismo
classico, cristiano e cavalleresco:
Dans cette agréable siirprise
Où Cloris n'avoit pas songé,
Elle avoit assez mal rangé
Son cotillon et sa chemise:
Lisandro aussi, trop curieux,
Vit lor les délices des dieux,
La peine et le plaisir des hommes,
Nostre tombe et nostre berceau,
Ce qui nous fait ce que nous sommes
Et ce qui nous brusle dans 1' eau.
Petit thrésor de la Nature,
Estroite et charmante prison,
Doux tyran de nostre raison,
Fixe et mouvante sépulture,
Autel que 1' on sert à genoux,
Dont r offrande est le sang de tous,
Sangsue avide et libérale,
Roi de la honte et de l'honneur,
Permettez que ma piume estale
Ce que Lisandre eut de bonheur.
Ma il Tasso ed il Corneille vissero in secoli
corrotti, tra corti corrotte; e il classicismo puro,,
come lo professava quella gente che leggeva il
latino senza spropositi di prosodia (cattivo segno
per la morale), è una corruzione di per sé. Lo
so: vostro cavai di battaglia, o critici virtuosi, è
NOVISSIMA POLEMICA. 299
r età gloriosa dei nostri padri, il ciclo ( diciamo
cosi) delia poesia civile, il tempo oramai diventato
antico nel quale i fanciulli imparavano ad amare
la patria nei canti de' poeti, quando V arte sembrò
veramente
venuta
Di cielo in terra a rairacol mostrare.
Verissimo: nessuno più di me ammira quel tempo
per ciò che produsse di severo, di onesto, di forte.
Ma le tante edizioni del Casti e del Batacchi che
uscirono tra il 1815 e il 1859 chi le leggeva, chi
le consumava? noi, o i nostri padri idealisti? La
Molla magnetica e VAve Maria chi V ha scritta,
il cinico Stecchetti o il civilissimo e moralissimo
poeta Giuseppe Giusti? E del Giusti volete voi,
senza poi trattarmi da Cam, volete voi che io li
pubblichi certi versi inediti? Non potrò pubblicarli,
vi avverto, in questo giornale, e né meno in molte
copie da mettere in commercio; ma li regalerò a
chi me li chieda, pur che provi con documenti,
foss' anche co '1 certificato del suo pievano ( in
letteratura verremo, verremo a questo), di essere
un poeta pudico o uno scrittore morale o un cri-
tico idealista a prova di bomba.
Voi mi opporrete: Ma cotesti versi osceni od
equivoci il Giusti o non li pubblicò o li rifiutò. Vi
rispondo : Io, per esempio, non avrò V incomodo di
rifiutarne di simili, perché io, materialista, come
volete, non ho mai composto versi osceni. Anzi le
opere del Batacchi imparai a conoscerle da un
300 NOVISSIMA POLEMICA.
idealista, idéalista d' un' acqua... d'' un' acqua, cari
miei; che non e' è diamante che tenga; famigliare
un tempO; del Giusti; e scrittore anch' egli di versi,
più tosto sconclusionati e brutti, ma quanto ad
affetto, a spiritualismo, a etere, bada d' avanti !
Erano curiosi certi tipi toscani di ventidue anni
fa ! Fior di" galantuomini e patriotti se ce ne fu
mai : non son sicuro che in fondo in fondò cre-
dessero in Dio o neir anima immortale, ma cri-
stiani erano di tre cotte: nessuna letteratura, del
resto, parea a loro a bastanza civile, e facevano un
loro strano cibreo non pure d' " Ugo e Manzon „,
ma e del Niccolini e del Giusti, con un miccino
anche di Silvio Pellico, le sillabe del cui dolce
nome parevano tutte languide gemere di tali con-
tatti.'Ma, quando quei civilissimi si ritrovavano
tra loro cosi a quattro, a otto, a sedici occhi, il
poeta più ricordato, più citato, più letto, era il
Batacchi. E come lo recitavano! come se lo gro-
giolavano! con che sdrucciolose illustrazioni in
quella sboccata lingua fiorentina lo commentavano!
Ora io non dirò che i nostri padri idealisti
fossero, almeno un tantino cosi, ipocriti: non lo
dirò: troppa è la venerazione che io mi sento in
cuore per i capelli canuti e per le tombe. Rac-
conterò invece una storia. C' era una volta, tra il
1820 e il 1830, un critico e poeta, cristiano puro,
serafico come un francescano, rabbioso più d' un
domenicano; filosofo rosminiano per giunta, e
missionario validissimo della religion manzoniana.
NOVISSIMA POLEMICA. 30I
Era uomo dotto, e pure s' infingeva di aborrire
le letterature classiche, perché non manzoniane e
dantesche : pagano era il suo vocabolo d' orrore e
di vitupero, e credo lo gittasse dietro alle spie
deir Austria e al sarto quando gli presentava il
conto. La carne gli faceva scandalo cosi nelle tele
di Tiziano come nei marmi del Canova e nei versi
del Foscolo: il suo ideale era la quaresima: di-
ceva ohibò alle farfalle riscontrantisi su i fiori.
Ma tanto concentrato idealismo aveva pur bisogno
di sfogo; e le femmine in natura gli piacevano; e
specialmente gli piacevano, non corrotte dall'arte,
le foresozze tarchiatelle e atticciate, e le serve,
nella cristiana umiltà della lor condizione, rimpinze
e luccicanti d' ogni grazia di Dio. Questi suoi gu-
sti si sapevano in paese. Onde certi mondani,
punti o stizziti delle sue critiche, un bel giorno
gli misero fuori una caricatura, che io mi proverò
a descrivere con parole il meno che per me si
possa proprie e pittoriche. Lo rappresentava qual
era di viso, di figura, di panni, ma in atto come
di rapito in serafica èstasi: con le braccia allar-
gate, erto e supino il capo verso il cielo, sbarrati
gli occhi fisi e fiammanti, pareva dire: ; Veggo i
cieli aperti e la gloria dell' Agnello. Ma anche la
parte per la quale meritò tanto Origene, esultante
fuor d' ogni vincolo nell' apoteosi a cui, 1' amore
solleva la materia, pareva seguitare la verticale
ascensione dell' estasi. Sotto la figura quegli in-
durati e perfidi pagani avevano inscritto alcune
302 NOVISSIMA POLEMICA.
parole, con le quali 1' egregio uomo soleva desi-
gnare a sé stesso ed agli altri l'ufficio del critico:
" Eretto neir amore di Dio e delle sue creature „.
— Cosi la leggenda.
Giuseppe Parini, l' institutore della scuola ci-
vile, il restauratore della coscienza nella poesia
italiana, non era da vero un ipocrita egli, il bravo
prete. A lui " le bianche braccia ed il bel petto „
piacevano francamente anche nelle arciduchesse
d* Austria, e glielo diceva su '1 viso. Come descri-
vesse i vezzi della Cecilia Tron e della contessa
di Castelbarco, tutti sanno o dovrebber sapere.
Ma La sorpresa e La gelosia le ricordate voi,
critici pudibondi, che rinfacciate allo Stecchetti
r arte modesta del Parini, Tarte che fu educatrice?
No? Ve le dirò io.
Che spettacol gentil, che vago oggetto
Fu il veder la mia Nice all' improvviso,
Quando sorpresa in abito negletto
M'apparve innanzi ed arrossi nel viso!
Come il candido velo al sen ristretto
I bei membri avvolgea! come indeciso
Celava e non celava i fianchi e il petto
Che sorger si vedeva in due diviso!
Quali forme appan'an sotto a le veste!
Paga era l'alma e vivo era il desio,
E il piacer del mirarla era celeste.
Deh, mi concedi, amor, che questa cruda
Tal mi si mostri anco un momento; ed io
Più non invidio chi vedralla ignuda.
NOVISSIMA POLEMICA. 303
Più non invidio chi vedralla ignuda?
Ah come, ohimè !^ se immaginando ancora
Quella sera fatale o queir aurora
Trema quest'alma sbigottita e suda?
Come soffrir che al mio rivai si schiuda
Ciò che velato ancor m'arde e innamora?
Come soffrir che a mille baci allora
Quel bel labbro eh' è mio s'apra e si chiuda?
E eh' altri faccia al bel corpo catena
De le sue braccia, e spiri altri quel fiato,
E ch'altri, oh Dio! che il suo fedele amante...
Queste, amico Cavallotti, sono " le mode del
vecchio Parini „ ; e se tu le vuoi portare, por-
tale pure, che, per gli dèi, non c'è male. Po-
trai venire cosi vestito, a far visita alla musa
scollacciata dello Stecchetti. Io allora pregherò
il signor Vittorio Bersezio, uomo sodo, a guar-
dare un po' lui che non succedano casi. Un
campione, e che campione, del popolo eletto,
in peccato con una figlia degli Amaleciti?
Orrore !
E non è tutto. Il bravo abbate, che io am-
miro in più parti delle odi e in tutto il poema
come uno de' primi maestri del realismo ( dico
cosi per r uso di questi giorni, e dovrei dire
della buona e vera poesia), il bravo abbate fa-
ceva anche de' sonetti per le ballerine ; e per
,304 NOVISSIMA POLEMICA.
certa ballerina Pelosini ne fece uno che finisce
cosi,
E Pelio ed Ossa innalzerei con lena
Se gir potessi ad ottener ristoro
Per quella via che in ver' Pelusio mena.
Che ne dicono i critici virtuosi?
Badate, lettori, che questa interrogazione io
r ho messa qui solamente come una figura retto-
rica. Se aspettassi una risposta, aspetterei il corvo.
I critici virtuosi e i poetini scrofolosi seguiteranno
a dire che i novatori menano al bordello la casta
e austera musa del Parini e del Giusti, e che il
Guerrini e io siamo due porci.
A rivederci, brava gente! Siate, se potete,
meno imbecilli o meno birbanti.
IV.
E ora negatemi che Ohndo Guerrini sia, un
poco almeno, idealista! O non gli passò pe '1 capo
di dir qualche parola gentile al signor comico
Luigi Alberti e stendergli la mano? Ha avuto
quello che si meritava. Il comico gli ha risposto
accusandolo di non so quanti reati e conchiu-
dendo con dargli del rospo.
Io non conosco il signor Luigi Alberti; ma a
vederlo come ce lo presentano i tipi déìV Arie
della stampa ne' suoi P r e f a z i i e nella sua P o-
lemica nuovissima, mi torna a mente, non
so perché, ciò che in uno di quegli sfoghi di bizze
NOVISSIMA POLEMICA. 305
municipali che rallegrano e confortano di quando
in quando la nostra unità nazionale, fu detto
de' fiorentini: che sono, cioè, i cinesi d'Italia.
O mia bella e gloriosa città, o mia città cara e
infelice, dove le pietre sono tanto eloquenti e cosi
piene d' inni, e il vino è generoso, sereno, raz-
zente di salute e di vigore e d' arguzia e di estro
come un coro d' Aristofane, e le rose fioriscono
d' ogni mese con tale una dolce soavità di colori
e di effluvi che paiono cantare un' elegia di Mi-
mnermo, e gli olivi hanno cosi fantastica varietà
di tinte su i colli in mezzo ai cipressi, e i laureti
hanno ombre e bisbigli divini al tramonto, quando
anche l' Arno, il brutto e sudicio fiume, diventa
splendido sotto il sole, tutto superbo d'illuminare
a porpora e oro una distesa di monumenti che
paiono fatti per un popolo di eterni giovani quale
può averlo imaginato Sofocle o desiderato Pla-
tone; o mia bella e gloriosa città, perdonami; ma
oltre i lumaconi che sbavano pe*tuoi roseti, oltre
le vipere che lingueggiano sotto i bianchi tuoi
marmi, tu nutri, dentro il nuovo cerchio daziario
del Peruzzi, tu nutri, o mia cara città, dei cinesi.
Questi cinesi pensano: — Noi siamo i soli che
sappiam parlare, — e non imparano a scrivere:
— Noi siamo dalla natura e dalle circostanze ar-
tistiche educati al bello, — e non imparano a leg-
gere: — Noi siamo i discendenti di Dante, del
Petrarca, del Boccaccio, del Machiavelli, di Miche-
langiolo, di Galileo, — e non fanno nulla. E se
Carducci. 4. 20
3o6 NOVISSIMA POLEMICA.
qualcuno legge o scrive o fa come nelle menti
loro, di necessità vuote e inculte e rese anguste
dalla strettura delle loro abitudini, non entra che
s' abbia a leggere a scrivere a fare, Dio guardi !
Tutto quello che essi non sanno lo condannano,
nella impavidità della loro ignoranza, senza esame,
con un giudizio universale; e poi si vestono
un'aria di superba commiserazione, e poi sbotto-
neggiano, o con tracotanza prudente o con impu-
denza triviale, a motti e proverbi; e poi accen-
nano a un questurino, e — Badi un po' : quel
signore li non pensa né scrive come noi pensiamo,
senza scrivere, che sia giusto e degno pensare e
scrivere in Italia; come in Italia si è pensato e
scritto, se bene noi non leggiamo, da Dante al
Giusti : faccia un po^ il piacere, lo frughi; e' ci deve
aver rubato almeno il fazzoletto.
Tra questi cinesi, che del resto ce ne sono
anche fuor di Firenze, il più cinese di tutti a
me pare il signor Alberti, se bene egli sappia
scrivere, cioè dia a stampare. Egli se ne va per
il mondo, volevo dire lung' Arno, co' suoi bravi
mustacchi bene spioventi all' in giù, co '1 suo bravo
codino ben pettinato all' in su, co '1 suo cappello
a timpano; e porta in mano il suo ideale, un
Gesù bambino di Lucca, stoppa e gesso acre-
mente colorato, e lo chiama Dio. Passa un ga-
lantuomo affrettato per le sue faccende, e sospinto
dalla folla lo tócca, senza volere, d'un leggero
colpo nel gomito, si che il bambino tentenna.
NOVISSIMA POLEMICA. 307
Ecco il signor Alberti a sbraitare come un onesto
facchino — Va là, birbante! Tu hai ammazzato
tuo padre, hai prostituita tua sorella, insegni
a' tuoi figliuoli rubare e batter la madre! — Ma
veda, signor cinese: io Le chiedo scusa, se l'ho
disturbato: non ci ho colpa: è la folla che spinge.
Del resto, io non ho fatto né faccio quelle brutte
cose che Ella dice. — Zitto, birbante! fosti tu
che desti al Passanante il coltello per ferire il
re, e poi sei corso co '1 tuo compagno in Firenze
a tirar le bombe in via Guelfa — .
Fino a qui ho idealizzato il signor Alberti se»
condo il suo sistema. Ora, la storia.
V.
Dopo pubblicate le Postume e le Odi bar-
bare, il signor Alberti mise fuori un prefazio in
versi, con avanti un altro prefazio e con dietro
una appendice, ambedue in prosa, pagine 21 in 16°.
Nel prefazio in versi discorreva di " viltà feroce „
e d' " insensato orgoglio „, mirando particolar-
mente air autore delle Odi barbare; e anche,
mirando più in generale, discorreva di
una turba mal nota
Che incauta incede in suo delirio orrendo
Tutto irridendo.
Neir appendice in prosa citava alcune strofe delle
Odi barbare, dove le idee del Rousseau del
Gibbon e di altri più recenti su '1 cristianesimo di-
3o8 NOVISSIMA POLEMICA.
rimpetto alla virtù civile e al sentimento umano
della vita erano svolte artisticamente, e glossava
cosi: " Parole vuote di senso, perché sono la
negazione viva e palese d' ogni verità storica e
filosofica contro la idea cristiana iniziatrice della
civiltà moderna „ ; non glossava, com' era il caso,
anche per la grammatica, la glossa sua, ma sem-
plicemente seguitava imputando 1' autore dei versi,
che egli cosi " togliesse alle coscienze dei gio-
vani la responsabilità di certe intime ribellioni
alla morale imparata fin da bambini all' ombra
dell' amore materno „ ; come se la morale in una
società, per non dir altro, di cui sono tanta parte
politica ed economica gli isdraeliti, dipenda dalla
divinità di Gesù creduta o no. (Notino bene al-
cuni lettori: a dispetto del mio nome ebraico, la
mia famiglia è latina e cattolica dalle più lontane
origini). Nel prefazio in prosa il signor Alberti
anche diceva: " Se poi vi fosse qualcuno che,
ritenendo il contrario, credesse combattermi, come
oggi suole [il signor Alberti per conto suo com-
batte la grammatica], colle armi indegne dell'in-
sulto e del ridicolo, lo sappia fin d' ora : io non
accetto polemiche nel campo sereno dell' arte,
oltre i confini segnati dal reciproco rispetto „.'
Io non gli risposi nulla. Il Guerrini, anch' egli
assalito con le solite armi, gli rispose alcune gen-
tilezze. Bene! Pubblicate che furono le Nova
Polemica, nelle quali a punto si possono leg-
gere quelle gentilezze del Guerrini, il signor
NOVISSIMA POLEMICA. 309
Alberti dà a stampare una Polemica novis-
sima coi soliti versi che vanno ognuno per
conto lorO; più piccoli e più lunghi, come tanti
montoni e pecore sbandate, e con una prefazione
dove le ragioni in prosa vanno a conto loro
anche peggio che i montoni e le pecore de* versi.
Mi provo a raccogliere quelle randage be-
stiuole. 11 signor Alberti discorre presso a poco
cosi. — La tolleranza è bella e buona, ma e* è
un limite a tutto. Quand' uno mi dà uno schiaffo,
io reagisco; e faccio bene per rispetto alla di-
gnità umana. (Parentesi. Io non nego che il si-
gnor Alberti possa avere in vita sua ricevuto
degli schiaffi; ma quanto al reagire, se allude
alla Polemica novissima, io mi concedo di
ricordargli V utile avvertimento dell* assennato scu-
diere air ultimo dei paladini, le cui imprese contro
i mulini a vento finivano con una fiocca — ahimè,
ideale cavalleresco! — di bastonate). Ora — se-
guita il signor Alberti; e parrebbe da vero che
qualcuno 1' avesse bastonato, tanto strilla — voi,
" sotto il pretesto delle cresciute libertà „, vi
servite della penna come d' un pugnale : voi ci
vorreste morti, perché non vogliamo piegare il
capo alle vostre matte teorie : voi, in arte, in
filosofia, in politica, in tutto, volete rovesciata e
distrutta ogni cosa; e rovesciate senza edificare;
e a rovesciare e distruggere tutto quanto resta
ancora d' antico voi reputate necessario il delitto ;
lo reputate il mezzo unico e meglio efficace. E per
3IO NOVISSIMA POLEMICA.
ciò deturpate l' arte, che di per sé è morale in
quanto è bella; e dell* arte cosi deturpata vi ser-
vite a sovvertire ogni onesto principio di mora-
lità; ve ne servite come di un vino fatturato per
ubriacare i reluttanti, e ubriachi spingerli inconscii
al delitto; ne fate uno specifico di cantaridi per
eccitare i giovani a popolare le suburre.
Cosi, ma un pò* peggio, " nei confini segnati
dal reciproco rispetto „, il signor Alberti : e' è,
come sentite, del comico. Se non che il signor
Alberti è anche filosofo; non, come il MoHère,
epicureo, ma idealista. Egli protesta:
Non ci venite a dire che in arte non ci sono né veristi né
idealisti. Non confondiamo gli ebrei coi samaritani. Giacché
si ha a parlar chiaro, diciamo le cose come stanno. E senza
tanti rig-iri di parole, senza tanto lusso di frasi e di concetti
espressi a balzi e senza costrutto, procuriamo di afferrar la
questione per la gola: e la questione st^ì (sic) in questo: nelle
tendenze diverse: avete millanta ragioni da vendere. E lo
confesso e lo proclamo io pure a voce alta. Infatti noi idealisti
(state attenti e tenetelo bene a mente) ci serviamo dell'arte
e dei suoi mezzi a idealizzare tutto ciò che è vero, ma bello:
perchè in quello vediamo riflessa la immagine vera, per quanto
astratta, di un tipo ideale e sovrasensibile che è Dio, aspira-
zione eterna della coscienza umana. Voi vi servite deU' arte e
dei mezzi a idealizzare il vero, anche brutto; in quanto è la
negazione di quel tipo astratto e sovrasensibile che è vita e
ragione della nostra scuola vecchia.
Ah si? Dunque gì' idealisti si servono dell'arte
€ de' suoi mezzi a idealizzare tutto ciò che è vero
ma bello? Dunque per voi il vero non è propria-
mente il vero? anzi ci sono due veri, il vero bello
NOVISSIMA POLEMICA. 3II
€ il vero brutto? E il vero bello lo distinguete per
questO; che ci vedete riflessa la imagine vera, per
quanto astratta, di Dio tipo ideale? E, cosi, ri-
dealizzate quello che è già ideale? E discorrete
cosi di filosofia? E fate di cotesti versi? Me ne
sa male pe '1 vostro Dio. Si, fate di cotesti versi,
e respingete tra i reprobi, che idealizzano il vero
anche brutto. Eschilo, per esempio, e Dante e
Shakespeare. " Non confondiamo gli ebrei co' sa-
maritani „, Eschilo, Dante e Shakespeare può darsi
non siano nostri, perché noi siamo troppo piccini.
Ma vostri? vostri, no, no, no, non sono, per tutto
il vostro arcadico Dio! Perché io non credo che
voi crediate che Dio rifletta la imagine sua, per
esempio, in " Taide la p.... con l'unghie m.... „
Ora, se Dio non si riflette in quella signora.
Dante è un poeta verista, che idealizza il vero
anche brutto. Se poi ci si riflettesse, allora anche
lo Stecchetti sarebbe un poeta idealista : o perché
Dio, che si riflette nella Taide di Dante, non
avrebbe a riflettersi nelle Emme e nelle Caroline
dello Stecchetti, che almeno sono più pulite?
Il signor Alberti ha " afferrato „, com' egli si
esprime, " la questione per la gola „. Questo
carabiniere del buon gusto, del buon costume e
specialmente del buon senso, merita una me-
daglia al valor militare. Ha agguantato un pas-
serotto.
312 NOVISSIMA POLEMICA.
VI.
Non giudichi il lettore da questa agguantatura
male riuscita: il signor Alberti in critica è pur
sempre un buon poliziotto, miglior poliziotto di
certo che filosofo. Nel lavoro poetico dei tre o
quattro scrittori recenti, che amici e nemici de-
nominano con un po' d* improprietà e con maggior
confusione la scuola del verismo, egli odia, de-
nunzia, accusa le tendenze ; co '1 laccio del qual
vocabolo barbaramente elastico accalappia le ma*
nifestazioni e i sintomi non tutti belli della vita
sociale d' oggigiorno, che resultano da quella
poesia a punto perché quella poesia intende a
rappresentare tutto il vero, anche quello dove non
c'è pur troppo né meno un micolin di Dio; gli
accalappia, dico, e li presenta a' suoi lettori in
quel fascio di vituperii che ho riferito più sopra.
Eccone un altro esempio. Il Guerrini nel pro-
logo della Nova polemica dice — Voi che
rimproverate i veristi di non saper fare altro se
non all' amore, v' accorgerete un giorno se sotto
il verismo c'era soltanto l'oscenità — ; dice, e
tra gli altri, stampa, intitolandolo alla signorina
Vera Zassoulich, un canto Justitia, nel quale, ri-
voltato a vedere certe infami iniquità sociali, esce
gridando.
Io che pur soglio lacrimar di pietà
de' vati su le carte,
^r
NOVISSIMA POLEMICA. 315
io e' ho in petto il gentil cor del poeta
se me ne manca l'arte,
che piango insino gli scordati eroi
d' Ilio combusto e domo,
io non ho senso di pietà per voi,
non ho viscere d'uomo,
€ segue rappresentando con cruda efficacia i sel-
vaggi sogni di vendetta degli affamati e degli
schiacciati. Non ci voleva altro! Ecco i veristi
divenuti nihilisti, attizzatori degl' incendi, Siìzza.-
tori delle stragi, provveditori delle forche, ana-
creonti della ghigliottina. Ecco Olindo Guerrinì
" acceso d' ira violenta contro quanti possiedono
ancora qualcosa al sole.... „. Ma, poliziotti del-
l' anima mia, Olindo Guerrini ha per V appunto
qualche cosa al sole, vedete, e qualche altra cosa
al coperto ; e non è uomo da levarsi il gusto, per
dar ragione alle vostre bizze accademiche, di
guidar le plebi invidiose (come le chiamate voialtri
co' 1 vostro eufemismo retorico) in casa sua, con-
clonando — Cittadini, mettete in atto la giustizia
si nelle cose come nelle persone : fatemi il piacere
di spogliarmi ; e poi, per onesta baldoria, bruciate
la casa, questa casa che fu murata con 1* ossa
de' vostri figliuoli morti di fame, stemperate nel
sudore delle vostre fronti e nel sangue dei vostri
cuori; e poi su le fumanti macerie fucilatemi, o
cittadini, perch' io sono, come vedete, un grasso
borghese — . Quello che il signor Alberti chiama
tendenza del poeta è il fenomeno storico del mo-
314 NOVISSIMA POLEMICA.
mento sociale che si rivela nell' opera sua, perché
quest* opera è schietta e vera. La poesia, per noi,
anche con la minima importanza che oggigiorno
ha, è pur sempre un* emanazione dello spirito col-
lettivo, che, accolta o tutta o parte, secondo le
capacità, dallo spirito individuale, è da questo
modificata e plasmata secondo le disposizioni e
attitudini sue. Le tendenze perquisite in noi sono
anche, diversamente, secondo le diverse disposi-
zioni, secondo i momenti diversi, espHcate nella
poesia di Vittore Hugo, in quella di Heine, in
quella dello Shelley e del Byron, in quella dello
Schiller e anche, me lo perdoni sua olimpica
Maestà, del Goethe.
Ma torniamo, torniamo a noi. La questione
sociale e' è o non c'è? Altro se e* è, risponde il
signor Alberti, che anzi pare ne ammetta pili
d* una ; e scrive :
Insomma pur troppo i signori conservatori conservano da
un pezzo nei loro scrigni tutte quelle ricchezze che essi avreb-
bero dovuto impiegare a vantaggio del prossimo loro. Qtwd
superest date pauperibtis, 'ita scritto da secoli nel Vangelo,
ma di questo i ricchi né si ricordarono né si ricordano; epperò
il proletario macilento e stremato si duole, e in nome di Cristo
grida a voce alta implorando pietà e lavoro. Ma dal dolore
profondo che suscita nell'animo di tutti gli onesti cotesto grido
disperato (in cui si accoglie forse la più seria questione so-
ciale dei tempi moderni) a desiderare di essere il boia in per-
sona per.... ecc.
Il resto a me non importa. Il signor Alberti non
ha capito o non ha voluto capire V idealizzazione
NOVISSIMA POLEMICA. 315
(perché anche i veristi ideaUzzano) che il Guer-
rini fece a modo suo di cotesto " grido dispe-
rato „, e con ciò mostra di non essere né filosofo
né critico.
Bene. Sia poeta ; e giacché una tendenza V ha
anch' egli, come chiaramente dimostra nei periodi
sopra recati, ed è una tendenza ragionevole, la
estrinsechi in poesia; e faccia de' versi migliori
di quelU d' Olindo Guerrini. Cosi si combatte, cosi
si vince, cosi si ha ragione.
Forti eran essi, e combattean co' forti.
Ma fin che il signor Alberti fa de' periodi rimati
con questa eloquenza e sintassi qui,
Tu, che di nuovo accesa
Vuoi la prisca virtù nei forti petti,
Tu che d'alti concetti
E di poesia civile
Ritempri il nuovo stile.
Tu, dell' idea cristiana
Che fu germe fecondo
E ravvivò nel mondo
La fratellanza umana,'
Nemico di te stesso,
Avverso a ogni progresso,
Tenti indarno tarpar delle grand' aìi
L' irresistibil volo;
fin che fa de' settenari cosi,
E di poesia civile
Della poesia novella....
Di tue deitadi ignude....,
3l6 NOVISSIMA POLEMICA.
fino che maneggia il linguaggio proprio e figu-
rato cosi;
E a coglier l'ardua mèta;
fin che scrive sta con l'accento su Va) il signor
Alberti potrà esercitare benissimo il moralista o
il poliziotto^ ma non ha il diritto di farsi avanti
in letteratura tra persone che si sono lavate le
mani nella grammatica.
VII.
Altri perdoni al signor Alberti le innocenti vel-
leità dei suoi pistolotti; triviali in tutto, compresa
r ortografia. Io no. Questa volta, giacché il signor
Alberti è recidivo, io per amore, non dell' arte
(qui non è quistione d'arte), ma dell'educazione
del popolo italiano, io, " non afferro per la gola „,.
ma piglio gentilmente per un orecchio questo si-
gnore, e, come facevano gli Spartani dell'ilota
ubriaco, lo espongo a spettacolo dei giovani; ac-
ciò ne imparino un salutare abominio per l'acca-
demia dei dilettanti scribacchiatori, che contami-
nano, che guastano, che rendono contennenda la
nostra generazione. Ahimè! ogni italiano, per
quanto rivoluzionario, per quanto realista o ve-
rista o nuUista, per quanto anche bohémien, ha un
indigeno caprifico d'Arcadia nel cuore. E io vorrei
sterpare tutti quei caprifichi, a rischio anche di
strappar qualche cuore. Torniamo al signor Al-
berti, che tengo preso gentilmente per un orec-
NOVISSIMA POLEMICA. 317
chic, e finiamola. Ah, signore idealista! Ella dunque
fa e dedica ai Poeti veristi una delle solite etopee
del solito rospo, " rettile immondo, animalaccio
vile „, che " vive sdraiato sulla riva della morta
gora „, che " gracida „, che " schizza il ve-
leno a chi lo tocca „, che incanta il solito usi-
gnuolo ecc. ecc., e poi si vanta,
.... È più di mille
Secoli che nel mondo
Nessun t'ha ricordato,
Brutto rettile immondo.
Non è vero, signor Alberti: Ella ménte. Io Le ri-
cordo che il povero calunniato e torturato animale
fu rivendicato da Vittore Hugo in versi immor-
tali, dove r asino almeno ha pietà di lui; Le ricordo
che io nell'Intermezzo, pubblicato dello scorso
febbraio nella Rassegna Settimana/e di Firenze,
introdussi il rospo vero, il rospo innocente, il
rospo utile, a giudice, guardi un po' Lei, de' poeti
idealisti. Passa, ne' miei versi, un poeta idealista
facendo e dicendo sue scede alla natura e al
proprio io:
Due rospi intanto all' orlo della strada.
Benefici e modesti,
Séguitan liberando la contrada
Dagl'insetti molesti.
L'un dice: Nelle età che molte e lente
Ci passar su '1 groppone,
Vedestu mai, fratel mio paziente.
Un tal fior di cialtrone ?
PER LA POESIA
PER LA LIBERTA
DISCORSO
AGLI ELETTORI DEL COLLEGIO DI I.UGO
NEL BANCHETTO OFFERTOMI IL 19 XOVK.MRRE 1876
Dal Lavoro di Lugo 26 novembre 1876;
in C o n f e s s i 0 n 1 e Battaglie di G. C l'i ser.,
Roma, Sommaruga, 1883.
Elettori del collegio di Lugo!
Cittadini di Romagna!
opo che con pochi uomini egregi
di tutte le sezioni di questo col-
legio mi ebbero offerta la candida-
re tura di vostro rappresentante ai
parlamento della nazione, dopo che io V ebbi ac-
cettata, io né a voi mi rivolsi, né mi feci più
vivo con loro. Credei debito a me, credei degno
di voi, non frapporre né meno V ingerenza d' una
parola tra me e il vostro vóto. Il mio nome, sia
detto con la m^odesta franchezza conveniente ad
uomini liberi, significava pur qualche cosa; e per
ciò a punto quei vostri cittadini ve lo avevan
proposto. Il mio manifesto politico era ne' miei
scritti, qualunque sieno; nella mia vita, che, oscura
e solitaria com' è, è pur nota a bastanza a Bolo-
gna e alla Romagna. Io volli lasciarvi pienamente
Carducci. 4.
21
322 PER LA POESIA
e puramente liberi nel vostro giudizio. Ora che
la maggioranza del collegio mi ha giudicato ed
elettO; io vi ringrazio (applausi).
Io vi ringrazio, o elettori di Lugo, e sono su-
perbo che mi abbiate giudicato degno di rappre-
sentare un collegio di questa nobile Romagna,
e propriamente il collegio che mandò alla Con-
stituente romana Giuseppe Mazzini (vivissimi ap-
plausi). Da che toccai queste terre, da che nelle
fronti calme e pensose degli uomini scampati alle
prigioni e alle galere del papa, nel dolore rasse-
gnato e glorioso delle vedove e degli orfani di
quelli che caddero intorno alle mura di Roma, di
quelli che morirono per la mannaia dei preti o per
il piombo degli stranieri, ebbi ammirato la storia
della guerra da voi guerreggiata continua con la
peggior tirannia che abbia mai contristato l'Italia;
da che nella baldanza dei giovani, i quali si ver-
sarono come torme di leoni in tutte le patrie bat-
taglie, io vidi splendere con empito primitivo tanto
entusiasmo d'ogni alta cosa, tanta ardenza di vita
nuova; da allora il mio cuore fu sempre con voi,
o Romagnoli (applausi). E vidi in questo popolo
tanta saldezza di persuasioni e di propositi, e un
cosi maturo senso civile, e la disposizione alla
vita pubblica e la serietà del prendervi parte e
r istinto della discipHna cosi innato e comune e
gagliardo, che mi apparve giustissimo il giudizio
di Massimo d' Azeglio, l' Italia aver molto da spe-
rare e da contare su questo popolo; e credei e
E PER LA LIBERTA. 323
credo che voi portiate degnamente un avanzo
del nome di Roma, e molta parte della virtù
quirite in voi sapravviva (applausi). Oltre che,
nelle ricordanze della mia vita io ritrovo un
vincolo tutto intimo che a voi mi congiunge,
un sentimento che, non senza vanità forse, mi
porta ad amare la Romagna, come mia patria
seconda, come patria elettiva. Tra voi la mia fa-
coltà poetica si rafforzò e tentò un secondo e più
largo volo. Quando sentii i cuori della gioventù
romagnola battere con simpatia d' assentimento
a' miei sensi, quando vidi dagli occhi loro riper-
cuotermisi raddoppiata la luce de* miei fantasmi;
io ripresi fiducia, e dissi trepidamente a me stesso:
Anch' io son poeta (vivissimi applausi).
Ahi! ma la poesia a punto è la macchia ori-
ginale, che, secondo i nostri avversari, mi esclude
dalla casta politica. Veramente i nostri avversari
sono d' accordo con Platone, che primo bandi i
poeti dalla repubblica. Ma quella repubblica pla-
toniana era più lirica d' un' ode di Pindaro ; e a
Platone poi pareva che non disconvenisse ai filo-
sofi il disputare su '1 logos nelle corti dei tiranni
di Sicilia. Solone, per contro, componeva elegie,
e pure, potendo farsi tiranno della patria, la do-
tava in vece d' una constituzione che fece la gloria
e la grandezza di Atene. Gittandoci in faccia,
come qualificazione di inabilità politica, il nome
di poeta, gli avversari mostrano di non conoscere
altra poesia che quella d'Arcadia. E non ricordano
324 PER LA POESIA
qual tempera di cittadino fosse Giovanni Milton,
che fece con potenti scritti 1' apologia del popolo
d' Inghilterra contro le usurpazioni dello Stuart.
E non ricordano che la Germania mandò a di-
scutere nel parlamento di Francfort le leggi della
sua nazionale riconstituzione Ludovico Uhland,
per il merito di avere gloriosamente cantato le
tradizioni e le aspirazioni del suo popolo e dotta-
mente illustrato la storia della poesia tedesca;
e il nobile vecchio poeta fu pari alla sua gloria
e degno della fiducia della patria, sopportando
magnanimo i maltrattamenti della violenza mi-
litare che disciolse gli ultimi avanzi dell' Assem-
blea nazionale. E non ricordano, che, caduta
neir ignominia, per gli errori di un dottrinario,
Francesco Guizot, la monarchia borghese di
Luigi Filippo, un poeta, il Lamartine, oppose
per intiere giornate la sua eloquenza ed il petto
ai furori di piazza, e, a rischio della fama e
della vita, salvò almeno Y onore francese e la
bandiera tricolore. E in Italia, per aver fatto dei
versi che non dispiacciono, ci si vorrebbe to-
gliere i diritti civili! in Itaha! (bene). Presento
quel che mi possono opporre gli avversari — Ma
voi non siete né il Milton né l'Uhland né il La-
martine. — Né voi, che bandite i poeti dallo
stato, siete Fiatoni (ilarità e applausi).
Ma lasciamo gli epigrammi e le recriminazioni.
Voi, o elettori, confidandomi il mandato del col-
legio di Lugo, avete dimostrato: che in Italia,
E PER LA LIBERTA. 325
dove Dante Alighieri ragionò e propugnò nel me-
dio evo la indipendenza dello stato dalla chiesa,
dove Ludovico Ariosto governando una provincia
sapeva infrenare i banditi e scrivere al principe
— Finch' io starò in questo ufficio non sono per
avervi amico alcuno se non la giustizia — ; in Italia,
dove Vittorio Alfieri inaugurò il risorgimento della
nazione, e Ugo Foscolo, svelando con severo in-
gegno e cuor securo e pietoso le piaghe della pa-
tria, fondò quella letteratura civile che fu gran
parte della nostra rivoluzione; voi, dico, o elet-
tori, avete dimostrato che in Italia seguire quei
grandi esempi, amare un' arte che fu gloria della
nazione, amarla quanto la patria, e coltivarla con
mente fedele, con animo disinteressato, con liberi
spiriti, con mani pure, non è tal colpa per cui
un uomo abbia a soffrire la diminuzione civile
(applausi replicati).
L' onorevole presidente del Consiglio dei mi-
nistri nel discorso di Stradella invocava con no-
bili e italiani sensi l' Italia intellettuale, l' Italia
dello spirito; e affermava che un paese non vive
solamente di armi, di pane, di milioni, ma si an-
che di anima e di pensieri. Voi, elettori di un col-
legio ricco e fiorente d' agricoltura e d' industria,
eleggendo a vostro deputato un cultor delle let-
tere, affermate lo stesso : affermate che l' Italia
oggi, come una volta, vuole lo svolgimento in-
tellettuale insieme con 1' economico, la industria
e il commercio insieme con 1' arte, il benessere
326 PER LA POESIA
non senza T aureola della poesia. Io per me son
poca cosa: ma il vostro vóto, qui, tra la tomba
di Dante e la culla di Vincenzo Monti, è nobile,
è degno. Io ve ne ringrazio, o elettori: non per
me, non per me, vi ripeto ; ma per i nostri grandi
scrittori, per i miei immortali maestri, che sono
i geni della nazione, i quali voi, nel nome di un
umile discepolo, avete italianamente onorato {ap-
plausi prolungati) .
Se non che, fosse sola la mia colpa la poesia !
Altra ve n' è, e peggiore. Mi accusano repub-
blicano. Si, io sono repubblicano (scoppio di
fragorosi e replicati applausi). E repubblicano
divenni non per rapimento giovanile né per di-
spetti eh' io avessi co '1 governo dei moderati. Che
anzi del governo dei moderati io personalmente
non avrei che a lodarmi. Mi chiamarono, ancor
molto giovine, senza che io ne li chiedessi, a in-
segnare in una delle prime università: mi diedero
anche, sempre non richiesti, altre onorificenze e
commissioni didattiche: un solo torto mi fecero,
e ben lieve, e scusabile in tempi di tanta conci-
tazione di partiti. Né prima io avevo partecipato
ad associazioni politiche, né vi presi parte poi,
per un pezzo. La mia gioventù fu tutta negli
studi; e nella solitudine degli studi nacque, crebbe,
si afforzò in me la idea repubblicana. Il sessanta
mi lasciò democratico monarchico, il sessanta-
sette mi trovò repubblicano. Ma la repubblica mia
non è la repubblica per sorpresa: anche questa
E PER LA LIBERTA. 327
potrebbe sorgere a certi momenti, ma non è la
più desiderabile ai veri repubblicani; come troppo
difficile a mantenere e ad assodare. E né meno
è la repubblica oligarchica d' un partito anche ot-
timO; e tanto meno la repubblica dittatoria d' una
fazione. Non per questo io credo che quella della
repubblica sia solamente questione di forma: la
repubblica, per me, è T esplicazione storica e ne-
cessaria e r assettamento morale della democrazia
ne' suoi termini razionali : la repubblica, per me,
è il portato logico delF umanesimo che pervade
oramai tutte le instituzioni sociali (applausi). Tale
essendo per me la repubblica, è naturale che essa,
questo governo di tutti per tutti, deve uscire dalle
persuasioni della maggioranza; e dai vóti della
maggioranza io T aspetto e spero non s' abbia a
dir col poeta,
Qual di te lungo qui aspettar s'è fatto!
Per intanto io credo con Giuseppe Mazzini, cosi
grande filosofo come repubblicano, che " corra
obbhgo più ai repubblicani che ad altri d'insegnare
il rispetto al dogma della sovranità popolare e
di sottomettersi „. E anche credo che sarebbe
consiglio non buono, se dessimo ascolto a coloro
i quali (sono sempre parole di Giuseppe Mazzini,
che li riprovava già nel Pensiero ed Azione)
" avrebbero voluto, che, serbandoci puri da ogni
concessione all' errore e gittato anatema sopra a
ogni cosa che non fosse repubblica, ci fossimo ri-
328 PER LA POESIA
tratti ravvolti nel manto della nostra fede, e, come
Trasea Peto usci del senato, fossimo usciti del-
l' arena dei fatti isolandoci ed aspettando giustizia
dal tardo avvenire „. Lo stato, la patria, è cosa
di tutti; e un partito come il repubblicano, che
tanto sangue ha sparso per questa patria, che
questo stato ha cementato con tanta abnegazione
( io parlo dei maggiori di me ), non può, non vuole,
non deve abbandonare la patria e lo stato a posta
di tutti gli altri (vivi applausi). Rivendichiamo
il nostro posto nella rappresentanza nazionale,
in cui tutti debbono entrare gli elementi della
vita politica del paese (vivi applausi). E noi
siamo vivi; e anche noi abbiamo il diritto dì
vedere questo stato come lo maneggiate, e dir-
vene il parer nostro e farlo valere (reiterati ap-
plausi). So che uomini venerandi, e da me vene-
rati, tengono altra opinione, e credono che la
parte repubblicana non possa entrare in parla-
mento senza perdere dell* integrità sua, pur non
conferendo nulla al vantaggio della patria. Io non
intendo di lasciare la mia fede su la porta della
Camera dei deputati, e dentro la Camera spero di
non dimezzarmi (bravissimo, viva Carducci). Ma
se anche dovessi nella pericolosa prova soccom-
bere, se anche il mio partito avesse a respin-
germi nel giorno della vittoria, io saluto ancora,
con l'anima piena di fede, il nostro ideale: — Ave,
respublica, morituri te salutant — (prolungati
applausi).
E PER LA LIBERTA. 329
Dissi onde vengo: dirò a che vado. Non starò
a dirvi che in parlamento io non sarò mai per
sanare co'l mio vóto a qualsiasi ministero enor-
mezze come quelle di Villa Ruffi (bene! ap-
plausi); voi potreste rispondermi — Sciagurato!
chi ti ha dato il diritto di tenere noi e te in cosi
picciol conto da proclamarci in faccia che tu non
sarai un cortigiano di tirannidi? (benissimo) — -
E né pure vi farò un'esposizione di tesi economi-
che e finanziarie: sono troppo recente di poesia^
e voi non mi credereste: ma certe questioni vi
prometto di studiarle, prima di dare il mio vóto.
Le riforme tributarie; amministrative, politiche,
enunziate nel discorso di Stradella, mi paiono
serie ed oneste, e tanto più con le esplicazioni
che un autorevole capo della sinistra intende re-
carvi. Ma non sono, come lo stesso onorevole De-
pretis riconosceva, le colonne d' Ercole: le colonne
d' Ercole oramai sono men che un mito, una meta-
fora. Io voterò le riforme, in quanto le riforme im-
portano libertà, e nella libertà è il vero progresso*
Libertà, libertà anzi tutto : T Italia è assetata di li-
bertà; libertà in cui ha da svolgersi la vera sua
vita, economica, industriale, comunale, regionale^
politica, intellettuale; libertà, per cui tanto com-
battemmo; libertà, che tante volte ci fu promessa^
e non ancora la conseguimmo intera e sincera:
libertà, di cui siamo degni (frenetici applausi),
E tanto più alzo la voce per la libertà quanto più
della libertà si fece in queste provincie iniquo
33° PER LA POESIA
Strazio (applausi). Io vi prometto che, se sarà il
caso, reclamerò dal governo tra noi eguale trat-
tamento per tutte le persone, per tutte le opi-
nioni, per tutte le associazioni che si affermano
e si dimostrano onestamente e legalmente (ap-
plausi). Riforme dunque, in quanto le riforme ci
devono portare maggior libertà, e nella libertà ha
da svolgersi il progresso. Ma il progresso per me
è illimitato. Nessuno venga a dirmi: si avanzerà
fin qui. Che ne sa egli? che ne so io? Io solamente
auguro che il nostro progresso sia degno delle tra-
dizioni e dei fati d' Italia ! (fragorosi applausi).
\J ItaHa! Mi hanno accusato di averla chiamata
vile! E non ricordarono (se non fosse troppo in-
nocente ed ingenuo appellarsi alla memoria degli
avversari), e non ricordarono, per un verso solo,
le molte pagine di prosa nelle quali vendicai da
ingiustizie di stranieri e di nostri l' Italia, l' Italia
che io salutavo cara e santa patria (applausi
vivissimi). Quando un governo italiano lasciò
operare su' petti di cittadini italiani le meraviglie
dei chassepots (applausi), quando delle zolle in-
sanguinate di Mentana e delle fosse dei nostri
martiri certi moderati non seppero farne altro che
tanti banchi di barattieri (applausi), allora io
chiamai vile la patria: ma non la patria di Dante,
di Mazzini, di Garibaldi; non la patria dei glo-
riosi, non la patria dei martiri; si la patria di
quei signori (vivi e prolungati applausi). Oh,
non è da cercare nella parte nostra chi disami
E PER LA LIBERTA.
331
la patria. Noi possiamo giurare, che non diremo
mai noi : Perisca o s' avvilisca la patria, purché
trionfi la parte. All' Italia, dunque, alla immor-
tale, alla gloriosa Italia, o elettori, io v' invito di
bere : all' Italia ! (applausi prolungatissimi)
l
ETERNO FEMMININO REGALE
Dalla Cronaca Bizantina del 1» gennaio 1882:
nell'opuscolo Eterno Femminino regale diG. C
Roma, Sommaruga, 1882;
e in Confessioni e Battaglie diG. C, ser. 3»,
Roma, Sommaruga, 1884.
RA un venerdì sera; e per il de-
^ serto scenario dei portici di Strada
Maggiore frizzava acuto il presen-
timento della neve che le nuvole
con immensa malinconia andavano meditando nel
cielo.
Tornavo a casa in compagnia di Luigi Lodi,
e si discorreva dell' entusiasmo lasciato nella po>
polazione di Bologna dalla visita del Re e della
Regina. Questa popolazione che fece cosi fiera
solitudine per la città e in Italia con lo sciopero
del marzo 1868; che fu cosi ostentatamente fredda
al passaggio, pochi mesi dopo, de' due novelli
sposi di casa Savoia, con quanta espansione cor-
diale e con quale rumorosa famigliarità non si
era ella accalcata intorno al passo dei novelli
Reali! Inutile negare il fatto o girarvi intorno-
33^ ETERNO FEMMININO REGALE.
con arzigogoli miseri e con isbocconcellamenti
dispettosi: cosi fu. Né le ragioni mancavano:
splendida tra le prime T eterno femminino, la
maestà della Regina: tra le seconde, la ministe-
rialità di Benedetto Cairoli.
E passammo a discorrere della risposta che il
Fanfulla del giorno (15 novembre 1878) aveva
fatto a una mia lettera.
Questa la lettera.
Bologna 10 novembre.
Onorevole signor direttore
della Patria,
Il Fanfulla d' oggi, riportando, dal giornale
che V. S. dirige, alcuni particolari del mio in-
conU'o con le Maestà del Re e della Regina,
aggiunge commenti che può parere opportuno
rettificare.
Il Fanfulla scrive: " Il professore Carducci
avrà veduto che il soldato di Villafranca può
essere giudicato in un modo un po' più benevolo
di quello che ha usato qualche volta una musa
imbizzita „.
Se la " musa imbizzita „ volesse retoricamente
significar me, io pregherei il Fanfulla a ricercare,
non pur ne' miei versi, ma nelle prose, un pe-
riodo qualunque, nel quale sia espresso un giu-
dizio qualunque su Umberto principe o su Um-
berto re.
ETERNO FEMMININO REGALE. 337
Ancora : il Fanfulla accenna all' " onore della
patria e a quello della croce di Savoia, che brilla sul
petto di qualche grande poeta lealmente accolto „.
Ecco: se quel grande poeta fossi io (me ne sa-
prebbe male per il qualificativo di " grande „), nes-
suno ha veduto mai brillare su'l mio petto nessuna
cosa. Io non potei, con mio dispiacere, accettare
r insigne onorificenza della croce del merito ci-
vile, per ragioni che possono essere valutate da
chi mi conosce. La mia rispettosa rinunzia fii
mandata all' onorevole Ministro dell' interno nel
luglio passato.
Sono dolente di intrattenere il pubblico con
queste che possono anche parere dichiarazioni o
vanterie volgari. Ma la colpa non è mia. E se
Vostra Signoria vorrà pubblicarle come rettifica-
zioni, le ne sarò molto grato; come le sono, con
vera stima, ecc. ecc.
Il Fanfulla aveva risposto: " Confesso la mia
ignoranza: non sapevo che il prof. Giosuè Car-
ducci avesse ricusato la onorificenza della croce
di Savoia al merito civile, perché non s' è letto
su nessun giornale : sapevo che la croce di Savoia
egU l'ha cantata; e non mi pareva che l'averla
cantata fosse una ragione per rifiutarla. È vero
che al mondo si può perdonare tutto, meno il
proprio torto „. E alludendo a una mia frase un
po' brusca. Né aspetto né vorrei cortesie dai ne-
mici, conchiudeva " Io amo di essere diverso da
Carducci. 4. 22
338 ETERNO FEMMININO REGALE.
lui; e di fargli ciò che in linguaggio giornalistico
si chiama appunto la cortesia di accogliere e di
stampare la sua rettificazione. Sono realista, non
sono repubblicano, e imito, dove si può, il mio
re che è stato cortese di una croce a un nemico
che non la vuole „.
Ora di tutto ciò che di me può parere mi
addolora solo e anzi tutto V apparire ingrato e
disobbligante a chi m' abbia fatto segno di bene-
volenza e di attenzione. E veda, dicevo a Luigi
Lodi, se io non fossi io, cioè il poeta (come mi
chiamano) della democrazia, poco mi ci vorrebbe
per mostrare a questi monarchici borghesi come
uno può esser cavaliere senza aver mai a' suoi
giorni portato una croce.
Faccia un' ode alla Regina — dice Luigi Lodi.
Chi sa? — rispondo io.
La mattina dopo gittai giù le prime strofe
dell' ode alla Regina d' Italia.
IL
E ora un passo a dietro, a Ravenna.
A Ravenna, dove io era il 6 giugno, per
r inaugurazione del monumento al Farini, rappre-
sentando la Deputazione storica romagnola insti-
tuita già dal dittatore, rividi, per la prima volta
da che ministro. Benedetto Cairoli. O, a dir me-
glio, egli primo vide me; e per la sala affollata
di deputati, di senatori, di generali, mi corse in-
ETERNO FEMMININO REGALE. 339
contro con quella sua bella faccia serena com^
un maggio di Lombardia, e mi abbracciò; e mi
strinse forte le mani guardandomi in viso, e mi
batté su le spalle; e trattomi in disparte, e chia-
mati a sé gli onorevoli Baccarini e Zanardelli,
tutti tre mi furono a dosso a mezza spada perché
mi rendessi alla croce del merito civile di Savoia.
Io risposi: ci pensassero su dell'altro, e vedreb-
bero che si per me si per loro il meglio sarebbe
non ne far nulla.
La sera al tardi rividi gli onorevoli Baccarini
e Zanardelli in un ritrovo di progressisti a cena
Con i progressisti di Ravenna si può anche an-
dare a cena, senza pericolo che vi appioppino su
le spalle un macigno di discorso politico o vi
facciano scattare in faccia qualche macchinetta
elettorale. E li in mezzo a tutti quei progressisti,
di colore anzi che no acceso, e taluno anche, se
volete, repubblicano largo a cintura, il Zanardelli,
con quel suo fare tra dinoccolato e nervoso, co-
minciò a movere il discorso su la grande pene-
trazione d'ingegno e la squisita coltura di S. M.
la Regina. E poi, con un atto di testuggine ri-
traendo il collo per entro le spalle quasi per non
parere d' esser lui, seguitò della molta stima in
che ella aveva i versi del Carducci e specialmente
le odi barbare. A questo, riallungando il collo e
volgendo in qua e in là la testa fine e la fronte
irrequieta, come un baco da seta che vada al
bosco (chiedo perdóno all'autore della riforma
340 ETERNO FEMMININO REGALE.
elettorale^ a cui sono con molta stima affezionato;
ma per la fedeltà della descrizione mi abbiso-
gnano questi paragoni ), prese a raccontare come
la Regina ricevendolo a udienza lo salutasse coi
versi;
Lieta del fato Brescia raccolsemi,
Brescia la forte, Brescia la ferrea,
Brescia leonessa d' Italia, ecc.
e poi rifacendosi da capo gli dicesse a mente
tutta l'ode. E qui mi guardava con que' suoi occhi
sbadatamente interrogatori.
Io sorridevo. E il ministro seguitava come la
Regina conchiudesse — Ah si, il.... è da vero il
primo dei nostri poeti viventi — (qui il ministro
è proprio mallevadore lui di tutto). Al che egli
rispose con democratica cortigianeria — Non so
se a tal giudizio rimarrebbero contenti altri, ma
non io oserò contraddire alla Maestà Vostra — .
Poi si passò ad altro ; ma su V uscire egli mi
disse cosi sottovoce — In somma la Regina vor-
rebbe che voi aveste la croce del merito civile.
La mattina di poi, avviandomi con alcuni amici
alla Pineta, ci scontrammo nelle carrozze che
traevano i ministri alla stazione. E Benedetto
Cairoli allungando e agitando le braccia tra i
molti saluti mi gridò — Dunque è fatto — ; e il
rumore delle ruote trascorrenti si portò il resto
e mi tolse il rispondere.
Io non ci pensava già più, quando di li a un
mese mi venne il decreto di nomina con gli sta-
ETERNO FEMMININO REGALE. 34I
tuti deir ordine, ove è fermato V obbligo di giu-
rare fedeltà al re e ai successori, ponendo, ingi-
nocchiato, la mano destra su gli evangeli, tra due
testimoni, dinanzi al ministro dell' interno, che ha
da firmare il verbale del giuramento.
Rinunziai; dico vero, con dispiacere; coM di-
spiacere di dover apparire, non essendo, scono-
scente a chi mi tenne non indegno d' una nobile
onorificenza, fatta più insigne dall' assentimento^
che richiedesi a conferirla, degl' illustri signori se-
denti nel consiglio dell' Ordine.
III.
Si che, quando il rettore dell' Università, un
giorno prima che i Reali d' Italia arrivassero a
Bologna, chiamatomi a sé, cominciò a sollecitarmi
che andassi anch' io alla visita di ossequio, tanto
più che la Regina aveva mostrato desiderio di
vedermi, ecc. ecc., 1' egregio rettore e amico se-
nator Magni non ebbe a spendere parole molte.
Che la Regina volesse proprio veder me, mi
parve un tiro degli- amici ministeriali per battermi
nel debole ed espugnarmi. Ma io, che tante regine
aveva cercate e osservate e studiate nella storia
neir epopea e nel dramma, era ben io curioso di
vedere una regina viva e vera e compiacentesi
della poesia e delle arti.
Intanto i Reali vennero. Erano di quelle gior-
nate quali il novembre non ne dà, credo, che a
342 ETERNO FEMMININO REGALE.
Bologna. Fango in terra e fango in cielo: stil-
lanti, grondanti, chiazzati in tetra umidità i tetti,
le case, i muri: cinereo e grigio tutto: e dalla
monotona deformità delle nubi filtrava un'acque-
rugiola lenta, fredda, ostinata^ che non si vedeva
e immollava V anima, che non si sentiva ed em-
pieva le contrade di una poltiglia mobile e ap-
piaccicaticcia, lubrica e attaccaticcia e impacciante,
come eloquenza parlamentare: erano di quelle
giornate che vien voglia di dar delle pedate alla
gente in cui uno si abbatte, pensando — Guarda
quest'altro fango che anche si move — . In quel
brutto vespero dunque del 4 novembre la confu-
sione dell' ingresso per via Galliera fu strana. Il
popolo avea rotte e turbate le file e mescolati i
colori officiali: erano aiuole di bianco e di tur-
chino, di rosso e di nero, e sprazzi e barbagli
d' oro e d' argento dagli elmi dai galloni dalle
decorazioni dai gioielli per mezzo una gran massa
oscura, una materia uniforme, che moveva mo-
veva mugghiando e trasportando con sé ca-
valli e carrozze, e ufficiali e signore, e, al di
sopra, le selve delle bandiere crollantisi e bar-
collanti quasi a un vento invisibile. Io era tra
la folla che si pigiava innanzi dai portici; e in
quella confusione la figura della Regina mi passò
avanti come un che bianco e biondo, come una
imagine romantica in mezzo una descrizione ve-
rista, potente se volete, ma che non finisce mai
ed annoia.
ETERNO FEMMININO REGALE. 343
La sera, nella piazza di San Petronio e nella
attigua del Nettuno, lo spazio era, al paragone,
più libero e V uomo poteva girare. E quando, on-
deggiante per la fosca storica piazza la varia-
zione dei bengala, uno dei finestroni di quel pa-
lazzo di mattone s'apri, e chiamati dagli applausi
il Re e la Regina comparvero al verone, e dietro
loro lo splendore della sala impallidiva in faccia
alla gran tenebra e al fantastico alternare e me-
scolare dei tre colori, verde, candido, rosso; quei
due giovani, allora, risalutanti con effusione di
gentilezza il popolo salutante, da quel luogo ove
i legati pontificii s' affacciavano a spargere le be-
nedizioni per la morte e le maledizioni e le im-
piccagioni e le taglie e tutti i danni e i disonori
della servitù e della viltà su la vita e su V Italia,
doverono, io lo sento, toccare il cuore ai credenti
di fede nelle sorti della monarchia unite alle sorti
della patria.
Io guardai la Regina, spiccante mite in bianco,
bionda e gemmata, tra quel buio rotto ma non
vinto da quelli strani bagliori e da quel rumore
fluttuante. E una fantasia mi assali, non ella fosse
per avventura una delle Ore che attorniano il
carro di Febo trionfante per 1' erte del cielo, e
che attratta da un mago nordico nella notte del
medio evo e imprigionata in quel castello di preti
si affacciasse a vedere se anche venisse il mo-
mento di slanciarsi a volo dietro il carro del dio
risalente. Ma la torre intanto del Potestà in quel-
344 ETERNO FEMMININO REGALE.
r emisfero di tenebre superiore si coronava di
luce; e io che ho pratica grande con quei monu-
menti, e ne so, massime di notte, tutti i segreti,,
vidi Enzo re di Sardegna ritto in piedi tra' merli,,
senza spada e senz' elmo, appoggiata la sinistra
su lo scudo con 1' aquila nera dell' impero e la
destra su '1 petto ; e salutava e sorrideva, biondo
anch' egli e mestamente sereno. San Petronio ta-
ceva; se non che quando un insolente riflesso di
bengala osava spingersi a quell' ardua sua fronte
ciclopica, cui questa grande intelligenza borghese
vorrebbe appiccicare la maschera bianca d' una
facciata, pareva corrugarsi di dispetto: il vecchio
gigante ingrugnato pensava ancora al suo piccolo
comune trionfatore di re e di duchi, e non cono-
sceva o non volea riconoscere.
Gli entusiasmi andarono crescendo e vampeg-
giando più accesi il giorno appresso. Ai fuochi
d' artifizio e di frasi della gente per bene e sen-
nata io non credo e non bado o rispondo con
motti. Ma l'entusiasmo degli artieri, dei lavoranti,
dei facchini, l' entusiasmo delle donne e dei ra-
gazzi, mi trascina, mi eleva, m'inumidisce qualche
volta gli occhi. Ecco, io dico, questa parte men
ragionevole e men eulta, affermano, della razza
umana, della razza in cui il primo e naturale re-
ciproco saluto tra due individui che si riscontrino
nella selva primitiva o nella selva civile è Io ti
voglio mangiare o Io ti voglio ingannare) questa
parte men ragionevole e men eulta di un popolo
ETERNO FEMMININO REGALE. 345
il quale da molti e molti secoli crede (le ecce-
zioni confermano) e crede che oltre e sopra la
fisica tutto al mondo è impostura e ciarlataneria^
che bisogna per altro mantenere pur con la forza
per amore delle armonie sociali; ecco, questa
parte della razza feroce, questa classe del popolo
scettico, si espande ancora spontanea ad amare
e credere e godere qualche cosa fuori di sé, che
a lei non giova; l'ideale. Perché, non mi si esca
fuori con la servilità, con la viltà, con V igno-
ranza e con simili frasi fatte. Quei facchini, quei
ragazzi, quelle donne, che sperano o che si ri-
promettono da que* due giovani per sé ? D' esser
fatti ministri, come voi, repubblicani e papalini e
borbonici dell' altr' ieri ? Di avere una prefettura o
un posto di canattiere, uno spaccio di tabacco o-
una cattedra d' economia? No. La monarchia fu ed
è un gran fatto storico, e rimane per molta gente
una idealità realizzata: e il popolo acclama in
que* due giovani a punto una idealità realizzata.
Di due sorte re ha la gente ariana: il conntng-
germanico, quello che è forte ; il rex latino, quella
che regge : nel primo, che vien da Dio, il popolo
adora chi l'ha fatto forte, Dio: nel secondo, che
procede dall' elezione, il popolo vede e riconosce
la forma e il fine del reggimento, la legge e la
patria. Ecco tutto. Altre idealità dovranno rea-
lizzarsi: va bene. O, più tosto, altre realità avver-
ranno, che idealizzarsi non devono: va benissimo;
e vedremo.
346 ETERNO FEMMININO REGALE.
Queste cose io filosofo peripatetico andavo
rimuginando sotto i portici del Pavaglione tra la
folla. E mi fermai al negozio Zanichelli. Dove
indi a poco entrò un signore, vecchio oltre gli
ottanta/ e dimandò volgendosi attorno — Ma dove
sono i repubblicani? In Italia repubblicani non ce
ne può essere; o, se ce n' è, non sono italiani — .
Io guardai quel vecchio signore; poi volgendomi
a. un giovine dissi: Ecco, io son uno; e al di là
delle Alpi credono che io sia italiano.
IV.
E la mattina di poi andai ad ossequiare i Reali
d'Italia. La mia bambina piccola mi disse — Sa-
iutami la Regina — . Ella ha nome Libertà; e
V augurio fu buono.
Aspettando nelF anticamera la nostra volta
(l'anticamera era divisa in due spartimenti, in
uno gli ufficiali, nell'altro gli abiti neri) io pen-
sava meco stesso come io sapessi benissimo che
fosse un re. Il re è un uomo allevato, vestito,
decorato, stipendiato, nominato e salutato in una
maniera convenuta, al quale anche si presta da
alcuni o da molti leale e onorata obbedienza come
da altri si fanno vili e perfide adulazioni. Ma in
fondo il re è un essere governato, il quale dee
moversi a posta di questo e di quello e cedere a
esigenze e imperii anche impersonali. Sua Maestà
è il più governato dei sudditi di Sua Maestà. Io
ETERNO FEMMININO REGALE. 347
per me non vorrei esser re, né meno per pro-
clamar la repubblica. Ma il mondo quale ce lo
siamo fatti o lo concepiamo e lo percepiamo noi
è tutto fittizio: il discendente di Prometeo, ani-
male plastico e artistico per eccellenza, fa suoi
idoli diversi, e li vagheggia e adora o li vitupera
€ batte, perché rapito all' ammirazione o all' odio
della sua idea nella imagine figurata dimentica
che è opera sua, o perché 1' ha fatta a posta per
isfogarci sopra i suoi capricci.
E seguitavo discorrendo tra me e me. — Io
non ho per casa Savoia le antipatie, per esempio,
della democrazia lombarda, suggellate in pagine
di fuoco da Carlo Cattaneo. Degli Estensi non ce
ne sono più, e furon tutti mediocri: i Medici anche
finirono come doveva finire una famiglia di ban-
chieri illustrata dalla porpora e non dalla corazza:
né la corazza deterse i Farnesi dalla macchia
originale d' esser figli di preti. Dunque, se il po-
polo italiano, persuaso non si potesse unificare la
patria senza la monarchia, chiamò i Savoia, che
colpa ne hanno essi, amico Alberto Mario? L'am-
bizione storica e politica della dinastia sarebbiesi
probabilmente hmitata all'Italia superiore: noi, noi
stessi, Giuseppe Mazzini a capo, la tirammo nel-
r Italia centrale : il generale Garibaldi le conquistò
il mezzogiorno e la conquistò al mezzogiorno.
Ora, grazie a quella tendenza plastica dell' ani-
male umano a realizzare personalmente le sue
idealità per poterle efficacemente adorare o vitu-
348 ETERNO FEMMININO REGALE.
penare a sua posta^ il capo della famiglia di Sa-
voia rappresenta V Italia e lo stato. Dunque viva
r Italia ! Valletti; alzate la portiera, e passiamo a
inchinare il Re.
E la Regina ancora, V eterno femminino.
Ella stava diritta e ferma in mezzo la sala; e
il Re, da parte, verso una finestra, passava, par-
lando accalorato e con forti strette di mano a
tutti, di cerchio in cerchio. Benedetto Cairoli,
raccolto nel suo giubbone di ministro, s' era ri-
parato in un canto; e di li, tal volta passando la
mano destra sui mustacchi memori di una ca-
stanea sincerità e su la bocca sorridente, come
per accarezzarsi, tale altra appoggiando il gomito
sinistro a una colonna, mandava intorno intorno
lo sguardo scintillante di contentezza.
Diffuso era per gli occhi e per le gene
Di benigna letizia, in atto pio,
Quale a tenero padre si conviene.
E avea ragione. Cotesto superstite d'una famiglia
di cittadini morti tutti per la patria; cotesto cit-
tadino che aveva il solo, assai curioso per un
soldato, titolo di dottore; cotesto uomo che cam-
minando zoppica un po' sempre e si appoggia vo-
lentieri al braccio di chi lo avvicina; Benedetto,
in fine, come noi lo chiamiamo; in quei giorni
sorreggeva egli e portava e presentava agli en-
tusiasmi del popolo d' Italia la più antica famiglia
reale d' Europa, due giovani, cui la morte improv-
ETERNO FEMMININO REGALE. 349
vìsa del padre, forte ed esperto nocchiero, avea
slanciato d' un tratto nel difficile mareggio del
regno e della popolarità.
La Regina intanto, senza darsene l' aria e non
essendo nella sala né men Y apparenza del trono,
troneggiava ella da vero in mezzo la sala. Tra
quelli abiti neri a coda, come si dice, di rondine,
e quelle cravatte bianche, ridicole insegne d' egua-
glianza sotto cui r invidia cinica del terzo stato
accomunò l' eroe al cameriere, ella sorgeva con
una rara purezza di linee e di pòse nell' atteg-
giamento e con una eleganza semplice e vera-
mente superiore si dell'adornamento gemmato si
del vestito (color tortora, parmi) largamente ca-
dente. In tutti gli atti, e nei cenni, e nel mover
raro dei passi e della persona, e nel piegar della
testa, e nelle inflessioni della voce e nelle parole,
mostrava una bontà dignitosa; ma non rideva né
sorrideva mai. Riguardava a lungo, con gli occhi
modestamente quieti, ma fissi; e la bionda dol-
cezza del sangue sassone pareva temperare non
so che, non dirò rigido, e non vorrei dire im-
perioso, che domina alla radice della fronte; e
tra cigUo e ciglio un corusco fulgore di aquiletta
balenava su quella pietà di colomba. Delle soavità
di colomba, de' sorrisi più rosei, ella, la discen-
dente degli Amidei e di Vitichindo, è cortese al
popolo: in palazzo è regina. E se io le dissi Si-
gnora, non è vero che mi correggessi — Volevo
dire Maestà, non sono avvezzo a parlare con le
350 ETERNO FEMMININO REGALE.
regine — . Cotesto è un madrigale ignorante. Come
al Re nel vocativo si dice Sire, cosi alla Maestà
della Regina d' Italia si dice Signora, come Se-
fiora a quella di Spagna e Madame a quella di
Francia quando ce n' era. Cortigiani delle gazzette,
imparate almeno le prime creanze del servaggio.
V.
Tali le impressioni e le ricordanze che dì Sua
Maestà la Regina d' Italia io riportai e conservai
da palazzo. Dove gentiluomini tutti croci e co-
lonnelli tutti oro mi furono d'intorno con grandi
carezze, e mi lisciavano il pelo come a una belva
oramai addomesticata. Alcune signore di Bologna
indi a pochi giorni mi mandarono gentilmente
chiedendo volessi scrivere certo indirizzo alla
Regina: dovei rispondere che sentivo mancarmi
ogni abilità per tali componimenti.
L'ode l'avevo fatta di pensieri e di sentimenti
raccolti in piazza e per istrada.
Levavo la mano dall' ultimo verso, quando la
mia figlia maggiore m' entrò nello studio, annun-
ziando tutta spaventata — A Napoli hanno tirato
al Re — . Ecco un de' danni — pensai tra me —
delle idealità realizzate.
Quando l'ode, non a pena pubblicata, si ven-
dea per le strade, incontrai sotto il Pavaglione
Aurelio Saffi, e mi disse — Avete fatto cosa
degna in tutto della gentilezza italiana — . Ma
ETERNO FEMMININO REGALE. 35 1
un repubblicano^ che per la repubblica ha com-
messo molta prosa lombarda e molti spropositi
di storia, mandavami in vece a scuola di dignità
dal Foscolo, il quale pur trovò modo a cantare
" Madre del popol suo „ la principessa straniera
moglie al visconte viceré francese, che diceva
degli italiani non temere né meno le pugnalate
alle spalle, e che egli, il greco-italico, paragonava
ad Ajace. Qualche onorevole in una memorabile
tornata della Camera riferi quell'ode a merita
politico di Benedetto Cairoli, che avesse amman^
sato e conciliato la democrazia nel suo torbido
poeta. Il corrispondente della Perseveranza in vece
affermava che " al suono delle odi alcaiche gli
evoluzionisti volevano seppellire la monarchia „.
Io credo avesse ragione un signore che mi scri-
veva da Conegliano per cartolina postale " Il
sottoscritto, avendo letto la di Lei ode alla Re-
gina e non avendola capita, ne desidererebbe la
traduzione in prosa. Anticipa i ringraziamenti „.
I più, in fatti, dal repubblicano fra' Ghisleri al
gesuita padre Zocchi, " per la penna che sa le
tempeste „ intesero la penna d' oca o vero questa
povera cannella con la punta d* acciaio che finisce
di vergare queste pagine tristi. Ah vii maggio-
ranza! A te il suffragio universale, e tante scatole
di penne di ferro quante servano a scrivere al-
trettanti romanzi che t' appestino e muoian con
te. Ma strofe a te, mai. Sciagurato il poeta che
pensi a te ! Da lui la strofe alata rifugge su penna
352 ETERNO FEMMININO REGALE.
d' aquila o d' usignolo, cantando Odi profanum
vulgus et arceo.
Appendice inserita nel fascicolo Eterno femminino regale
estratto dalla Cronaca bisantina.
Essendo nella pubblicazione che di questo scritto
fu fatta la prima volta nella Cronaca Bizantina del
1° gennaio 1882 (anno 2.°, numero i) occorsi alcuni
piccoli errori di stampa, V autore mandò al diret-
tore di quel periodico la lettera seguente:
Sig. Dr. Pertica.
Tant' è. Un' altra volta mi mandi a rivedere
le prove di stampa. Ella e Papiliimculus sono i
più sicuri correttori di stampe ( perdóno, oltre gli
altri loro meriti grandi ) che io mi abbia conosciuti.
Ma io amo vedere il mio pensiero rispecchiato
ferocemente e volgarmente nelle bozze. Allora
co '1 freno della memoria ragionante fermo gli er-
rori della penna, che sa, se non le tempeste, le
scórse.
Il re che è stato cortese di una croce a un
nemico che la vuole „ (pag. i, colonna 4). Cosi,
secondo la stampa o la mia cattiva copia, direbbe
il Fanfulla. Ma Fanfulla non fu tanto spiritosa-
mente maligno. " Che non la vuole „, disse Fanfulla.
ETERNO FEMMININO REGALE. 353
" Di due sorte ne ha la gente ariana „ (pag. 2,
col. 3). Di che? " Idealità realizzate „ sarebbero
troppo poche da vero. Re, re, o monarchi. Sono
troppo pochi, forse?
" O piuttosto altre realità avverranno che rea-
lizzarsi non devono „ ( pag. 2, col. 3 ). Come poco
furono svegli i giornali cortigiani, Corriere della
sera ecc., a non capire quanto profitto potevano
trarre da questa contraddizione tautologica ! " Idea-
lizzarsi „, caro dottor Pertica, " idealizzarsi „. Noi
(io m' intendo, e queUi che pensano come me) non
abbiamo né avremo bisogno di realizzare il vero
e il giusto.
" Io per me non vorrei essere re „ (pag. 2,
col. 3). Va bene, anche perché non potrei. Ma
aggiunga " né meno per proclamar la repubblica „.
Questo pensavo, e questo la mia penna omise.
" Proclamar la repubblica „ io a fra' Ghisleri
e compagni? Li mando in seminario.
P. S. Tra i compagni di fra' Ghisleri, in-
tendiamoci, non metto già lo scrittor del Dovere.
Nobile animo, a cui, pur non convenendo in tutte
le conseguenze con lui, è onorevole e caro ri-
cordarsi amicamente.
La Lega della Democrazia nel numero 34 del
3 febbraio 1882 pubblicò parte di una lettera in-
dirizzata dal Carducci ad Achille Bizzoni a pro-
Carducci. 4. 23
354 ETERNO FEMMININO REGALE.
posito di un articolo che questi inseri nel numero
6-7 gennaio del giornale La Provincia Pavese,
Possiamo, per consentimento dell* illustre au-
tore, dare intiera quella lettera.
Bologna, 26 gennaio 1879.
Caro amico,
Ieri F altro a notte tornai da Roma, ieri trovai
tra altri giornali La Provincia Pavese, oggi ti scrivo»
Tu avevi il diritto di giudicare, secondo ti det-
tavano r anima e la ragione tua, T ultimo mio
scritto; non avevi il diritto, permettimi, di repu-
tarmi leggero e bugiardo e ingiusto e cattivo tanto
quanto mostri avermi reputato pigliando per al-
lusivo a te un periodo di quello scritto.
Non ne avevi il diritto. Quando mai io ho
trattato male, pur leggermente, alcuno che mi ab-
bia voluto del bene, e che io pochi mesi prima
abbia abbracciato e con effusione d* animo salu-
tato amico?
Hai avuto anche il torto. Come potevi ricono-
scerti in quel " repubblicano che per la repubblica
ha fatto molta prosa lombarda „ ? Tu per la re-
pubblica hai fatto, o parmi, qualche cosa di più e
di meglio.
Arcangelo Ghisleri, sùbito dopo l'ode alla Re-
gina, scrisse nella Rivista repubblicana — tra altre
molte contro di me — queste parole : Che direbbe
lo sdegnoso cantore delle Grazie nel vederle oggi
ETERNO FEMMININO REGALE. 355
buttate in pascolo alla folla come un istrumentum
regni?
Nella ristampa, che a questi ultimi giorni fece
di queir articolo nel Preludio di Milano, il Ghisleri
— furbo — omise quel periodo.
Lo riconosci ora il " repubblicano che per la
repubblica ha fatto molta prosa lombarda e molti
spropositi di storia „ e che mi mandava a scuola
di dignità dal Foscolo?
Non d' altro mi lagno o mi giustifico. Non ho
tanto orgoglio da appellarmi al tempo^ ma ho dalla
forte anima il coraggio di esser sicuro del fatto mio.
Addio dal cuore.
E già che il signor Bizzoni ristampò nella
Provincia Pavese altra lettera che il Carducci
ebbe a mandargli a proposito di un giudizio su
r ode alla Regina inserito nel numero 2 del pe-
riodico La Bandiera (gennaio 1879), cosi la ri-
stamperemo anche noi, assensiente Y autore.
Il quale, per altro, avverte che quella lettera
era tutta confidenziale, né destinata pur con lon-
tana intenzione alla pubblicità ( lo attestò anco il
Bizzoni). Ciò a scusa della intonazione — che
può parer leggera — onde sono dette certe cose.
Bologna, 19 gennaio 1879.
Caro Achille,
Tu farai benissimo a non rinnegare lo sciolto
del Foscolo, per tante ragioni che tu sai da te.
356 ETERNO FEMMININO REGALE.
e per una anche che piace ed è utile a me, che
il verso sciolto fu il primo de' metri barbari. Che
cosa aveva da fare nel '500, quando da prima ap-
parve, lo sciolto con le ottave, con le terzine,
con le canzoni, coi sonetti?
A te, perché sei tu, perché cioè, sei Achille
Bizzoni, cavaliere, benché tu non abbi o disde-
gni le croci, e poeta, benché io non conosca dei
tuoi peccati in verso, e, forse a punto per code-
sto, poeta, che che tu ne dica, per quanto tu per-
seguiti, o Saulo, i poveri metri barbari ; a te dun-
que Achille Bizzoni, cavaliere e poeta, io dirò le
ragioni, che a nessun altro ho voluto dire, del-
l' avere inviato la strofe alcaica a far tre giri
augurali intorno a una bionda testa incoronata.
Prima di tutto, la Regina amava e sapeva a
mente le odi barbare : si compiaceva di ripetere al-
l'on. ZanardelU 1' ode alla Vittoria di Brescia. Ora,
per un poeta, che una gentile e eulta signora lo
approvi è delle massime soddisfazioni. Se questa
signora non fosse stata la Regina d' ItaHa, nes-
suno mi avrebbe recato a colpa di dimostrarle la
mia gratitudine. Ora, perché ella è regina e io
sono repubblicano, mi sarà proibito d' essere gen-
tile, anzi dovrò essere villano?
In secondo luogo, fu la regina che persuase
il ministro dell' interno a darmi 1' onorificenza del
merito civile di Savoia. Io rinunziai a quella ono-
rificenza e all' annessa pensione. Dopo ciò mi
pareva di poter essere libero di mostrare alla
ETERNO FEMMININO REGALE. 357
Regina che io le ero riconoscente anche di quella
che per lei era la somma dimostrazione di stima.
In terzo luogo, la Regina è una bella e gen-
tilissima signora, che parla molto bene, che veste
stupendamente: ora non sarà mai detto che un
poeta greco e girondino passi innanzi alla bel-
lezza e alla grazia senza salutare.
Addio, caro Bizzoni. Ti ringrazio e ti stringo
la mano.
RAPISARDIANA
Neil' opuscolo Carducci e Rapisardi.
Bologna, Zanichelli, 1881;
in Confessioni e B a 1 1 a g 1 i e di G. C, l<i serie,
Roma, Sommaruga, 1883.
■'C/7X>
jAn i^r<s.
ARIO Rapisardi nel suo poema Lu-
cifero, pubblicato del 1877 a Milano
pe* tipi del Brigola, al canto xi ha
questi versi (parla Dante Alighieri).
Sento tra una venal turba chiamarmi ,
Chi d'alma vuoto e d'onestà digiuno
Libertà grida, e il vulgo aizza all' armi;
E chi in aspetto di plebeo tribuno
Giambi saetta avvelenati e cupi,
E fuor di sé non trova onesto alcuno;
Idrofobo cantor, vate da lupi,
Che di fiele briaco e di lièo
Tien che al mio lato il miglior posto occupi.
IL
In una nota dell'elegia Al T Aurora, pub-
blicata nel Fanfulla della domenica il 2 gen-
362 RAPISARDIANA.
naìo 1881 (anno iii, n. i), Giosuè Carducci av-
vertiva:
II canto degli Aria fu a posta ritessuto con parecchie ri-
membranze degl' inni vedici, dei quali il professore Kerbaker
va da qualche tempo pubblicando versioni metriche, dove non
so se più ammirare la larga e forte dottrina o la corretta e
varia facilità e felicità del verseggiare italiano. Di coteste
versioni, e dell' altra pur bellissima in ottava rima d' un epi-
sodio del Mahabhàrata, è un torto della critica giornaliera
essersi a pena avveduta; ma essa ha tutti i suoi gusti occu-
pati in certi arcadici impiastri che qualche scempio e ignorante
versaiuolo vorrebbe gittar su '1 viso di qualche poeta latino.
E nel frammento Dalle mie memorie, che fu
del pari pubblicato nel Fanfulla della domenica il
6 febbraio 1881 (anno iii, n. 6), preludeva a
certi suoi bozzetti con queste parole:
Notino i lettori: io non fo come certo arcade cattivo sog-
getto, il quale rovescia il brodo di lasagne de' suoi versi sciolti
su chi gli ha fatto del bene, e poi protesta che la sua ribal-
daggine è poesia, e della poesia non rende .conto; io dichiaro
anzi che i miei bozzetti, fatti e da fare, sono tutti dal vero.
IIL
Luigi Lodi a' primi di marzo pubblicava il suo
libro Lorenzo Stecchetti; ricordi, prose e
poesie (Bologna, Nicola Zanichelli, mdccclxxxi).
In proposito della strana confusione d' idee che
mostravano le scuole poetiche in Italia nella po-
lemica su '1 verismo, scrisse :
Gli idealisti giurarono di seguitare — essi! — la scuola del
Manzoni, del Parini, di Dante; affermarono che singolarmente
RAPISARDIANA. 363
il loro maestro era proprio l'autore dei Promessi Sposi!
E i realisti lo credettero, e, per non essere da meno, giu-
rarono di derivare da Orazio, dal Boccacci, dall' Ariosto, e
più modernamente dal Praga, dal Tarchetti, dal Rovani e
sino dal Guerrazzi^ sino — non parrebbe vero — sino da
« queir arcade cattivo soggetto » che innaffia col brodo lungo
de' suoi versoni frugoniani la tomba di Tito Lucrezio Caro
(pag. xii-xiii).
IV.
Nel numero 117, anno ii, del periodico Capitan
Fracassa, il 28 aprile 1881, leggevasi la seguente
corrispondenza da Catania:
PER RAPISARDI
Catania, 25 aprile.
D' una importante dimostrazione è stata ieri spettatrice
Catania. La scolaresca di tutta questa città, specie universi-
taria, giustamente risentita, dalla guerra plateale, che, da
qualche tempo, e più di questi giorni, vien fatta al poeta Ma-
rio Rapisardi, ha voluto dare unanime prova di affetto al suo
illustre professore. Atteso sotto il portone dell' università al-
l' ora della lezione, venne accolto e acclamato entusiastica-
mente, fra le grida di: viva Rapisardi, abbasso i detrattori l
L'egregio studente Maiorana, in nome dei giovani tutti,
disse brevi ma belle parole, le quali, oltre a una solenne pro-
testa contro le calunnie, includevano eziandio le più ampie ras-
sicurazioni all' illustre uomo che i giovani si sarebbero tenuti
fortunati, ov' egli, in qualunque modo, avesse voluto giovarsi
di loro.
Il Rapisardi. commosso, mentre ringraziava di quella prova
d' affetto la gioventù studiosa, aggiungeva che, se alle dia-
364 RAPISARDIANA.
tribe contro il Lucifero aveva risposto col Lucrezio,
anche ora unica risposta ai suoi detrattori sarebbe stata la
serena concezione del Giobbe.
Applausi frenetici interruppero e coronarono tanto le pa-
role del Maiorana, quanto quelle del Rapisardi. ..
Sin da quando Mario Rapisardi cominciò a porre su solide
basi la sua riputazione di poeta e letterato insigne — gl'in-
vidiosi, di cui in Italia, grazie a Dio, non s'è patito mai di-
fetto, presero a malignare sulle intenzioni puramente arti-
stiche del poeta catanese Ma, impotenti da soli, pensarono
bene e riuscirono a trarre dalla loro un nome illustre, all' om-
bra delle cui grandi ali essi si rifugiarono per tentare a ogni
costo r impresa demolitrice.
Fu alto egregiamente dignitoso, per l'illustre traduttore
di Lucrezio, il coprire di silenzio e d'oblio il ringhiare impo-
tente dei botoli.
Non cosf parve ai nostri giovani, i quali — fieramente ge-
losi della fama di colui eh' è rappresentante e palladio delle
loro idee generose — si credettero in dovere di prt)testare.
E in questi sensi appunto era concepita la dimostra-
zione....
Un'ultima parola, di cui sento forte bisogno.
Fa pena, davvero, il vedere ingegni robusti, le più cospi-
cue personalità poetiche che vanti oggi l'Italia, guardarsi in
cagnesco, senza una ragione al mondo. Voglia il cielo che si
muti registro.
Etxèo.
V.
Il 4 maggio 1881 (anno i, n. 4) il Don Chi-
sciotte, periodico bolognese, pubblicava la lettera
RAPISARDIANA. 365
che segue di Giosuè Carducci al direttore di
Capitati Fracassa.
Bologna, 3 maggio 1881.
IH. sig. Direttore del Capitan Fracassa,
Solamente ieri sera mi fu mostrato il n. 117
(28 aprile scorso) del giornale diretto dalla S. V.,
e notai in una corrispondenza da Catania ( 25
aprile) due periodi, nei quali, a giudizio di tutti
e mio, si accenna a me.
Si dice da prima, che gì' invidiosi del signor
Mario Rapisardi, impotenti da soli, pensarono bene
e riuscirono a trarre dalla loro un nome illustre^
all' ombra delle cui grandi ali essi si rifugiarono
per tentare a ogni costo V impresa demolitrice.
Io non so chi siano e che facciano gli invi-
diosi del signDr Rapisardi; so che io per me non
ho ali né grandi né piccole e non sono né il
perdono di Dio né un papero, da accettar tutti
e tutto e da lasciarmi trarre dalla sua a questo
e a quello. Quando, più anni fa, il signor Rapi-
sardi lasciò stampare in non so più qual gior-
nale, credo il Bersagliere, certe sue terzine ove
metteva Dante a dirmi villanie, due miei cono-
scenti bolognesi, lettori, non letterati, mi mostra-
rono il giornale; e un amico me ne scrisse dì
Toscana. Queir amico è, per sua disgrazia, un
letterato; ma vive, non in Firenze, in Livorno, e
non aveva né ha ragione veruna d' odio o d' invi-
366 RAPISARDIANA.
dia al signor Rapisardi^ che egli né conosceva ne
conosce, come né meno io lo conosco, se non di
lontano, indicatomi. Dopo ciò e dopo allora, nes-
suno facente professione, o fortemente indiziato,
d'invidia al signor Rapisardi, mi parlò mai di lui;
nessuno fece mai pur dalla lontana un piccol
cenno di mettermi su contro lui.
Si dice da ultimo : Fa pena // vedere
ingegni ecc. ecc. ecc.... guardarsi in cagnesco, senza
una ragione al mondo.
Non so se il signor Rapisardi guardi in ca-
gnesco me: io per me non guardo in cagnesco
né lui né nessuno : io dico quello che penso. E i
miei pensieri possono non piacere al signor Ra-
pisardi e a' suoi amici; ma fondati su ragioni
sono, su molte ragioni, su troppe ragioni, esteti-
che e morali. Per un esempio. Il signor Rapi-
sardi, pubblicato che ebbe il Lucifero, dove tra
molte altre cose figurano quelle terzine nelle
quali Dante evocato da uno spiritista si diverte
a dir villanie in lingua e grammatica accademica
a quelle persone che il signor Fanfani e il signor
Rapisardi avevano antipatiche; il signor Rapi-
sardi, dico, pubblicata che ebbe la sua polimetra
policroma polimorfa e polisensa rapsodia, me ne
mandò una copia, con i suoi complimenti in una
carta da visita. Ecco: sentirmi trattar male per
bocca di Dante non mi aveva fatto né freddo né
caldo: ho la pelle dura, signor Direttore: i miei
connazionali cominciarono a incoraggiarmi con
RAPISARDIANA. 367
ingiurie e sciocchezze^ che avevo vent' anni : è
giustissimo che i bene intenzionati seguitino sino
alla fine. Ma vedermi arrivare il libro con de'com-
plimenti dall' autore mi fece male, non per me,
per lui. Ciò che io gli scrissi allora e ciò che egli
mi rispose, il signor Rapisardi lo sa; e sa ciò
che egli scrisse a me nel passato mese e come
gli risposi io.
E qui avrei finito, se non dovessi, per dile-
guare e distruggere tutte le preoccupazioni e
tutti i pregiudìzi possibili, fare ancora una di-
chiarazione. Io dichiaro per la prima e T ultima
volta, per sempre, che io non sono né il capo
né la coda di alcuna o scuola o parte o accade-
mia o consorteria. Quelli a cui fa comodo e piace
possono imaginare o vedere una scuola bolognese,
ma scuola bolognese non esiste. Ci sono in Bo-
logna degli scolari che studiano e si ritrovano
tra loro e si divertono, ma non hanno V uso, e
nessuno si permetterebbe certo d' introdurlo, di
fare dimostrazioni a favore di alcun professore i
cui libri non piacciano a qualcuno. Ci sono in
Bologna, tra quelli che leggono e scrivono, due
o tre o quattro che stampano più spesso e più
sono in vista. Questi due o tre o quattro signori
hanno la più perfetta stima gli uni degli altri,
non senza amicizia, e si vedono volentieri, ogni
due o tre mesi, qualche minuto. Del resto, ognuno
va per la sua via, co' suoi intendimenti, secondo
le sue idee. Io poi, per rimanere indipendente
368 RAPISARDIANA.
affatto e di spìrito e di cuore si nella critica sì
neir arte, mi condannai fin dalla gioventù alla
solitudine e alla segregazione, specialmente dagli
scrittori. Per ciò, soffrendo i danni della condi-
zione che mi feci, intendo goderne almeno i po-
chi e magri vantaggi: sono: fare, pensare, scri-
vere, combattere di mio moto, a modo mio, senza
rispetti ipocriti, senza vigliacche sentimentalità,
dentro i limiti, s' intende, del giusto, o di ciò che
il mio ragionamento mi dice essere giusto.
Prego dunque d' essere creduto, se dico che
nel libro di Luigi Lodi intitolato Lorenzo Stec-
chetti non lessi il periodo che concerne il Ra-
pisardi se non quando il libro era in vendita.
Ma, se non ispirai, partecipo quel giudizfo del ^
fiero e ardito critico, co '1 quale, del resto, non vo
d' accordo in tutte le teoriche e in parecchie opi-
nioni. Anche, gli devo grazie dell' aver rivelato
a chi intendessi co '1 qualificativo d' " arcade cat-
tivo soggetto „.
Il mio parere su' poemi originali e tradotti del
signor Rapisardi V avevo buttato giù di corsa,
senza risparmio di nome e cognome, in certi ar-
ticoli scritti nel febbraio dell' anno scorso per il
Fanf lilla della domenica; ma l' onorevole Fer-
dinando Martini mi pregò, per ragioni con-
venientissime, di sopprimere quelle linee. Ora
dunque.
Me, me, adsum qui feci; in me convertite ferrum,
Rutuli.
RAPISARDIANA. 369
Ma badino i Rutuli del signor Rapisardi. Dato
che essi co '1 numero e coi bollori delle loro giovi-
nezze giungessero anche a sopraffarmi/ la cagione
sarebbe della debolezza mia e non del torto che
io avessi. Sono venticinque anni che faccio il
Don Chisciotte dell' arte italiana ( e potrei, vo-
lendo, godere un mestiere più riposato e meglio
accettevole all'universale); ma ho cercato sempre
di darne e non di buscarne. Se dovessi questa
volta cadere, cadrei, avverto, come il cavalier
della Mancia sotto i colpi del barbier mascherato,
protestando per la giustizia della mia causa:
— Lucifero è un vecchio parabolano frugonesco
che ha preso le cantaridi, la bionda Ebe è una
vecchia pastorella arcade ritinta infranciosata dal
Parny. Puah!
La riverisco, signor Direttore, e La ringrazio
anche nel caso che Ella credesse di non stam-
pare nulla di questa lettera.
VL
La Stella d' Italia, periodico bolognese, pub-
blicava nel suo numero del 13 maggio 1881 (anno
IV, n. 133) la lettera seguente di Mario Rapisardi
ai direttori.
Di villa (Catania). 8 maggio 18S1.
Pregiatissimi Signori,
Dalla lettera del signor Carducci, stampata
nel n. 4 del Don Chisciotte, si rileva chiaramente
Carducci. 4. . 24
370 RAPISARDIANA.
che egli mi vuol male per certi versi satirici del
Lucifero; chC; non so con quanto rispetto a sé
stesso, ei volle credere allusivi alla sua persona.
I suoi giudizi sul conto mio son dunque fatti col
fegato e scritti con la bile : e se quelli che trincia
con ammirabile sicumera sui miei poemi possono
avere il merito singolare di farmi ridere, quelli
che avventa su la mia condotta provano^ tutt' al
più, che i suoi meschini risentimenti lo spingono
qualche volta a svillaneggiare chi lo disprezza.
Neir uno e nell' altro caso, dichiarando che
non ho tempo da perdere in simili guerricciòle,
a me giova ripetere col vecchio Eschilo, che
i vituperi
Di nemici a nemico onta non fanno.
Con perfetta osservanza mi credano
obbligatissimo
Mario Rapisardi.
VII.
Il Don Chisciotte nel suo numero del 15-16
maggio 1881 (anno i, n. 15) pubblicava il se-
guente scritto di Giosuè Carducci.
ANCORA PER MARIO RAPISARDI
! ! !
Dunque il signor Mario Rapisardi si risolve
di mandarmi a far sapere, per mezzo del perio-
dico del fu barone Mistrali, che egli mi disprezza.
RAPISARDIANA. 37 1
Troppo tardi; e imitando; e dicendo il falso.
Pare impossibile. Queir uomo non sa né può es-
sere originale e sincero né meno nelF ira.
Ristabiliamo i fatti, per amore della verità e
della dignità dell'arte: due idee e due cose, che
gli ammiratori del Lucifero starebbero freschi
se avessero bisogno di cercare in quel libro di
versi.
Io in una nota dell' elegia al T Aurora, pub-
blicata nel Fanfulla della domenica il 2 gennaio
1881, accennai agli " arcadici impiastri che qual-
che scempio e ignorante versaiuolo vorrebbe git-
tar su'l viso di qualche poeta latino „; e ad ogni
dimanda risposi poi chiaro e netto che intendevo
le versioni di Catullo e di Lucrezio fatte dal si-
gnor Rapisardi.
In un frammento Dalle mie memorie, pub-
blicato pur nel Fanfulla della domenica il 6 feb-
braio 1881, scrissi: " Io non fo come certo ar-
cade cattivo soggetto il quale rovescia il brodo
di lasagne de' suoi versi sciolti su chi gli ha fatto
del bene, e poi protesta che la sua ribaldaggine
è poesia e della poesia non rende conto „. E ad
ogni dimanda risposi chiaro e netto, che inten-
devo di certe caricature fatte dal signor Rapisardi
nel canto undecimo del Lucifero, e nomina-
tamente delle due nelle quali tutti riconoscono
ingratamente oltraggiati Angelo De Gubernatis e
Aleardo Aleardi; il secondo dei quali a me non
fu mai amico né forse benevolo; il primo, in un
372 RAFISARDIANA.
momento d' oblio, due anni fa, scrisse in inglese
e in italiano cose davvero non gentili su '1 mio
asserto verismo.
Passano, dopo quegli accenni, due mesi: ed
esce il Lorenzo Stecchetti di Luigi Lodi,
nel qual libretto, a proposito della ignoranza e
imbecillità di certi realisti italiani, è detto che ce
II' è di quelli che " giurano di derivare, non par-
rebbe vero, sino da quelV arcade cattivo soggetto
che innaffia col brodo lungo dei suoi versoni fru-
goniani la tomba di Tito Lucrezio Caro. „
Allora un giornale di Catania incominciò a
sfogarsi in invettive contro il Lodi, e anche ac-
cennò in qualche punto al Guerrini e a me, con
molta convenienza, a dir vero, anzi non senza
elogi; ma non senza lasciar capire che il malu-
more contro il Rapisardi derivava da differenza
di scuole (scuola siciliana e scuola bolognese,
proprio come nel secolo decimoterzo), che, la-
sciando da parte i libellisti, i belH ingegni era
bene s' intendessero tra loro, aiutandosi T un T al-
tro delle loro migliori qualità, e 1' altro imparando
dall' uno ; e un via uno fa due, come al solito in
queste storie.
Quand' eccomi arrivare, il 14 d' aprile, giovedì
santo, una lettera da Catania, raccomandata.
11 signor Mario Rapisardi mi apostrofava fie-
ramente co '1 voi. I suoi nemici, diceva press' a
poco, andavano ripetendo che io nelle mie Me-
morie del Fanf ulta domenicale miTdiwo a lui: egli
RAPISARDIANA. 373
mi avea fatto V onore di non credere cotesto: ma
poiché un Luigi Lodi ecc. ecc ; egli non vo-
leva prendersela con quel ecc. ecc.; che non si
vergognava ecc. ecc.: invece intimava a me di
dichiarar sùbito nel Fanfulla che io con la qualifi-
cazione di " arcade cattivo soggetto „ ecc. ecc. non
intendevo accennare a lui: altrimenti mi avrebbe
dichiarato egli in pubblico per un miserabile ca-
lunniatore ecc. ecc. Che volete? a questo punto
diedi in uno scoppio di risa. Mi pareva di ve-
dermi ritta dinanzi li su '1 tavolino co '1 dito teso
la figuretta del signor Mario Rapisardi, non quale
mi era stata mostrata a passeggiare beata e im-
pettita per le vie di Firenze, ma agitante la onda
impomatata della criniera corvina nelF atteggia-
mento di Giove tonante. E senza finire di leg-
gere racchiusi in una busta la epistola, con una
cartolina da visita nella quale scrissi quieta-
mente cosi:
■ ' - Bologna, 14 aprile 1881.
- " Giosuè Carducci con le parole arcade cat-
tivo soggetto ecc. intese accennare e qualificare
proprio il Rapisardi Mario: tornerà su l'argo-
mento quando e come gli piacerà, sempre per
la rivendicazione della moralità letteraria e del
buon gusto; senza attendere per nulla alle inso-
lenze di un individuo che egli Jia ragione di non
stimare. „
374 RAPISARDIANA,
E mandai il tutto^ raccomandato, a Catania.
La sera comunicai a Luigi Lodi la parte della
epistola mariana che riguardava lui, consiglian-
dolo del resto a non confondersi: tanto Luci-
fero non si batte: lo dice egli stesso, l'eroe
nel fine del canto undecimo.
Ora, dopo V intermezzo di circa un mese dalla
mia carta di visita, il signor Mario Rapisardi mi
disprezza, disprezza me e i miei giudizi, non ha
tempo da perdere in guerricciòle. Disprezza i miei
giudizi, dopo avermi in vano intimato di ritirarli :
disprezza me dopo aver subita la mia disistima
presentatagli con fredda e perfetta correzione:
parla di guerricciòle, dopo essersi lasciato far di-
mostrazioni contro di me, dopo essersi atteggiato
a pudica ma compiacente virginea cagione d* un
nuovo incruento vespro siciliano contro me e la
scuola bolognese. Ma che Bologna! Ma che Sicilia!
Siamo tutti italiani. Almeno io non ho nulla che
dire con la Sicilia e con la sua letteratura, se
qualche cosa ho* che dire co *1 signor Rapisardi.
E non ho mica nulla che dire su le due ter-
zine poste in bocca a Dante contro di me. Suo-
nano cosi:
E chi in aspetto di plebeo tribuno
Giambi saetta avvelenati e cupi,
E fuor di sé non trova onesto alcuno;
Idrofobo cantor, vate da lupi,
Che di fiele briaco e di lièo
Tien che al mio lato il miglior posto occupi.
RAPISARDIANA. 375
Su coteste e le altre terzine che precedono e se-
guitano avrebbero assai che dire il buon senso, il
buon gusto, il rispetto al nome di Dante, non che
la decenza, la grammatica e la prosodia. Di pas-
saggio, i du€ versi
Sento tra una venal turba chiamarmi
Chi ecc.
Tien che al mio lato il miglior posto occupi
vanno contro la sintassi. E dell* altra terzina, non
per me,
E incipriato le chiome e torto il collo,
Co '1 ciglio imbambolato e il guardo losco
Va a confettar gli stronzoli d'Apollo,
il primo verso è di dodici sillabe e il terzo è
porco.
Ma perché il libro ove sono le due terzine il
signor Rapisardi lo mandò " divotamente „ a me
" uomo illustre „? Io gli scrissi: reputare dover
mio avvertirlo, che tutti in Firenze, ove il signor
Rapisardi era allora frequente e avea fervide
amicizie e ammirazioni, dicevano in quelle terzine
riconoscere me, e anche a me pareva di ricono-
scervi non me, ma i soliti colori retorici coi quali
gente che non mi conosce e che io non conosco
credeva poter figurarmi: di che a me non impor-
tava: ma reputavo, da poi che egli mi offriva
" devotamente „ il suo libro, dover mio renderla
avvertito che sapevo e avevo letto: tutto ciò senza
37^ RAPISARDIANA.
ringraziamenti e senza formole di stima. Egli mi
rispose: non porgessi orecchio ai suggestori in-
vidiosi; egli avere scritto da poeta; esser sicuro
nella sua conscienza. Sciagurato! E il suo amico
Pietro Fanfani andava leggendo nei circoli le ter-
zine e commentandole e facendo rilevare agli
inaccorti il preciso riscontro satirico che e* era
tra il verso fatto dal Rapisardi sgrammaticare a
Dante
Tien che al mio lato il miglior posto occupi
e il principio d' un mio sonetto
Dante, il vicin mio grande.
Sciagurato ! Se il negare la verità conosciuta deve
essere un peccato contro lo spirito per tutti gli
uomini di ragione, anche se non di fede; negare
la verità conosciuta, per lusingare opportunamente
un uomo che prima avete voluto infamare, è un
peccato contro la dignità umana. Perché, voi che
i versi vostri giovanili mi mandaste tutti — a me
che disprezzate — perché non mi mandaste nel '6g
la Palingenesi? I maligni tra* miei amici, e ce
ne sono pur troppo, dicevano che noi faceste,
perché allora io era in cattiva vista presso i po-
tenti. Perché mi mandaste " devotamente „ nel
febbraio del '77 il L u e i f e r o ? Perché, seguita-
vano a dire quei maligni, quando il Lucifero
fu finito di stampare, i tempi erano mutati, ed io
era deputato. ...
RAPISARDIANA. 377
Io non credo a tanto: ma sono stufo dì parlare
del signor Rapisardi. Al quale io non pensavo
più da un pezzo, quando tempo fa mi capitò tra
le mani certo suo discorso ove spropositava di
alcune innovazioni artistiche con quel tono d' igno-
ranza presuntuosa che è così seccante e irritante
in quella sua retorica sgrammaticata. E volli co-
minciar bene 1' anno castigandolo.
Faccia de* G ì o b b i il signor Mario Rapisardi,
faccia de* Giobbi.
Vili.
Per allora, cioè pochi giorni dopo, il signor
Mario Rapisardi fece un sonetto, e lo mandò a
certi giornali, pregando lo pubblicassero solleci-
tamente. Diceva cosi:
GIOSUÈ CARDUCCI
Testa irsuta, ampie spaUe, ibrida e tozza
Persona, in canin cefifo occhio porcino;
Bocca che sente di fiele e di vino;
Se biasma, onora; quando loda, insozza;
Mevio da un soldo, Orazio da un quattrino
Che ad arte di mosaico \sic\ i versi accozza.
Or Cerbero che i re squarta ed ingozza.
Or di gonne regali umil lecchino;
Tal è costui, che la Musa baldracca
Sbufifando inchioda ed inquinando ammazza,
Sopra a latina prosodia bislacca.
La Fama, che con lui fornica in piazza,
Posto il trombon fra 1' una e l'altra lacca
Ai quattro venti il nome suo strombazza.
378 RAPISARDIANA.
Io lessi questo sonetto in un fascicolo stampato
poco di poi in Catania. Dal quale anche imparai
che il signor Rapisardi ha " una villetta „ e oltre la
villetta una " olimpica serenità — suo pregio sin-
golare — „, e che con questa "serenità olimpica „^
tra i " silenzi di quella villetta „, interroga " devo-
tamente la Musa e ne registra i responsi „. E con
quella " olimpica serenità „ ad armacollo, domando
io, con i " silenzi d' una villetta „ tra le gambe,,
con la Musa all' ordine del suo registro, il signor
Rapisardi scrive soltanto un sonetto cosi?
Quel libretto di Catania, per altro, composto
d' articoli di più signori, che dicono molte volte
di essere giovini, è un' amenità. Ci s' inciampa a
ogni passo in olimpi che servono per li aggettivi
positivi, in titani e giganti che portano il peso dei
comparativi, nei nomi di Eschilo di Sofocle di
Goethe spicciolati sotto i passi del signor Rapi-
sardi. C è perfino un appello " ai nostri nepoti „.
È da vero, un libretto, non ostante certe cattiveriole
e molti spropositi di grammatica, anzi a punto
per cotesto, divertente: divertente per un poco;
come un giuoco di ragazzi che facciano alle com-
marcile, che uno s'intitola imperatore, l'altro re,
cinque o sei sono generali, e cavalcano con un
igienico affaccendamento delle proprie gambe chi
una canna, chi una scopa, chi un manico di gra-
nata, con di gran picchi su le rispettive cosce,
con di grandi urrà a sé stessi: le galline del cor-
tile stanno a guardare immote.
RAPISARDIANA. 379
Del resto — notino bene quelli egregi signori
— non è vero che il nessun conto o il conto
negativo che io faccio dei lavori in rima e in prosa
del signor Rapisardi cominciasse o proceda dal
Lucifero o da qualche parte del Lucifero.
Io posso mostrare un mucchio di opuscoli man-
datimi pe '1 corso di più anni dal signor Rapi-
sardi, ed egli può vantarsi di non avere avuto
mai da me né anche un grazie. Alla cortesia nes-
suno è obbligato, quando per esser cortese bisogni
esser bugiardo. Da que' fascicoli veniva su tale
un tanfo tra di spezieria e drogheria parnassiana
e di mòccoli spenti di sagrestia civile-cristiana,
tale un refrigerante freschiccio di cerotto diachylon
frugoniano e di bionda classico-romantica, che era
una consolazione. Nel Rapisardino e' era già il
Rapisardone : e' era già nel poetuncolo la gobba
davanti del grand' uomo : cioè T impostatura e
r impettitura d' un tenorino di provincia in busto
e co '1 rossetto, che sbercia, tenendosi con le due
mani il piccolo petto albergo di cotanto cuore.
Cosi Mario cresceva. E nessuno gli badava.
Alla fine pensò bene, dopo Mentana, di pigliar-
sela co '1 papa: e fece un polpettone palingenesiaco
di lesso avanzato, cioè di cristianesimo riformato.
E nessuno gli badava. E allora scrisse una tra-
gedia. E nessuno gli badava. E allora, per farsi
badare, il collegiale cominciò a bestemmiare e a
dir porcherie; e come a lui pareva che io nel
Satana avessi detto dio sagrato, egli nel L u e i-
380 RAPISARDIANA.
fero disse dio birbone; e come io avevo detto
verità amare a certa gente che secondo me avea
fatto e faceva del male all' Italia, cosi egli disse
bugie e insolenze a persone che avevano avuto
il torto di far del. bene a lui. Ieri napoleonista e
cantelliano si raccomandava, a cui poi oltraggiò,
per r intercessione di una croce; oggi fa canti
carnescialeschi internazionalisti, con grande am-
mirazione di qualche Quasimoduccio d' una re-
pubblica non si sa come; dimani farà l'Anacreonte
della ghigliottina, e sommoverà con strambotti e
stornelli il volgo a squartarmi. Tutto questo non
per malvagità — egli non ha quella tanta facoltà
di pensare che ci vuole per esser malvagio —,
ma per la frase, per il pun-pun, per la smanac-
ciata, per la religione del suo bel mostaccino:
perché queir amorino li. Narciso della gagliofferia
impomatata, ha la satinasi di sé stesso.
Del resto, io non dico mica che i poemi del
signor Rapisardi non piacciano e non debbano
piacere. Piacquero in fatti, e di molto, a Pietro
Fanfani: piacciono al signor Luigi Alberti, ài si-
gnor Ghisleri, al signor MammoH : piacciono ad
altri molti: c'è tanto volgo e tanta accademia in
Italia! A me, per quel poco che ne potei scorrere
di quando in quando, fanno l'effetto che sono per
dire. Non mi ricordo più dove lessi che il signor
Rapisardi ebbe a maestri due frati; né so se véro,
né me ne importa. Ma il fatto è che la poesia
sua> anche, anzi più,. dove< bestemmia e anela dò
RAPISARDIANA. 38 1
scandalo, è sempre fratesca. Procede tra la ca-
nonica e il trivio, tra la tautologia e la scatologia,
con il roccetto a gale inamidate e le brache puz-
zolenti ; finisce il kirie dell' aitar maggiore con le
flatulenze in coro; dalla espettorata enfasi del
pulpito passa alla celia sporcacciona del refettorio;
mette un mazzo di fiori dinanzi alla statua della
sua madonna che è in legno di fico, co '1 visino
di biacca, vestita di broccato celeste tutto rigido,
alla /om/>«</owr e co '1 cerchio, e con in mano un
fazzoletto di tela batista smerlata; e scende in
cucina per palpare di dietro la serva inchinata
su '1 tacchino nello spiedo e per dare un calcio
al gatto che miagola con lirica aspirazione. Già,
per tutti quei volumi mi par sempre di vedere il
signor Rapisardi con ai fianchi le sue muse, i
suoi due fratacchioni maestri: uno canta Tantum
ergo) r altro, come il fra' minore del Burchiello,
per fuggrir ozio in quel viagjrio
Col e. sempre parlò d'ogni linguaggio.
Ripeto che il nessun conto o il conto nega-
tivo che io faccio della facoltà e dell' opera poe-
tica del signor Rapisardi non ha né causa né
origine dalle allusioni ingiuriose del Lucifero,
se bene è vero che quelle ingiurie ci sono e sono
proprio per me. La prova allegra è il sonetto. La
prova schiacciante è che il signor Rapisardi nega.
Quando un uomo ha trattato da amico un altro
e gli ha chiesto ancora de' piaceri, mentre aveva
382 RAPISARDIANA.
•già consegnato al tipografo vitupèri contro di lui,
quando un uomo s* è portato come il signor Ra-
pisardi si portò co '1 prof. De Gubernatis, quel-
r uomo non ha pili diritto a esser creduto; anzi,
se egli dice di no, gli uomini buoni e savi hanno
diritto a credere di si, e per converso. Egli sputa
dove prima baciò, e poi vorrebbe baciare dove
ha sputato. Piano, caro signore! Si accomodi
co* suoi simili.
Né di ciò io gli facevo o faccio colpa; o
gliene faccio sino a un certo punto soltanto.
Perché in tutte le cose e le azioni del mondo
egli altro non guarda che il suo io rispecchiato,
se sia in posizione comoda e appariscente o no.
Anche quando fa all'amore, io penso si distragga
a vagheggiare e carezzare la sua imaginetta dentro
il vivo specchio delle pupille eh' ei crede amare;
e più e meglio, credo io, s' innamora di quelle
donne nelle cui retine più civettuola dameggi
la figuretta sua. Non ha insomma il discerni-
mento morale: sia della parte politica e dell' ami-
-cizia, sia della giustizia e della verità, egli si
serve per gli usi suoi esteriori. Non che egli non
creda di credere alla verità e alla giustizia, di
essere fedele all'amicizia e aderente alla parte;
egli è di bronzo o di marmo pano; ma per lui
ci sono tante verità, tante giustizie, tante amicizie,
quante gli occorrono cravatte per abbigliare in
fogge diverse, alle diverse stagioni e occasioni,
r Antinoo menecmo eh' egli custodisce sotto le
RAPISARDIANA. 383
scriminature del suo ben capelluto pensiero e
nutrisce con le poppe della sua gloriosa soddi-
sfazione.
Per ciò io non mi era per nulla risentito delle
ingiurie luciferiane : mi urtò e provocò al castigo,
ripeto, la presunzione del signor Rapisardi a par-
lare di cose che non sa, cioè di arte e di critica.
Scriva il signor Rapisardi quante vuole Palinge-
nesi, Arrighi, Manfredi e Giobbi; ma non entri
a discorrere di arte e di critica; egli è un cam-
panaio.
Del resto, si rassicurino pure il Capitan Fra-
cassa il Bersagliere e la democrazia ragunata in
comizio a Catania, io non ho co '1 signor Rapisardi
né rancore né odio: anzi, a mirarlo in persona o
dipinto mi diverte. Se potessi, lo compererei; e
me lo patullerei a biscotti nel naso per vedere le
facce che facesse; e poi gli darei un savoiardo e
uno specchietto. Egli farebbe un bocconcino, una
frase e una posa; e tutti lesti.
Tornando ai signori dell' opuscoletto catanese,
sola una cosa in quello mi spiacque e mi addo-
lorò: il sentire che essi, giovini italiani, tanto
povero concetto serbino dell* Italia e del suo av-
venire, da tener per certo che i nostri nepoti
qualche cura o memoria avranno delle miserie
nostre e di noi. Troppo più alti ideali io avevo
sognato per voi, o giovini del mio paese. E se
dovesse esser vero che cosi misero fosse l'av-
venire d' Italia, che i nostri nepoti avessero da
384
RAPISARDIANA.
ricordarsi del Rapisardi e di me^ mi colga sùbito
la dissoluzione nel nulla; perché vorrebbe dire
che il naviglio dei mille salpò in vano da Quarto.
QA IRA
Carducci. 4. 25
Dalle Confessioni e Battaglie di G. C, ser. Sa
Roma, Sommaruga, 1884.
UNQÙE anche una volta difendia-
moci: cioè, esponiamo, con molta
soddisfazione del nostro satanico
orgoglio, dinanzi alla folla dei let-
tori maligni, le perfezioni o imperfezioni segrete
dei nostri pensieri, la benignità o pravità meditata
dei nostri intendimenti.
Ma badiamo, o lettori maligni: non venite poi
fuori a dirmi che io per recar da torno il mio me
son sempre a ordine, che troppo dura da un pezzo
questa perennità di mie processioni a occupare lo
spazio pubblico impacciando la circolazione della
buona letteratura, e sarebbe ora che la polizia
della critica relegasse V ottavario del mio Corpus-
Domini dentro o intorno al sacrato della mia do-
mestica vanità. No, cari lettori maligni: questa
volta è proprio la polizia critica che si fa, come
388 ^A IRA.
non di rado usa quell'altra, provocatrice: questa
volta è l'onorevole Bonghi, il quale da quella
stessa Domenica Letteraria, che, secondo voi, let-
tori maligni, è la ròcca della mia tirannide e il
tempio della mia religione, mi grida, occupati i
minareti e i battifredi, all' ingiù — Io Le dico
che Ella è uno sconsigliato, un dissennato, un
manigoldo inconsapevole o un furioso a freddo,
peggio anche del parrucchiere che trucidò la Lam-
balle: ed Ella che dice di quello che Le dico io?
che risponde a quello che io affermo? —
Le stesse o simili accuse, e sempre con quel
tono benevolo e con queir onesto accento di me-
raviglia misericordiosa che accatta grazia e cre-
denza, mi avevano mosso il prof Licurgo Cap-
pelletti nella Provincia di Brescia del 30 maggio,
il signor Domenico Cancogni nella Libertà del-
l'11 giugno, e nella Rassegna italiana dello stessa
mese un M. T., iniziali che indicano per avven-
tura il nome di un senatore a cui ho molta
stima.
Ecco dunque in moto per una dozzina di so-
netti la scuola e il giornalismo, il Senato e la
Camera dei Deputati, e 1' onorevole Bonghi che
m' interpella come farebbe a un ministro. Ma
che? la poesia conterebbe dunque da vero qual-
che cosa in Italia ? Oh, no del tutto. È per paura o
per odio di quelle due parole p? ira, che quei
signori traducono, troppo Uberamente a dir vero,
in fa viendra.
9A IRA. 389
Michele Lessona, che io^ se mi fosse lecito
contaminare una qualificazione rigidamente mo-
derna con un' antica eleganza, direi scienziato di
molte arti; ed è amico buono e collega utile, spe-
cialmente in certe gravi sessioni, per le tante
storie allegre e le tante persone rallegranti che
ei sa con efficacia rinnovatrice raccontare e imi-
tare, scotendo V ampia capelliera grigiastra con
tutta la testa scultoria, tra tali impeti e scatti di
riso da parere un Padre Eterno che faccia in
un momento d' allegria un terremoto sussultorio;
il Lessona, dico, neir aprile scorso, mi raccon-
tava d' un amico suo piemontese, un capitano in
riposo, il quale a ogni motto che un gli facesse
dei casi più spesso occorrenti, un marito tradito,
un banchiere fallito, un ministero caduto o un
pollaio derubato, soleva, puntando forte il piede
sinistro, avanzando il destro, con le braccia in-
crociate su '1 petto, e caracollando leggermente obh-
quo il viso abbronzato tra i folti mustacchi, uscire
in questa esclamazione interrogativa : Sas tu e' al
è forti Pochi giorni dopo, in una di quelle tali
sessioni, io, tra una discussione e 1' altra, mi at-
tentai di passare al Lessona i famosi sonetti nelle
prove di stampa, un dopo V altro, come pillole
o ciliege a un bambino. U amico abboccava, e
ne chiedea tuttavia. Dunque eran ciliege. Finito
che ebbe, — E che titolo metti a questa diavole-
ria? — fa ira. — Sas tii e al è forti
Si, fu proprio forte, o Michele Lessona.
390 .9A IRA.
Repubblicani in Italia ce n* è da un pezzo, e da
un pezzo se ne parla come d' un partito molto mag-
giore o molto minore, molto più terribile o molto
più risibile, di quello sia in effetto. Venti anni fa
non e* era infamia che non fosse lecito imaginare
o dire contro quel partito, che pure spogliandosi
seguitava a dare mantelli di porpora e giachi di
acciaio alle instituzioni. Mi sovviene d' uno stu-
dente di medicina, che facea vita insieme con
altri studenti romagnoli di legge e matematiche
repubblicani, lui moderato; e solennissimo imi-
tatore e contraffattore di persone e di costumi
com' egli era, e come in quella età e in quello
stato volentieri si usa, rallegrava le cene con
sempre nuove trovate. ' Certa sera, tutto avvolto
in un lenzuolo, faceva la madre dolente sopra il
figliuolo ammalato; e il figliuolo era uno de' gio-
vani repubblicani che forse avea bevuto oltre il
dovere e il potere. — Povera creaturina mia —
diceva — e povera madre ! Eccoti li su quel let-
tuccio a più struggerti ogni ora che passa. E io,
miser'a me, non ho più latte; non ho un boccon
di pane da farti la pappa, né un gócciolo di vino
o di giulebbe da immollarti le labbra. Hai sete,
poverino, eh? Quel birbone di tuo padre è via
da una settimana a batter tutte le osterie e i ca-
sini della contrada, se pure non è cascato in ga-
lera; e non mi ha lasciato un soldo. Poverett' a
me, che quando lo presi non sapevo che fosse
della squadrazza di Pirùla Ceneri. Già, cominciò
^A IRA. 391
con bastonar sua madre; e ammazzò un prete la
notte di Natale; e rubò il tesoro di San Petronio.
E poi.... e poi.... è un repubblicaaaano. — E qui
s' apriva nelle braccia distendendo in atto di spa-
vento quanto era lungo il lenzuolo che gli ser-
viva da velo, come a riparare il tenero capo dal-
l' alito velenoso e pestifero di quella parola. Ciò
che r allegro studente moderato diceva per burla,
molti moderati seri lo pensavano da senno; e
invocavano e, potendo, spalancavano le prigioni
per salvare le novelle generazioni innocenti dalla
pèste repubblicana. La Sinistra al potere mutò
registro. — I repubblicani? Puh! Pochi illusi,
pochi dottrinari. Buona gente in fondo; ma cri-
stallizzata neir idea, incartapccorita nella forma,
non cava un ragno da un buco. È un' idea me-
tafisica! una forma bizantina! Fatti ci vogliono,
e non idee; sostanza, e non forma. I repubblicani
sono de' poveri accademici ! Ma esistono da vero
de' repubblicani? — E pure non mai come sotto
i governi della Sinistra fu levata a criterio e mezzo
di governo la caccia del cencio rosso.
E ora dodici sonetti, dove la repubblica non
è mai nominata, perturbano, a giudizio di uomini
che delle storie antiche e moderne hanno cogni-
zione e sapienza e hanno esperienza e uso delle
faccende, perturbano, dico, lo stato e, se non
offendono, minacciano le instituzioni. O sonetto,
o bel mio sonetto dei fedeli d' amore, del dolce
stil nuovo, dei monsignori e dei segretari eie-
392 (;a ira.
ganti, degli arcadi incipriati, che onore e che
orrore per te! Nessuno mai ti aveva stimato o
temuto reo di tanto; nessuno, se non un ge-
nerale francese nella Repubblica Cisalpina. Ma
nel sonetto che mosse il Murat a ordinare s' im-
prigionasse il senatore Filicaia e' era una men-
zione almeno di " gallici armenti „. Io che ho a ri-
spondere? e come debbo o come posso provare
che non voglio mettere in quarti nessuna dama
d* onore, né decapitare la Maestà di Margherita
di Savoia graziosissima regina d'Italia?
Dimostrerò invece due cose un po' meno sem-
plici, ma certo più vere: che in Italia la critica
della poesia è male intesa e peggio esercitata
anche dai migliori, e come torto e ombroso e
meschino sia il senso politico anche nelle per-
sone d' autorità e di giudizio che sono dette e si
credono temperate.
IL
Io ho con Eduardo Scarfoglio più obblighi;
tre, fra gli altri, strettissimi: per avermi egli re-
galato, di primo impulso del suo nobile cuore,
un bel mattino di maggio, che lasciavo Roma per
la solenne e pacifica via maremmana, un D e g e-
stis Romanorum in rara edizione del 1527 a
colonnine di carattere gotico, con molte pagnotte
per giunta, che mancavano al mio companatico:
per non avermi mai dimandato o fatto capire
(;a ira. 393
eh' egli aspettasse il mio giudizio intorno a' suoi
Papaveri, tra i quali ce ne ha di fioriti bene; ri-
cordo un sonetto rinterzato che dal gambo guit-
toniano si culla con agile movimento ai soli nuovi:
per avere, tutto lungo un mese, predicato ai no-
vellatori e romanzieri italiani la necessità e il do-
vere di studiare il Panciatantra. Ma gli sono,
non se ne abbia a male, un po' meno tenuto del-
l' annunziare eh' ei fece nella Domenica Letteraria
del 5 maggio il ^a ira, come un accenno, un
tentativo, un abbozzo, forse inconscio, di epopea
storica, o, meglio, d' una epopea nuova a cui
dovesse essere elemento o fondamento la verità
storica pura, e che per que' miei sonetti io avessi
cercata e attinta materia di verità nella storia che
della rivoluzione francese compose nel 1837 Tom-
maso Carlyle. Indi un vespaio intorno a lui e a me.
Pace, ammiratori e dispregiatori: io non intesi
né intendo comporre nessuna epopea storica.
Hanno ragione il signor Francesco Rossi e il si-
gnor G. O., quegli nel Presente del 17 e questi
nelle Serate torinesi del 19 maggio: ha ragione il
prof Domenico Milelli nella Calabria letteraria
del 15 luglio: né i dodici sonetti sono un lavoro
epico, né 1' epopea storica è fattibile oggi. L' ho
sempre creduto, lo dissi da un pezzo, lo ripeto
anche una volta: nella civiltà ora vigente la epo-
pea, la vera epopea, è morta da tempo, è morta
per sempre, e la epopea storica non nascerà mai,
per la contraddizion che no '1 consente. .
394 9A IRA.
Epopea e storia sono due termini che V uno am-
mazza r altro.
Vedete nello svolgimento intellettivo artistico
del popolo greco, che per la spontaneità e com-
pitezza, per la fecondità e comprcnsività sua, rispec-
chia tutti gli anteriori e successivi svolgimenti
degli altri popoli ariani. La epopea, la poesia
tranquilla, oggettiva, recitata dagli aèdi con so-
lenne monotonia senza cori né danze, finisce
con le monarchie: l'ombra di Omero che canta
dilegua dinanzi alla persona di Erodoto che
legge. Con le nuove constituzioni democratiche
fiorisce la lirica, la poesia commossa, soggettiva,
cantata al suono della lira da' poeti eolii innanzi
ai gruppi degli amici e delle donne, cantata e dan-
zata in coro al suono di vari strumenti dai dorii
innanzi ai templi e intorno le are. Dopo le guerre
nazionali, tra le guerre civili, nei tumulti del-
l'agora e dell'eloquenza, s'impianta il dramma, la
poesia tranquilla insieme e commossa, nella quale
il divino e l' umano, 1' oggettivo e il soggettivo,
con un nuovo e alto intendimento civile, si fon-
dono, e la poesia e la danza e la musica in un
abbracciamento di sorelle concordi presentano al
più civile de' popoli i più nobili e subhmi godi-
menti dello spirito umano.
La civiltà cristiana fu complessa di molti più
elementi ed elaborazioni che non la greca; ma an-
che nelle letterature romanze la canzone di gesta
cantata in monotone lasse dai trovierifrancesi cede.
?A IRA. 395
Su*l primo apparire delle cronache volgari, alla
lirica di Provenza e d' Italia. Raccolto di su lo
strascico della tradizione popolare in queir ales-
sandrinismo audace e fantastico che fu il rinasci-
mento, il cantare epico, alle mani del Pulci del
Boiardo dell' Ariosto, divenne romanzo epico da
leggere, e fu voluto trasformare a epopea storica
e classica dal Tasso; ma e questa e quello, a grado
a grado che la storia risorse e divenne artistica
e politica co '1 Machiavelli e co '1 Guicciardini ed
erudita e critica co '1 Sigonio, sparirono. La nuova
poesia che venne su tra le guerre civili della cri-
stianità scissa nella riforma fu la drammatica, in
Inghilterra e in Spagna. Vero è che il sentimento
religioso della riforma ebbe la sua individuale rap-
presentazione epica della fede biblica, come il sen-
timento del medio evo ebbe quella delF universo
cattolico nella Divina Commedia. Il poema del
Milton, tutto puritano e inglese di concepimento,
è di forma etnico-latino; e tale servi di modello,
più che non si creda, al vestire le solitarie ten-
tazioni epiche succedenti. Ma ora tutte queste tre
forme di epopea, nessuna delle quali primitiva,
spontanea, fatale, ma tutte letterarie, individuali,
riflesse, — ciò sono la visione medievale catto-
lica in terza rima, neir andamento cioè del sir-
ventese di piazza nobilitato e fissato; il poema-ro-
manzo del rinascimento in ottava rima, nel canto
cioè dello strambotto pur popolare, di spicciolato
che era or raccolto e continuato; la rappresenta-
39^ 9^ iR^'
zione epica solitaria in giambici o endecasillabi
sciolti; in un metro cioè nuovo formato da let-
terati; annunziante la separazione finale della
nuova poesia filosofica dalla vita collettiva del
popolo, accompagnante una poesia la quale non
potrà più essere per nessuna guisa cantata e
che pure avrà la metrica presunzione di simulare
tutti gli ondeggiamenti del pensiero e del senti-
mento nel canto — queste tre diverse forme epi-
che, dico, la terzina, V ottava rima, V endecasil-
labo sciolto, sono oramai anch' esse finite, esau-
rite, sentenziate al museo. Il Monti, un de' più
ricchi signori del verso moderno, rianimò tra il
tumulto della rivoluzione la terzina, ma tentò
in vano nel Bardo di rendere sotto gli addobbi
della gloria imperiale 1' agilità e il muscolo alla
forte e volubile ottava epica dei Medici e degli
Estensi. E il buon Grossi, messo su dal Manzoni
contro il Tasso, fé' cecca. Il verso sciolto poi...
Oh il verso sciolto lasciamolo a' suoi vanti nella
satira, nella didascalica, nella descrizione, nella
traduzione e anche nella lirica; ma non doman-
diamogli, per amor delle Muse, poema né corto
né lungo. E non mi parlate di alessandrini. La
solenne monotonia di cotesto gran metro del
duecento, la quale ricorda e risuona la cadenza
dei gran passi d' un barone crociato che smontato
da cavallo camminasse tutto vestito di ferro, voi
non avete il coraggio né la forza di rifarla, e il
vostro pubblico non ha la pazienza di soppor-
9A IRA. 397
tarla. U alessandrino i poeti del romanticismo
francese nella metà prima di questo secolo lo frat-
turarono per renderlo moderno e sermonatore:
gli odierni ne posson fare degli spezzatini mus-
settiani per le donnucce più o meno parnassiane.
E non altrO; non altro.
Non domandiamo dunque più epos moderno a
nessun metro. Volete voi de' poemi su Napoleone,
su la rivoluzione italiana, su Giuseppe Garibaldi?
Non ne mancano, e non mancano di pregi; ma,
disse pur troppo bene il Milelli, di rado riuscirono
a farsi leggere, sempre a farsi dimenticare. Sino il
poema — novella, il poema romantico, chi lo può
oramai sofferire? Ma non sentite voi la grande fal-
sità de' poemi di Giorgio Byron, non v' annoiate
in quella cavernosa vuotezza popolata solo dai li-
rici contorcimenti e dagli ululati di quel Laocoonte
dell'anima sua?
Mi si vorrà forse opporre, per la contenenza
e la larghezza, il Don Giovanni; e per la ver-
seggiatura, le ottave del Monti nella traduzione
della Pule eli a, tanto, oltre quello si poteva aspet-
tare dal bolso gonfio e sciancato uso moderno, fe-
licemente e facilmente belle, che un bizzarro fante^
molto mio amico, giura il Monti avere lui com-
posto la Pulce Ha in italiano bene e il Voltaire
averla tradotta male in francese. Oppongasi
pure: io ribatto: cotesta poesia a punto è l'ul-
tima prova provata che non esiste più né più
esisterà epopea di nessuna guisa. Ogni cartape-
39^ 9^ IRA.
Cora dissotterrata nei tanti archivi che affliggono
le città civili soffoca un canto di epopea del pas-
sato: ogni chilometro di strada ferrata arrampi-
cantesi o slanciantesi per le selvagge altezze e
pianure delle Alpi o degli Apennini, di Calabria
o di Sardegna, spiaccica un pezzo di epopea del-
r avvenire: ogni accento e sogghigno di poesia
come cotesta del Voltaire e del Byron spenge a
ghiado tutti i possibili fantasmi di epopea per-
sonale.
O begli occhi non so se di musa o di donna,
in vano arridete sfolgorando da lungi: io nego e
non affermo: non posso dunque fare epopea.
Il criticismo della storia, abbattuta la epopea
e la tragedia, lasciò spuntare tra le ruine, come
fiori di cardo, il romanzo e il dramma cosi detti
storici. Ebbero la vita dei cardi. E nel regno della
borghesia, usurpando insieme le forme del rac-
conto epico e quelle della rappresentazione dram-
matica, spampanò tutte le sue glorie e le sue do-
vizie il romanzo nuovo anglo-francese. Ora il po-
sitivismo batte in breccia anche quello; ed è venuto
su con di strane pretensioni il romanzo speri-
mentale, che andrà a finire né favola né scienza,
a quella stessa guisa che il romanzo storico non
era né epopea né storia. Alla prima acqua d' ago-
sto, — pover omo, ti conosco, dice il proverbio to-
scano. O panciuti zoliani, che ora vi credete de-
molire Vittor Hugo, come volete allora esser buffi!
Mandate attorno gli spazzaturai a raccogliere su '1
9A IRA. 399
lastrico le vostre descrizioni, che non ne vor-
ranno più né men le femmine de* porci. Intanto
positivismo e americanismo lavorano di buzzo
buono a macinare tutto il mondo de' vecchi iddei,
tutto r ideale e tutto il fantastico, tutto il classico e
tutto il romantico. Nulla ha da rimanere in piedi,
se non il vero materiale, il vero che si tócca, che
si brancica, che si compra e vende, che si am-
mazza. Coraggio, Sancio Panza, sii logico. Tu
cominci ad aver paura del nulla che ti si discuopre
nel tutto? Non frignare, imbecille! Avanti, vi-
gliacco ! Quel e' ha a esser, convien sia. Nello
sfracellamento di questa tarmata società, domani
o dopo domani, se Dio vuole, faremo il gran
salto. Hop là, popoli civiH.
Per ora sarà bene che badi a non saltar troppo
io in questo discorso. Epopea dunque no, né sto-
rica né altra. Lo riconobbe lo stesso Scarfoglio,
quando, tornato su V argomento nel Capitan Fra-
cassa del 13 maggio, accennò come il Carducci
non facesse questo o quest'altro " perché non
voleva fare epopea „, come il Carducci scegliesse
una forma metrica pili tòsto che un' altra " perché
non aveva nessuna premeditazione epica „; dove
conchiuse " non si tratta dunque propriamente
d' epopea: questi sonetti sono forse 1' ultimo stadio
della lirica carducciana „.
Ma — soggiungeva — il fatto sta che il Carducci è uscito
dalla cerchia magica della lirica, che egli, senza avvedersene
quasi, è entrato in un momento nel campo sereno della poesia
400 (;a ira.
oggettiva, che la verità storica si è subitamente impossessata
del suo spirito; e i sonetti sono scaturiti, l'uno dopo l'altro,
investendo e vestendo di una viva luce i fantasmi che si levano
più alti da quel grande scompiglio. Questa certo non è ancora
epopea; ma è già il racconto o la rappresentazione epica.
Accetto il termine " rappresentazione epica „,
interpretandolo per un oflferire alla fantasia e al
sentimento altrui in brevi tratti come attuale e
senza mistura di elementi personali un avveni-
mento o una leggenda storica; a quella guisa che
feci altre volte con i Campi di Marengo e la
Canzone di Legnano.
Come io non cerco la poesia, ma lascio che
la poesia venga a cercar me, cosi avvenne che
nel passato inverno, leggendo la Rivoluzione
francese del Carlyle, a un certo punto da una
o due espressioni mi balzasse in mente il Qa. ira.
Ma dal Carlyle ebbi la inspirazione, nel più umile
significato, soltanto. Oh io sono un troppo perfi-
dioso giacobino, come volontieri mi denominerebbe
r onorevole M. T., sono troppo demagogo, come
mi denomina il signor Cancogni, e ho letto e
riletto le due storie della Rivoluzione di Luigi
Blanc e di Giulio Michelet; le quali, scritte dopo
quella del Carlyle, la avanzano di molto per istu-
dio largo e minuto, se non imparziale, dei fatti,
aiutata come fu la prima dalla preziosa raccolta
di memorie d' ogni genere della Rivoluzione che
sono nel Museo britannico di Londra, giovata la
seconda da ricerche negli archivi francesi. Da
9 A IRA. 401
questi due storici dunque riconosco la materia
de* sonetti; e non dal Carlyle^ il quale, secondo
giudica benissimo Y onorevole M. T., nell' esposi-
zione fantastica della rivoluzione francese andò
più avanti di tutti, e le cui visioni, come dice esso
signor M. T., o le cui strofe in prosa, come di-
ceva un amico mio, sono forse meno storiche
de* miei versi. Elessi, per la forma della verseg-
giatura, il sonetto, come quello che più mi si
prestava, o parevami, agli atteggiamenti risoluti
e quasi in alto rilievo a tratti rapidi risentiti corti,
come quello che mi avrebbe impedito di allar-
garmi nella descrizione o stemperarmi nel lirismo,
da poi che è proibito di far bruttura dinanzi alle
muraglie di bronzo della storia. E sentivo quasi
un solletico di vanità in quella prova di ravvivare,
dopo le odi barbare, a rappresentazione intentata
il vecchio sonetto.
III.
Ma non di cotesto è questione. È questione
che io faceva " lirica partigiana, complice de' cie-
chi furori della plebe e de* sofismi dei demagoghi,
lirica e retorica repubblicana „ : cosi 1* onorevole
M. T. È questione che in me " prevaleva un
sentimento di devozione alla demagogia, tale e
tanto da farmi tacere verità che forse mi scotta-
vano „: cosi il signor Cancogni. È questione che
i miei versi " augurano col canagliesco e atroce
Carducci. 4. 26
402 9-^ ^^^'
ritornello della ribalda canzone non lontani trionfi
al giacobinismo in Italia „ : cosi di nuovo 1' ono-
revole M. T. E, poi che " si può dubitare se
spetti al poeta il gettarsi nel cuore dei contrasti
sociali ed infiammargli, ma non si può dubitare
che, una volta che si risolva a ciò, tutto ciò che
nella sua poesia è forma, per bella che sia, questa
scompare, e non resta davanti agli occhi che il
soggetto „, r onorevole Bonghi sorse a intimarmi
di render ragione del dove ^a aboutira. Se non
che, prima, per tutte queste ragioni, T onorevole
M. T. avrebbe voluto che io non avessi fatto
nessun (^ a ira — e questo era forse il meglio; —
il signor Cancogni avrebbe voluto che nel ^a ira
avessi compreso tutta la rivoluzione e l' impero
— e questo era certo il peggio; — T onorevole
Bonghi, che che ne dica, avrebbe voluto che io
avessi fatto un commentario storico su la rivolu-
zione e suoi beni e i mali che ne derivarono; —
e questo era per avventura impossibile.
p? ira non è per me, come ben s* appose
in un impeto di benevola concessione V onore-,
vole M. T., che il motto storico d' un momento
storico. Quello che il popolo francese aveva
promesso a sé stesso che andrebbe, andò di
fatti nel settembre del 1792. Ecco la ragione
del titolo, e nel titolo la ragione della conte-
nenza: i dodici sonetti non potevano né dove-
vano dare né più né meno di quello promettesse
il titolo.
gA IRA. 403
Non è di questo avviso il signor Cancogni
della Libertà, E da poi che uno de' sonetti fa
menzione di quelli tra i volontari e i sottoufficiali
del '92 che ottennero glorioso luogo nella memoria
degli uomini, egli vorrebbe nominato tra essi
anche Napoleone: del non averlo fatto, io sono
demagogicamente reo dinanzi alla verità storica.
Ma Napoleone non fu de' volontari e dei sottouf-
ficiali del '92; proveniente dalle scuole militari di
Brienne e di Parigi, era già dal febbraio di quel-
r anno capitano, né in queir anno prese parte alle
campagne contro l' invasione degli austro-prus-
siani; più era còrso: non poteva dunque essere
annoverato tra gli " azzurri cavalieri bianchi e
vermigli „ che nell'estate di quell'anno la patria
premea fuori dal seno plebeo. Spazi il suo nome
in tanti altri versi più gloriosi de' miei: i miei,
per tener fede alla verità storica, dovevano con-
tentarsi del Murat che fu pur re.
Altri curiosi desiderii ha il signor Cancogni, o,
meglio, troppe altre accuse egli mi fa d' interes-
sate omissioni; quanto più sempre esigente verso
me, tanto men fortunato sempre nel suo amore
per la verità storica. Ma come? perché io ricordo
la primavera d'eroi del '92, che dovere ho di
anche ricordare ne' miei versi il supplizio di
Luigi XVI e quello della regina, quello del Robe-
spierre e compagni? Il signor Cancogni ragiona
press' a poco fitto e denso cosi: — Se Hoche è
sublime, è e può dirsi sublime soltanto dopo aver
404 (;a ira.
ridotto la Vandea all' obbedienza, è alla fine del
'93 in cui riprende agli alleati le lìnee di Weis-
semburg e Landau, cioè dopo che Luigi xvi sali
su '1 palco. Marceau muore ad Alten-Kirchen ner95,
quando cioè Robespierre e consorti han già pagato
co '1 supplizio la loro tirannia. Dunque il poeta
dovea trovar modo di " spregiare „ (sic) il 21 gen-
naio 1793: dunque dovea trovare almeno una riga
per il 28 luglio 1794: non lo fece, perché, pre-
valendo in lui un intendimento di " devozione „
{sic) alla demagogia, come la morte di Luigi xvi
rappresenta il delitto più pazzo che la dema-
gogia del '93 commettesse, come il supplizio di
Robespierre e consorti mostra con qual moneta
paghi il demagogo tutti quanti, sieno eglino Gia-
cobini, della Montagna o Girondini, egli volle
tacere verità che forse gli scottavano.
Cosi scrive e ragiona il signor Domenico Can-
cogni: scrive come sogliono scrivere i toscani,
cioè male (gli ho un po' rammendato la lingua e
la sintassi), e ragiona, ragiona, o, meglio, addi-
pana ragioni come un arcolaio. Prima di tutto:
ma chi ha detto al signor Cancogni che io abbia
méssi in versi per ordine di tempo i fasti e le
vicende dei generali venuti su dal '92? Io non
gli ho che annunziati o prenunziati per quello
che saranno e faranno: " Fantasimi che cercano la
guerra „. Ha letto Virgilio il signor Cancogni? ri-
corda o sa come Anchise negli Elisi prenunziando
accenni ad Enea le anime che saranno cittadini
9A IRA. 405
e capitani gloriosi di Roma? E poi, in una poe-
tica rappresentazione del settembre 1792, ordinata
in dodici sonetti; che idea, che pretensione, che
gusto volerci introdotti due fatti disparatissimi
tra loro, avvenuti quattro mesi o due anni dopo?
che giudizio è tenere la non introduzione per
una prova di " devozione „ alla demagogia? Cosi,
avendo io nominato il Murat che fu poi fucilato
nel 1815, altri potrebbe pretendere che avessi
fatto anche un sonetto su la seconda entrata degli
alleati in Parigi e su la carta di Luigi xviii; e
passo passo su V assassinio del duca di Berry, su
la rivoluzione del '30, e, di conseguenza in conse-
guenza, fino alla malattia in suolo straniero del
conte di Chambord, ultimo della linea diretta di
Enrico iv, mentre un avvocato regge lo stato che
una volta era una cosa sola con Luigi xvi. Ma
cosi uno speziale distende e allunga con la spa-
tola sur un pezzo di tela i vari ingredienti per fare
il cerotto alle piaghe del suo prossimo; cosi un
giornalista allunga di data in data un articolo per
provvedere d' alcuno specifico la politica amma-
lata; ma esso signore speziale, esso signor giorna-
lista, non possono pretendere che cosi abbia a
fare un poeta i suoi versi.
Veramente mi dispiace di dover lasciare cosi
a bocca asciutta il signor Domenico Cancogni:
egli è un troppo brav' uomo, e per le fatiche che
si piglia alla caccia, senza cane, della demagogia
per mezzo le boscaglie de' versi altrui, merita un
4o6 gA IRA.
contentino. Èccoglielo. Egli dunque avrebbe voluto
che io spregiassi, se piangere non voleva, il 21
gennaio 1793? Oh senta.
Io ammiro Carlo i: cosi finisce un re vero, un
re del buon tempo antico. Ma un uomo il quale
contraffa ai giuramenti più volte solennemente
dati, alle dichiarazioni e alle manifestazioni pili
volte vistosamente scambiate; un uomo il quale
accetta i ministeri per avvilupparli minarli infir-
marli e ridurli cosi nell' impotenza e poi accagio-
narli; un uomo il quale impedisce la difesa dello
stato, r ordinamento V approvigionamento e la
distribuzione delle forze militari, e corrompe e
guasta 1' esercito, e chiama gli stranieri contro la
sua patria eh' è pure il suo regno, e manda agli
stranieri e ne riceve disegni notizie avvertimenti
istruzioni, tutti in somma gì' instrumenti e gli or-
digni del tradimento; e di tutti questi delitti non
sa difendersi se non dissimulando, negando e
mentendo; quell' uomo, vigente la pena di morte,
è ben sentenziato alla morte. Se non che la con-
stituzione, che egli non osservò e conspirò a di-
struggere, la constituzione lo sanciva inviolabile:
va bene. Di più: 1' educazione gesuitica lo aveva
ammaestrato, e la religione gesuitica lo consigliava
ammoniva e scaltriva, a usar la menzogna come
un doveroso istrumento al servizio di Dio e a
difesa de' preti e di sé: attenuante. Di più ancora:
la tradizione del dispotismo gli avea fazionato
ingegno, anima, le facoltà tutte, a tenere per fermo
^A IRA. 407
che in lui era ogni diritto, che egli era padrone
di tutti e di tutto e specialmente della sua con-
scienza; e che, per salvare gli attributi della mo-
narchia e i privilegi de' suoi fedeli momentanea-
mente minacciati ed invasi, egli potea far tutto,
senza mai mal fare : altra attenuante. E dopo .'*
dopo ciò, io lamento che Luigi xvi non fosse in
fatti, come la natura 1' avea creato, un buono e
forte lavoratore e padre-famiglia plebeo: ma per
il re temo di sentir qualche cosa che si assomiglia
da vero al disprezzo. E Maria Antonietta ? Maria
Antonietta fu donna leggera, di cattivo cuore, e
cagione e ragione principalissima della rovina di
suo marito e forse del regno.
IV.
Tutte le mattine io mi sveglio con una male-
detta voglia di fare ai pugni: il mio primo saluto
al sole è uno sbadiglio che par quello del Gon-
nella quando diventava lupo, quaerens quem de-
voret: il primo sentimento onde mi si annunzi la
vita sana è il bisogno della lotta per l'esistenza:
Quindi serpe in noi miseri un natfo
Delirar di battaglie....
Lettori miei maligni, per mortificare questa
parte ferina della mia natura, che dal fondo delle
viscere ulula e bramisce verso T alto contro gli
uccelletti e le farfalle svolazzanti tra i merli della
torre dell'intelletto, io /accio, come i contadini,
4o8 ^A IRA.
r impossibile: tutte le mattine butto addosso al
corpo quanta più posso acqua fredda, all' anima
un' ora o una mezz'ora di lettura di testi di lingua^
massime ascetici. Cosi mi son ripassato i Dialo-
ghi e i Morali di san Gregorio magno, le Me-
ditazioni e l'Albero della croce di san Bo-
naventura, la Esposizione del Pater noster
di Zucchero Bencivenni e le Prediche del beato
Giordano da Rivalto: carissimo frate questo, e
scrittore molto più dilettevole e garbato e acuto
ed arguto che non i direttori dell' Opinione e della
Nazione. Nel medio evo di tanti e si pazienti
sforzi per domare la parte ribelle e inferiore avrei
potuto raccogliere di gran bei premii. Mi sarei
fatto monaco: chi sa non mi avessero fatto papa?
E allora, giù colli d' imperatori ! Super aspidem et
basiliscum. Oggi non e' è che da esserne commen-
datori; e tutti i fastidievoli smorfiosi e i mariuoli
procaccianti, i quali credono al peso specifico
delle loro personcine e delle loro ciarle su '1 globo
e che i galantuomini non abbiano altra faccenda
se non di badare alle loro civetterie e d' aiutare
le loro birberie, possono impunemente scrivermi
delle lettere che comincino cosi: Ella - o, per
farmi più ira, manzonianamente, Lei - che è tanto
buono e tanto gentile... - Ma chi ve 1' ha detto?
No, io non sono buono: non sono un corrotto.
No, io non sono gentile: non mento.
L' altra mattina dunque, su 1' atto di pigliare
il mio bagno freddo spirituale, mi trovai alle mani.
9A IRA. 409
non so come, in vece dei soliti testi, il volume
secondo delle lettere del marchese Gino Capponi.
E mi abbandonai alla lettura, obliando insieme e
ricordando. Rivedevo il mio dolce paese di To-
scana, là dove è più bello, più sereno, più con-
solato e consolante, in Valdarno. Vedevo la verde
pianura ad aiuole quasi di giardino, tutte alberate,
che a mano a mano si libera come ridendo dalle
strette dei colli digradanti, e di quando in quando
è rinserrata come con una ripresa d' ultimo e
appassionato abbracciamento dai colli che risal-
gono e le si stringono sopra. Corre diritta per il
mezzo la bianca strada maestra: scendono per
una traccia di salici e canne i fiumicelli da' soavi
nomi, e con gli stessi mormorii che tante cose mi
dissero nella mia gioventù, corrono via sotto i
ponticelli leggiadri giù all' Arno. Una processione
lunga lunga di pioppi, le cui cime ondoleggianti
perdono figura e mobilità nella caHgine biancastra
del vespero autunnale, segna e seguita la corrente
del fiume. E la pianura e i coUi sono popolati di
case rustiche, bianche o dipinte, con le due scale
esterne su '1 dinanzi salienti a congiungersi nel
verone impergolato, su '1 quale è un' insegna gen-
tilizia o una madonna che potrebbe parere anche
robbiana. Al pian terreno è la tinaia, il fii-antoio e
le stalle; 1' aia in faccia, e a sinistra due o tre
pagliai non anche manimessi, con un pentolino su
lo stóllo. A pie de' pagliai cucciano i cani: e in
una delle cucce è un bambino, mezzo nudo, che
4IO (;a ira.
fa alle braccia co '1 cane. Il cane gli ringhia ca-
rezzevole su '1 mostaccino tondo e imbrodolato, e
gli tiene le zampe amorosamente leggero su le
spalle, e il bambino si dà pur da fare per atterrarlo:
il piccolo uomo vuol vincere, e casca battendo il
naso, e piange; e il povero cane mugola scodinzo-
lando e abbaia verso la casa. E le stalle mug-
ghiano. Mi paiono proprio gh stessi mugghi che
io sentiva e capiva cosi bene negli anni migliori.
Forse sono gli stessi bovi, e io ho finora sognato:
mi richiamano: li intendo ancora. — Vieni, amico.
Che fai di là dagli Apennini? Non hai anche tu
lavorato a bastanza per la tua sementa di làppole e
pugnitopi? Vieni : la panzanella con le cipolline e il
basilico è cosi buona la sera! — Grazie, cari bovi:
voi parlate toscano molto meglio dei contadini del
padre Giuliani, e avete gusti molto più semplici e
sani de*paolotti del Circolo filologico di Firenze;
e se in Toscana non ci fossero che delle bestie
grandi e grosse e oneste come voi, oh come ci tor-
nerei volontieri ! — Veggo la fattoria, là a mezzo la
collina, di costa tra gli oleandri rosacei e i melo-
grani dal verde metallico, con gli olivi sopra e
d' intorno; la grossa fattorìa con le persiane verdi
€ le bózze agli angoli della facciata, co '1 terraz-
zino e la balaustrata di pilastrini tondi e panciuti
da tutte le parti come, sai' mi sia, Jorick, con le
ferriate medicee inginocchiate e tronfie come la
prosa di Augusto Conti. Esce la fattoressa, e dà
beccare ai pavoni: la fattoressa parla, in fede
9 A IRA. 411
mia, come le donne del Boccaccio: i pavoni si
mirano le penne e paupulano, come fossero tanti
romanzieri della collezione Sommaruga. Al dia-
volo pavoni e romanzieri. — Veggo e saluto su
la cima del colle tra boschetti di lauri, la villa con
le belle logge cinquecentistiche, che sorge splen-
dente nel rosso tramonto. Dietro ha il monte ri-
pido; e su '1 monte una fila di cipressi gracili e
austeri dentellano del loro verde cupo 1' orizzonte
settentrionale tinto in colore di perla. Anche più
in dietro è una torre o un castello. Non me ne
importa. Voglio vedere il sole calante che dà nelle
vetrate al pian superiore della villa, e quelle pa-
iono incendiarsi come al riflesso d' uno scudo in-
cantato. Voglio vedere il sole che passa per le
finestre del primo piano e si sfoga nella gran sala
per le finestre del fondo. Tutto il sole e tutto il cielo,
co *1 nuvolo di pulviscoli d'oro che lo splendor del
tramonto raccoglie dalla terra, inebriata di luce,
circola con voluttuosa letizia per la villa serena.
O madonna Laldomine, fatevi al verone tutta ve-
stita d' argento a udire 1' ultima ballata d' amore
della poesia itahana che fu. Uscite, uscite, ma-
donna, prima che V umida sera cali e ci avvolga.
Ma... leggevo le lettere di Gino Capponi. Ah
si! Come va dunque, sanculotti miei manzoniani,
che il marchese Gino scrivendo non sproposita,
non sgrammatica, non mescola riboboli e france-
sismi, non passeggia in maniche di camicia, non
affetta lo scimunito, la donnàccola, il bamberottolo
412 (;a ira.
e il ciano? Forse perché è toscano da vero e di
razza; di quella gran razza, che dava i priori i
commissari gli ambasciatori e gli scrittori del tre-
cento e del cinquecento. Nel suo stile e nella di-
zione, nei sentimenti e nei concetti, intendo spe-
cialmente delle lettere, si sente 1' uomo che ha
parlato fin da bambino coi veri contadini di Val-
darno e ha studiato i prosatori greci coli' abate
Zannoni, che intende benissimo e gusta fino a un
certo segno i béceri ma ha letto e gusta forse di
pili r epistole famigliari di Cicerone, che scrive
francese al Lamartine e vaglia le varianti della Di-
vina Commedia, che legge ed ammira gli scrittori
inglesi, un po' meno i tedeschi, sempre quanto è
giusto, ma lungi, oh ben lungi, dalla vigliaccheria
dei professorucoli e degli articolisti prosternantisi
a ogni malcreato che ci ruzzoli giù dall' Alpi per
rubargli il moccichino e inalberarlo su la cattedra
e sventolarlo dalla gazzetta, gridando — Questo
è il vessillo della scienza e dell' avvenire.
Nella prosa del marchese Gino ciò che più
attrae è la proporzione, la compostezza, la di-
screzione : virtù o qualità superiori dello scrivere,.
nelle quaH l' animo del lettore si riposa e con-
tenta, come r occhio dello spettatore nelle linee
degli edifizi fiorentini. Si sente eh' egli è nato
bene, che ha respirato nella tradizione e nell' edu-
cazione d' una famiglia, la quale dai lontani avi
visse abitò e parlò civilmente, quella urbanità
schietta, quel nativo decoro, quella virile bontà.
9A IRA. 413
onde la eleganza esce " umile e piana „ come le
donne dei canzonieri di Dante e di Gino, e la fa-
migliarità acquista abito e forma signorile. Il mar-
chese Gino come scrittore è di quelli che non han
bisogno di mettersi i guanti per parer gentiluomini.
Ma a voi; commendatori e conti novelli; a voi
scrittori d* una aristocrazia di borghesucci aspi-
ranti alle altezze del demi-monde, non e' è guanti
che bastino a mascherare e rifare le mani; le
sporche mani, le grosse e nocchiute mani; le mani
storte ed unghiutC; le mani ricamate od incise di
porri di verruche di schianzC; che accusano ben
altri mestieri che il nobile esercizio del fabbro o
del contadino.
Già; e questo marchese Gino in una lettera
del 15 gennaio 1842 a Cesare Cantù scriveva :
" Ognun ha i suoi gusti: iO; quando piglio la penna
in manO; ho sempre la voglia di farmi bastonare „.
Gin marchese gentil, quanto mi piacque!
Lo stessO; io.
Bastonatemi un po'; se potete; lettori maligni.
Io séguito.
V.
Or discendiamo omai a maggior pietà,
discendiamo ai macelli. E ora anche apritevi; o
cateratte dei cieli; e versatemi in capo tutti i tuoni
della indignazione ; apritevi; o fogne della terra,
e sputatemi in faccia tutte le tanfate del disgusto
414 9^ IRA.
e dello schifo, che la sensìbile; la solenne, la ve-
reconda, la coturnata e impennacchiata critica
italiana ha messo da parte per me.
Comincia 1' onorevole M. T. " Nel vi e nel vii
— egli scrive — fra il tappeto ed il bossolo di
belle frasi e d' imagini potenti si fanno sparire le
orrende stragi di settembre, di cui, come tutti
sanno, il principal merito appartiene al " pallido
enorme (bell'aggettivo victorughiano) Danton „,
Di passaggio: se i due aggettivi dati al nome di
Danton non hanno altro difetto che di essere
victorughiani, non vorranno darsi a' cani per ciò.
Gli epiteti nella elocuzione poetica sono di due
maniere: epici e lirici: insigni nelle odi di Orazio
i secondi, i primi in Virgilio e in Omero. Eschilo
tra gli antichi, lo Shelley e 1' Hugo tra i moderni
hanno epiteti di potente invenzione, epici e lirici
insieme, statuari, mobili, coloriti. E anch'io qual-
che volta secondo le forze mie cerco di farne cosi.
Quanto al mio giocar di bussolotti per fare sparire
le orrende stragi, se all' onorevole M. T. 1' " or-
ribile corteo „ del sonetto nono e la " perdi-
zione „ e il
tribunale orrendo
Che d'ombra immane il secol novo impronta
del settimo, oltre il concetto fondamentale di
tutti insieme i tre sonetti micidiali, paiono pol-
vere di pimpirimpi, non so che farci; ma non
per questo vorrò imparare a gonfiar la piva
dai predicatori legittimisti. Di poeti predicatori
9A IRA. 415
l'Italia ne ha a sufficienza: l'onorevole M. T.
certo non ne desidera altri, e sarebbe un far torto
al suo buon giudizio il supporre eh' ei vagheg-
giasse una varietà nuova, la poesia-eloquenza a
uso pubblico-ministero. " Non è dimenticato — se-
gue r onorevole M. T. — nemmeno Marat colla
sua continua morbosa visione di sangue: ma si può
dire in coscienza e buon senso che in qualunque
modo giovasse alla difesa della patria questo mo-
stro, non mai sazio di spinger vittime al patibolo? ,,
Ma né io dissi cotesto, né dissi nulla che a co-
testo somigli. Io dissi in versi quello che fu in
fatti il settembre del '92. I fatti si riducono a due :
la difesa della patria, ispirata dalle nobili tradi-
zioni e dallo spirito eroico della nazione francese:
le stragi, consigliate dalla paura e consumate con
quel delirio di fanatismo, di torva leggerezza, di
avv-entatezza feroce che è nel sangue celtico, e
che si rinnova a fatali periodi in tutte le rivolu-
zioni per le quali passò e passa quel popolo, fosse
pagano o sia cristiano, si nei tumulti popolari si
nelle conspirazioni monarchiche, cosi al mezzo-
giorno come al settentrione, e tra le corti d' amore
e nel rinascimento e dopo 1' enciclopedia. Anche
il Monti vide, con intuizione più che di poeta.
De' Druidi i fantasmi insanguinati
Che fieramente dalla sete antiqua
Di vittime nefande stimolati
A sbramarsi veni'an la vista obliqua
Del maggior de' misfatti...
4l6 9A IRA.
Onde uno studente tecnico di ventidue anni, in-
terrogato air esame finale qual fosse 1' argomento
della Bassvilliana; rispondeva, la decapitazione
di Ugo Basseville eseguita da' druidi: il che può
anche dimostrare la saviezza e la opportunità del-
l' aver dato quella classicissima cantica per libro di
testo agli instituti tecnici. Del resto, ne' miei so-
netti nulla di più, nulla di meno di quello che
avvenne: Danton, come ispiratore e valido soste-
nitore della difesa nazionale: Marat, come insuf-
ilatore delle stragi: e le stragi non difese, non
scusate, ma spiegate come triste atavistica eredità
di sanguinosa ferocia e di espiatorie vendette
nella pur troppo non lieta istoria dei gallo-romani-
francesi.
Il signor Domenico Cancogni a questa volta è
più benigno con me e co' miei eroi : " quei tanti
pazzi „ egli dice " che passano sotto gli occhi
del terribile Danton, del feroce Marat, cogli erti
pugnali „. Ma chi? ma dove? Io ho scritto,
Marat vede ne l'aria oscure torme
D'uomini con pugnali erti passando,
E piove sangue donde son passati.
Se il signor Cancogni crede che in quel ne-
fasto 2 settembre le leggi di natura fossero cosi
pervertite e rotte che gli uomini camminassero
per aria, io non ho che dire; ci pensi lui. Ma il
fatto è che in quei versi io accennava, come in-
tese r onorevole M. T., alla " continua morbosa
9 A IRA. 417
visione di sangue „ deW Amico del popolo, il quale^
non molto innanzi il 2 settembre, aveva scritto
gli basterebbero non ricordo quante diecine di
napolitani con un bravo pugnale in mano e le
maniche della camicia rimboccate per purgare e
salvare la Francia. Vegga dunque il signor Can-
cogni che io nell' espressione fui fedele alla verità
storica un poco più che a lui non paia; e prov-
veda un'altra volta a legger bene: è il meno che
si possa pretendere da un critico di poesia. E av-
verta per intanto che a lui si risponde, solo perché
scrisse nella Libertà) e si risponde non per indurre
la Libertà a mutare 1' appendicista letterario, ma
per indurla o persuaderla, potendo, lei e i giornali
simili a lei, a non voler mai mai discorrere né di
poesia né di critica né di lettere né d' arte. Un
giornale cosi profondamente politico che ha da far
di tutte queste.... ariosterie? Eh via, in carattere
onorevole LibertàX Io compiango, non vorrei dir
peggio, i giovani che si umiliano ai diarii politici
per averne la consecrazione di artisti.
Terzo nella giostra il professor Licurgo Cap-
pelletti mi affronta con un colpo cortese:
L'egregio autore chiama il settembre 1792 « il momento più
epico della storia moderna ». Ed io pure mi sottoscrivo a questa
definizione, ma in parte. Se il Carducci vuol fare apparire
come un'epopea le stragi tremende ed inutili dei prigionieri
dell'Abbadia, della Conciergerie, dello Chatelet, del Lussem-
burgo, ecc., mi guarderò bene dal dividere la sua opinione. Gli
uomini che sgozzano per l'unico scopo di bearsi nel sangue,
che non la risparmiano né a vecchi né a donne né a fanciulli,
Carducci. 4. 27
4l8 9A IRA.
che assassinano senza nemmeno sapere il perché, sono forse
degni di essere tramandati alla posterità per mezzo dell'epopea?
Ringrazio (pigliando il frasario dell'occasione)
con r animo profondamente commosso Y egregio
professore della impartitami lezione d' umanità ;
e gli uomini savi che vogliono andare a letto
senza il pericolo di svegliarsi la dimane con la
testa tagliata tra le gambe della moglie non po-
tranno mai lodarlo a bastanza di questa franca,
nobile, coraggiosa secessione eh' egli fa dalle opi-
nioni d' un poeta settembrizzatore, e della sen-
tenza con la quale oltrepassa su l' eccidio verseg-
giato della principessa di Lamballe: " Secondo
noi — scrive 1' egregio professore — qui 1' epopea
sparisce; e non rimane che il nudo racconto dei
massacri e degli assassinii perpetrati da una mol-
titudine ubriaca ed avida di sangue „. Risento in
queste parole gli echi di quella nobile scuola
toscana, tutta dignità, tutta umanità, tutta tempe-
ranza, dibattente le ali di struzzo per un nuvolate
bambagino di frasi. O dolcissima scuola che fissava
e fissa le norme all'epopea e al dramma dall'au-
tocrazia de' suoi sensi e de' suoi gusti, educati
alla pappa co '1 pomidoro, o coli' aglio vermifugo
del regime mediceo lorenese! Peccato che Omero e
Dante e Shakespeare mangino le bistecche crude.
Ah dunque l' epopea non vuole atrocità? O
Achille che trascina nella polvere dietro al suo
cocchio intorno alle mura di Troia e al feretro
di Patroclo il cadavere di Ettore attaccato con
9A IRA. 419
le briglie traverso le piante de* piedi forati?
Achille che intorno al rogo di Patroclo scanna
i dodici giovinetti troiani? O i Nibelunghi non
son tutti una tela di tradimenti e uccisioni, fino
air enorme combattimento dei Burgundi e degli
Unni nella sala del banchetto e all' incendio che
Krimilde mette alla sala contentando nella strage
di due popoli la sua vendetta? E qui mi scusi
r onorevole M. T., a cui vengo con trapasso un
po' rapido : ma delle due caratteristiche che egli
vuol riconoscere nella epopea — ■ la genuina ed alta
umanità e la espressione dei destini della specie —
sol la seconda pare a me esistere. Achille e Sig-
frido non sono ciò che intendono i più per umano^
o sono umani nel vero senso della parola, cioè
un po' anche bestiali; ma forti e belH sono splen-
didamente, ed esprimono e prenunziano proprio
i destini della gente: Achille è già Alessandro.
Che se, tornando al professor Cappelletti, le uc-
cisioni e le stragi non sono epopea, tanto meno
dovrebbero essere dramma, che è poesia messa
in azione e posta sotto gli occhi di tutti. O il
Macbet, o l'Amleto, o il Riccardo ni, o tutti
gli Enrichi di Shakespeare? O gli orrori delle
tragedie greche? Ma che? O le più belle opere di
pittura delle quali si glorii 1' arte cristiana, mas-
sime in Itaha e in Spagna, non figurano stragi
abominose di vecchi cadenti, di madri co' bam-
bini, di vergini e spose con di molta carne nuda,
con tutte le carni nude? E dopo ciò, voi non
420 9^ IRA.
vorreste che io mettessi in versi, che in fine non
han colori, V ammazzamento d*una donna sola! Eh
via, non spaventate la gente per cosi poco. An-
date, andate, onesti esercenti, e voi degni proprie-
tari, e voi lucidi salsamentari, andate pure al ballo
o a letto sicuri. Se le pitture delle sante martiri non
fecero in tanti anni propaganda di macelleria, non
saranno certo quattordici versi che persuaderanno
in pochi giorni i demagoghi incuriosi di poesia
a scannarvi le vostre spose e le amanti e gettarle
nude su '1 lastrico.
VI.
Ma i due più illustri miei critici sono tutt* al-
tro che persuasi della innocenza in sé di cotesta
mia rappresentazione poetica.
Il colmo dell' abberrazione — scrive 1' onoi'evole M. T. —
è il sonetto vni, che non esito a dichiarare (benché mate-
rialmente ottimo) un delitto contro tutte le muse: e dicendo
muse, non intendo le mitiche figlie della Memoria, ma quanto
vi ha di più nobile e di più gentile nell'anima umana. Né mi
si dica che l'orribile strazio della principessa di Lamballe
innocente, o non rea che di leggerezza, fu severa ed ancora
scarsa espiazione della lunga orgia che illustri donne e com-
piti signori, a cominciare dal « primo gentiluomo di Francia »,
avevano fatto di quel vile secolo decimottavo: no: quando la
poesia raccoglie ed esprime la religiosa commozione di queste
tremende espiazioni, non prende gaiamente il linguaggio della
nefanda feccia che ne è stata strumento.
Ah proprio vero, onorevole M. T. ? Sas tii e' at
è fori? Ma io son duro di pelle e forse anche di
cuore, e dalla ardenza della indignazione senato-
gA iraj 421
ria passo al freddo sarcasmo della camera infe-
riore. Un vero bagno russo.
" Il poeta vuole adunque — scrive V ono-
revole Bonghi — che noi guardiamo i fatti co-
gli occhi suoi „. — Io veramente non volevo dare
a' miei lettori e specie a' critici questo incomodo,
tanto più che non posso, ma e lettori e critici, se
vogliono, si servano pure: guarderanno i fatti con
gli occhi di un poeta (mi lascio andare a dir cosi
per amore della brevità) che ha da ridurre in
versi un avvenimento storico. Se non che V ono-
revole Bonghi non la vede tanto liscia, e, per un
resto di bene che mi vuole, si affretta a ripren-
dere — " Ma fuori del sonetto non li guarda
neanche egli, spero, allo stesso modo. Si fa, dubito,
una natura posticcia per poetare a quel modo „ — .
Questo potrebbe darsi pur troppo. Ecco: io vorrei
riguardare i fatti storici con gli occhi con che li
riguardavano Dante, Shakespeare, e anche, veda
un po' r onorevole Bonghi, Raffaello, per poi poe-
tarli e rappresentarli a modo di essi. E, come
dinanzi a quelle ricche e grandiose nature di ar-
tisti io sono un pover uomo, può darsi benissimo,
ripeto, che mi meriti il rimprovero, in questo spe-
cialissimo caso, di natura posticcia.
" Oh davvero — incalza V onorevole Bonghi —
la signora di Lamballe che
... giacque, tra i capelli aurei fluenti,
Ignudo corpo in mezzo de la via;
E un parrucchier le membra anco tepenti
Con sanguinose mani allarga e spia,
422 ^A IRA.
non isveglia nel cuore e nella mente del poeta
italiano, oggi, altro pensiero se non uno quasi di
scherno ?
Comf* tenera e bianca e come fina!
Un giglio il collo e tra mughetti pare
Garofano la bocca piccolina.
Su, co'begli occhi del color del mare,
Su, ricciutella, al Tempio! A la regina
Il buon di' de la morte andiamo a dare.
Per vero dire, preferisco il parrucchiere, quan-
tunque mi sarebbe piaciuto in sua vece un altro
artista „. Mi dispiace di non poter lasciare all'ono-
revole Bonghi libertà di scelta: bisogna che si
contenti del parrucchiere: parrucchiere fu. La sto-
ria non ha preferenze estetiche. — " Almeno —
riattacca V onorevole Bonghi, scarnandomi fiera-
mente con lo scalpello della sua psicologica inqui-
sizione — " almeno nella sua ferocia v'ha un sen-
timento gagliardo; l'agita un odio profondo. Ma
davanti a una uccisione cosi crudele, di cosi leg-
giadra forma di donna intrisa nel sangue, vi basta
r animo a guardarne senz' altro il collo bianco, la
bocca rosea e gli occhi cerulei! Vero? E poiché
è poco lontana e ricorre al pensiero un'altra donna,
che aspetta la stessa fine, il cadavere di quell' uc-
cisa non serve, per ciò solo che l'altra è regina,
se non a farvi sollecitare il passo per annunciare à
quella " il buon di de la morte „ ? C è pensiero qui
o manca in tutto? E il verso suona soltanto o crea
anche? „ — Rappresenta, onorevole Bonghi. Non
9A IRA. 423
si crea più. — Ma V onorevole Bonghi tira pur
via a schiacciarmi con una contrapposizione. " Un
altro poeta — scrive — un francese che aveva
desiderata la rivoluzione e ci si era gettato dentro^
ma che, come presente eh' egli era, non si lasciava
rubare dalla fantasia e dalla frase il sentimento
del vero, scrisse di quella signora non ancora
uccisa, ma prigioniera, ben altri versi. L' immagi-
nava, anzi, dice, la sentiva nella carcere a lamen-
tare la sua vita troncata nel fiore,
L' illusion feconde habite dans mon sein, ecc.;
e vada nello Chénier, chi vuole, a leggere il resto „•
Ci vada pure, e cerchi a pagine 460-462 lvii
delle Poésies de André Chénier, seconda
edizione critica del signor Becq de Fouquières,
Paris, Charpentier, 1872, e al tomo in pag. 263
delle Oeuvres poétiques de André Ché-
nier pubblicate di su gli autografi dal nipote di
lui Gabriel de Chénier, Paris, Lemerre, 1874. Vada
e vedrà che i versi intitolati La Jeune captive, ai
quali si riferisce l'onorevole Bonghi, furono com-
posti nelle carceri di San Lazzaro, dove lo Ché-
nier era chiuso il 17 ventoso anno due, cioè 7
marzo 1794, ^ ^^ ^ra tratto il 7 termidoro (25
luglio) per il patibolo. Non poterono dunque es-
sere stati composti che nella primavera o nell'e-
state del '94, cioè un anno e mezzo o quasi due
anni dopo la morte della signora di Lamballe. Di
fatto erano inspirati da madamigella Amata di
424 ?A IRA.
Coigny allora diciottenne, che poi fu duchessa di
Fleury e mori nel 1820. Ma diavolo ! Come avrebbe
il poeta potuto far dire di sé stessa
Mon beau voyage encore est si loin de sa fin!
Je pars, et des ormeaux qui bordent le chemin
J' ai passe les premiers à peine . . .
alla signora di Lamballe, che, se bene conservasse
un che d' infantile e fosse bene in carne e fresca
quando fu trucidata, aveva passato la quarantina
più che non le si avvicinasse?
E ora lasciamo pur dire all' onorevole Bonghi:
" A me lasciano questi versi una infinita malin-
conia neir animo; e la chiusa del sonetto del Car-
ducci - devo dirlo - un infinito disgusto. Ma forse
ho il cuore mal fatto; e mi devo purgare di un
resto di sentimentalità, che non è cosa moderna
e molto meno dell' avvenire „. — Io concedo vo-
lentieri a' miei nobili avversari anche l' ironia :
ma non importa eh' io ricordi loro come l' ironia,
per essere forma efficace di argomentazione, bi-
sogna posi su '1 vero. Ora, e 1' onorevole Bonghi
e r onorevole M. T. e gli altri più dilettevoli cri-
tici sono eglino nel vero quando m' imputano di
immorale atrocità e di cinismo perverso o di aber-
razione mentale per il sonetto su la principessa
di Lamballe?
Questi animi turbati e queste gravi
Sedizioni e tanto orribil moto
Potrai tosto quetar se getti un pugno
Di polve in aria verso quelle schiere.
9A IRA. 425
E la polvere sarà non altro che poche parole
d' un gesuita, ma d' un gesuita innocuo — forse
perché non più gesuita — in un* opera innocen-
tissima e discorrendo d' uno de' più gentili e più
nobili spiriti che abbiano onorato la gente italiana.
Il gesuita è il dotto e giudizioso abate Lanzi;
l'opera, la storia della pittura; e l'artista di cui
è discorso, il soavissimo Raffaello.
Se non che prima della pagina del Lanzi e
della dolce faccia di Raffaello sarà bene mettere
sotto gli occhi de' lettori due pagine della storia
della rivoluzione francese scritta da Giulio Michelet
e le orribili facce dei settembrizzatori.
Il Michelet nel lib. viii cap. vi racconta cosi
lo strazio della principessa di Lamballe:
Un de'più arrabbiati, un parrucchiere piccoletto, tamburo
nei volontari, di nome Charlat, le va contro, e con la picca le
strappa via la cuffia: i suoi be' capelli disciolti cadono per
tutt' i versi. La mano mal pratica o ebra dell'oltraggiatore
tremava, e la picca avea sfiorato alla principessa la fronte;
ella faceva sangue. La vista del sangue produsse l' effetto
che suole: molti le furono sopra: uno venne per di dietro e
le gittò un grosso ceppo: ella cadde, e subito fu trafitta di
più colpi.
Spirava a pena ; e la gente d' intorno, per una curio-
sità indegna, cagione forse principale della sua morte, le si
gettò a dosso per vederla. I curiosi osceni si mescolavano
agli assassini, credendo di scoprire nella persona qualche
mistero vergognoso che confermasse le voci corse. Strap-
parono tutto, veste, camicia; e nuda come Dio l'avea fatta
fu distesa a canto un pilastro, su l' entrata della via san-
t' Antonio.
426 (^A IRA.
Il povero corpo, bene in essere per l'età, che non era più
del primo fiore, testimoniava anzi per lei: la testina sua di
bambina, che cosi morta era una pietà a vedere, troppo diceva
la sua innocenza o che almeno ella non avea potuto mancare
se non per obbedienza o per debolezza di amica.
Restò, lamentevole oggetto, dalle otto a mezzogiorno su 'l
pavimento inondato di sangue. Quel. sangue che colava a fon-
tanelle dalle molte ferite, a momenti la ricopriva, quasi la ve-
lava. Un uomo si mise li a canto, per istagnare quello sgorgo:
mostrava il corpo alla folla: Guardate com'era bianca! guar-
date che bella pelle! Quest'ultimo, considerato come segnO'
d'aristocrazia, anzi che la pietà commovea l'odio...
Intanto, o per accrescimento di vergogna e d' oltraggio o-
per paura che la gente alla lunga s'intenerisse, i micidiali si
misero a sfigurare il corpo. Un di nome Grison le tagliò la
testa: un altro fece la indegnità di mutilarla nella parte che
tutti devono rispettare, perché tutti ne usciamo. Di cotesti due
manigoldi l'uno più tardi fu ghigliottinato, come capo d'una
banda di ladri; l'altro, Charlat, fu fatto in pezzi all'eser-
cito da' camerati, che non vollero soffrire tra loro un simile
infame.
Il Michelet seguita poi descrivendo V orribile corteo
che recò ai Tempio le inferie di morte:
Vederli partire dalla Forza, portando in cima alle picche
per quella larga e trionfale via Sant'Antonio, gli orribili trofei,.
fu uno spavento. Una folla immensa seguiva, muta dì stupore.
Da pochi ragazzi e briachi in fuori che gridavano, tutti erano
percossi d'orrore. Una donna, per fuggire a quella vista, si
precipita nella bottega d'un parrucchiere: ed ecco la testa
tagliata che arriva alla bottega, che entra. La donna, fulmi-
nata di paura, cade rovescia... Gli assassini gittano la testa
su '1 banco, dicono al parrucchiere che bisogna fafle i ricci: la
menavano a vedere la sua padrona al Tempio: non era decenza
si presentasse cosi.
9A IRA. 427
Ed ora ecco ciò che V abate Lanzi nel libro
terzo della Storia pittorica delT Italia
scrive di Raffaello da Urbino:
La natura l'avea dotato di una immaginativa, che, tra-
sportando l'anima a un avvenimento o favoloso o lontano»
quasi fosse vero o presente, gli facea conoscere e sentire quelle
perturbazioni medesime che dovettero avere i personaggi
di quella storia; e assistevalo costantemente finché le avesse
ritratte con quella evidenza con cui le avea o vedute negli
altrui vólti o formate nella sua idea.
O dunque quello che fu gloria a Raffaello di-
pingendo sarà infamia a me verseggiando? O
dunque, perché, non volendo o non dovendo io
ridescrivere tutti gli orrori già descritti dal Mi-
chelet, anche per la ragione che la storia cosi
viva non pur nei libri ma nelle memorie schiaccia
al confronto ogni poetica descrizione, tolsi invece
a ripensare e rifare, come voleva la forma di
poesia da me eletta, le perturbazioni di quella
gente che commise quelli orrori, dunque, per
questo che è il mio dovere, e^ se fossi riuscito a
bene, sarebbe la mia lode d' artista in versi, io
ho da essere giudicato peggior uomo del parruc-
chiere che mutilò bestialmente e nefandamente il
corpo della principessa di Lamballe? Capisco la
scolastica ingenuità del professor Cappelletti a do-
lersi che io narri " il massacro della principessa
di Lamballe come fosse la cosa più naturale di
questo mondo „: giacché quel " massacro „ (ri-
piglio per fedeltà il francesismo non mio) è un
428 9 A IRA.
fatto di quel settembre 1792 che io m' ero propo-
sto a rappresentare, e un di que' fatti che meglio
danno l' icastica di quel fatai movimento, o sta a
vedere che per paura di non parere io alle con-
scienze pusille di certi lettori V autore o il com-
plice o il panigerista dell' eccidio, lo dovevo rac-
contare o rappresentare innaturalmente, cioè falsa-
mente? Capisco la rettorica onestà del signor Do-
menico Cancogni, il quale, perché nel sonetto do-
dicesimo titolai di vili li esigli degli emigrati di Co-
blentz, vorrebbe un simil trattamento anche per il
parrucchierino del sonetto ottavo; " ma — osserva
argutamente l'onesto signor Cancogni — la signora
di Lamballe è una principessa : ella è 1' amica di
Maria Antonietta: non può essere quindi un vile
quel sanculotto „. — Capisco, capisco, onesto si-
gnor Cancogni, capisco : i grandi poeti drammatici
dunque, per un qualsiasi sgravio della loro con-
scienza, dovrebbero, come i pittori primitivi, porre
una scritta in bocca o, poniamo, su' cappelli de' loro
personaggi delittuosi. Cosi Jago o 1' uccisore dei
figli di Eduardo iv verrebbero su la scena con
due cartelli inscritti — . Questi è un vile istigatore
— Questi è un vile assassino — . E io, se all' eccidio
da me verseggiato della principessa di Lamballe
avessi aggiunto un sonettino pieno de' soliti im-
properii cari alle scuole e ai giornalisti dell' ordine,
e che fosse finito, per esempio, con questo verso,
" Oh vile, vile, vile, vile, vile „, io avrei fatto un
sonetto imbecille, ma il critico della Liberia sa^
(^A IRA. 429
rebbe rimasto contento come una pasqua. Tutto
cotesto lo capisco: ma che un uomo della coltura
dell' onorevole Bonghi, un traduttore di Platone
e interprete, secondo la mia istruzione, cosi dotto
e agevole della filosofia greca, uno che pur di re-
cente si giuste parole scrisse intorno agli offici
della critica in Italia, venga a fare di queste scene
a me, venga a confondere il soggetto mio con
r oggetto che io rappresento, venga a dire che io
faccio che io penso che io dico quello che fanno
pensano dicono gli attori dell' orribili opere da
me veduti e sorpresi nella storia, che l'onorevole
Bonghi discenda nello stesso errore del buono
signor Cancogni, il quale vede me, sempre me,,
solo me nei dodici sonetti dove non 'entra mai il
pronome io e la persona prima ; che 1' onorevole
Bonghi faccia dica e scriva di coteste — come
s' ha a dire? — diciamo ingenuità come del pro«
fessor Cappelletti e onestà come del signor Can-
cogni — io non me ne so capacitare, non me ne
so render conto, non me ne so fare una ragione,
se non con la preoccupazione politica che ottunde
e smussa anche gì' intelletti naturalmente pili
acuti e più levigati dall' uso de' buoni studi.
VII.
Auf, respiriamo. È afa nel cielo come nel-
r anima mia, afa di nuvole e di parole. Affaccia-
moci alla finestra.
43° 9A IRA.
Il Benaco, dallo sfondo di Riva, tra due pareti
di monti che han su le cime lampi di fuoco e
nebbie in forme di giganti e a mano a mano di-
gradano quasi a sollazzo in collicelli a viti e ulivi
con boschetti d' allori e serre di cedri per ghir-
lande, qui^ nel suo prospetto più largo, viene a
morire a' miei piedi. Su la distesa delle acque è
una tristezza intensa cinerea: qua e là tonfi di
ranocchi che si tuffano, e continua ripercuote dalla
sponda del paese con lo strofinio, co 'l diguazza-
mento e gli sbattimenti, 1' opera delle lavandaie.
Le montagne a settentrione e ponente entro un
velo di caligine azzurrognola biancastra pèrdono
la determinatezza risoluta e superba delle linee
titaniche. Montebaldo non è più baldo, e pare
stanco di tutti i secoli e di tutta la geologia che
sopporta. Monte Gu non apparisce oggi quel-
la enorme gigante caduto supino in battaglia, nel
cui profilo delineato entro al cielo profondo il
popolo ravvisa la faccia di Napoleone morente:
egli è annoiato, e dice agli anni — Smettiamola!
Quanto ha ella anche a durare questa rappresen-
tazione del mondo? Io sono stufo di fare il clown
a cotesta platea di formiche umane irrequiete — .
Manerba spicca a sinistra nella ferrugigna rigidità
d* una barbuta longobarda, che faccia la scólta
r ultimo giorno dell'anno mille; e Garda alla de-
stra cala le nere ale d' una sua gran cuffia mona-
cale su cotanta mestizia, brontolando tra rasse-
gnata e dispettosa De profundis.
9A IRA. 431
Ecco, e ad un tratto un raggio sbiadito di sole
fende la nuvolaglia che a grandi cércini bianchi
incappella la montagna e distendesi a bioccoli
lunghi come una benda giù per il cielo. Ed ecco
Sirmione, non a pena uno strale di Febo guizza
serenante per V aria, ecco la pagana Sirmio sente
il suo dio, e lampeggia d' un sorriso tra il verde
glauco degli oliveti e il bianco delle case di pe-
scatori, su cui adergesi trecentisticamente leggia-
dra la torre scaligera. Sirmio sorride ; e sùbito
una grande insurrezione di linee rosee ed auree,
violacee, paonazze, vinacce, rompe, taglia, intra-
versa la funerea monotonia di cotesto dormen-
torio di acque.
Ma voi, lavandaie di Desenzano, non badate
a queste usualità, che a noi fantastici oziosi pa-
iono di gran belle cose. Per voi il Benaco, la-
vandaie, è un gran catino, e il cielo uno sciuga-
toio. Se fosse qui un poeta giovincello de' soliti
andrebbe smammolandosi su le curve, e lavore-
rebbe per il bordello, mentre voi lavorate, o buone,
per la famiglia. Io vi guardo, serie, silenziose,
solenni lavoratrici; e penso. Le camice della sposa
e le lenzuola tra le quali mori un etico ieri, la
tovàglia dell' osteria e il mantile della mensa di
Cristo, i calzoncini del bambino e la giacca in-
sanguinata del micidiale, voi tutto lavate, o la-
vandaie; e tutto esce bianco o almen netto dalle
acque schiumanti sotto i vostri attorcimenti.
Anch' io risciacquo, lavandaie, idee vecchie e idee
432 gA IRA.
nuove; e le nuove non sono belle, e le vecchie
non sono buone; e queste son ragnate, e quelle
non reggono; e mi riescono dalle mani a ogni
insaponatura più torbe e chiazzate di prima. II
vostro sciabordio turba a pena il primo primo
svariar delle acque su '1 margine: poi viene e
batte una onda più forte; e tutto è turchino come
avanti; e la minuta arena verdastra e i ciottoli
granitici traspaiono rossicci dal fondo, e i pescio-
lini grigi guizzano vispi per quella nitidità fresca
d' acciaio. E se vi prende voglia di pur alzar gli
occhi dal bello specchio del vostro lavoro, voi vi
vedete innanzi il sorriso della riviera e vi saluta
un profumo di cedri che vien da Salò. Io lavoro
sur un filo d' acqua che forse è condotto più che
rigagnolo, e certo mi divien tra le mani pozzan-
ghera: ho per orizzonte una facciata livida di
giornale, e un acre odore d' inchiostro di stampe-
ria mi s'avventa alle nari dall'umidità sporca dei
fogli. Voi verso mezzogiorno ve ne tornate con
fatica di molta e soldi pochi: ma non so perché
la fiamma, che divampa sotto i paioli nei pian-
terreni aff'umicati delle casucce che non hanno
segreti, a me paia lieta. Io metto assieme di
gran malinconia e di gran dispetto per le sere,
quando non e' è più il sole né il lavoro, e più
assiduo e insistente mi circonda il bisbiglio dei
morti. Quanto a soldi, domandatene il signor
Angelo Sommaruga. Certo, sono più de' vostri.
Ma pure...
9A IRA. 433
To'; che è quel!' uccellacelo che passa? Lo ri-
conosco, ma non ricordo il nome che me ne han
detto i barcaiuoli del lago. È un uccellacelo gra-
vacciuolo, pigrO; stridulo in vita, duro, stopposo,
insipido da morto. Oh uccellacelo fratello, cigno
gentily pigliati T anima mia di scrittore italiano, e
lasciami esser te. Ch' io non vegga e non oda più
nulla di politica e d' arte, e mi divaghi sotto il
sole, e voli alla meglio, o anche alla peggio,
come te.
Tutto inutile: Angelino si farebbe cacciatore
per tirarmi anche da uccello, e poi mi chiede-
rebbe la storia della metamorfosi. Oh Angelino,
cacciatore lungo e feroce! da quanto la ballata
di Bùrger commentata dal Berchet.
Vili.
E ora ad altre opposizioni di storia o di mora-
lità storiche risponderò per le corte: risponderò
non per vanità di parer saputo o per ismania di
voler sempre ragione, ma per dimostrare al signor
Cancogni e all' onorevole M. T. che la devozione
e la retorica repubblicana non sopraffecero in me
la fede alla verità storica, come la devozione al-
l' ordine e la critica dottrinaria o moderata non
salvò loro dalle avventatezze e dagli errori: ri-
sponderò per togliere all'onorevole Bonghi ogni
dubbio non io per avventura mi lasciassi nel com-
Carducci. 4. 28
434 ^A IRA.
porre quei sonetti pigliar la mano alla fretta. Oh,
la fretta;
Che r onestate ad ogni atto dismaga.
io non r ho avuta mai se non forse nel mover
dei passi. Quanto al movere dei pensieri, la Musa
della procrastinazione ha salvato l'Italia da molte
opere mie di verso e di prosa. E come nello scri-
vere non mi lascio andar mai né pur mandando
tre righe a un giornale, cosi di quello che scrivo
io sento e voglio aver V obbligo di rispondere,
quando sia il caso, non pur dinanzi alla legge,
ma e dinanzi al giudizio degli uomini autorevoli
e degli onesti, anche se, anzi specialmente se,
avversari. E per ciò rispondo agli onorevoli M. T.
e Bonghi, e mi servo del signor Cancogni, come
di distrazione, perché egli è onesto fin troppo.
A noi dunque.
Nel sonetto terzo la vecchia che fila non è, come
parve all'onorevole M. T., la Parca; ma si un
fantasma che nella imaginazione del popolo di
Parigi e secondo una vecchia leggenda mostra-
vasi in qualche parte del palazzo delle Tuileries
quando sventura o morte incombesse.
Del sonetto primo V onorevole M. T. affermò
che non è punto storico: i villani — egli dice —
tormentati ner loro campo dagli spiriti eroici non
erano^ o ben radi, tra gli azzurri; correvano al-,
trove a formare le falangi de' bianchi: sono già
molti anni che la storia. ha cancellato le leggende
9A IRA. 435
deir entusiastico accorrere dei campagnoli sotto
il vessillo tricolore. • — Si risponde: Il contadino;
già divenuto o su '1 divenir proprietario, che arava
una terra sua per una raccolta sua, non indugiata
o frastornata da obbligo di servigi rusticali; non
tempestata dalle cacce del signore, non ismunta
dalle decime dell' abate, avea tutto il vantaggio a
difendere la rivoluzione specialmente contro la in-
vasione straniera, con la quale tornavano gli emi-
grati, dei quali emigrati aveva abbruciato o avea
veduto non senza partecipazione del cuor suo ab-
bruciare i castelli, dei quali castelli aveva occu-
pato o era su 1' occupare ciò che restava di ser-
vibile per farne qualche cosa di nuovo più utile
e umano. Il contadino dunque neir estate del '92
odiò, con vecchio cuore di francese e con nuovo
di cittadino, V invasione, e la combatté. Vegga
r onorevole M. T. il Michelet specialmente al libro
sesto capitolo primo, e nel libro ottavo a ogni
passo.
Nel sonetto sesto, all'onorevole M. T. dispiace,
senza però incolparne me che non l' inventai, quel
retoricissimo Morir, dove ogni attore di provin-
cia non può non rammentarsi il famoso Qu il
mourùt del vecchio Orazio. Come fare — domanda
egli — poesia epica di queste reminiscenze di
teatro e di scuola? — Si risponde: Prima di tutto,:
adagio un po' con la retorica. Questo vocabolo e
r altro di posa, due francesismi, al solito, di con-
cetto e d' espressione, da un pezzo in qua noi tutti
436 ^A IRA.
ce lì sciaguattiamo un po' troppo per le bocche
e sotto le penne. Quello che noi non sappiamo
o non vogliamo sapere^ quello che non sapremmo
fare o non ci sarebbe utile fare^ è retorica-, quello
che a fare e' incomoderebbe o ci guasterebbe coi
tali e tali altri o che la coscienza ci rimprovera
di non aver fatto, è posa. Della coerenza nelle
proprie idee e del sacrificare a quelle vantaggi ed
onori, sentii tempo fa dire a una signora: È re-
torica. Del non voler dire bugie né anche poli-
tiche e letterarie; sentii dire a un professore:
E una posa. C è da temere che un giorno o l'altro
un nostro fratello ladro provi con saldo ragio-
namento alla eccellentissima corte che il non ru-
bare, potendo senza pericolo, un fornimento di
posate d' argento, è retorica, che il non sollevare
dal peso dell' orologio d' oro un cittadino addor-
mentato in luogo aperto solitario e sicuro t posa)
e e' è anche da temere che il pubblico applauda.
Quegli applausi non sarebbero in fine che il vol-
garizzamento dell' espressione bel colpo, sinonima
d' un furto fatto bene, e degli elogi plutarchiani
che i giornali danno a chiunque renda un porta-
fogho cascato a qualcuno di tasca. Del resto, come
può r onorevole M. T. accertare sé e gli altri
che quel morire suggerito, anzi strappato, dal
momento solenne a tutti insieme a un punto i
cuori e le bocche di più cittadini, fosse una re-
miniscenza di teatro e di scuola? E fosse pure:
dispiace che un uomo come l' onorevole M. T.
gA IRA. 437
non voglia, per sue fissazioni contro la rivolu-
zione francese, capire quale grandezza a ogni
modo acquista cotesto motto preso in prèstito a
un gran poeta della patria da una grande assem-
blea in un momento come quello. Non sente egli
r ideale che si fa il vero e il vero che si fa ideale?
Io credo che il nobile spirito del poeta normanno,
se giù negli Elisi gli giunse notizia del plagio o
della citazione sublime, ne esultò neir animo suo,
più che quando un uditorio di marchesi sotto o
contro il cenno del cardinale di Richelieu fremè
d' entusiasmo la prima volta a cotesta romanità
della sua musa di provincia. — L' onorevole Bon-
ghi non ha che dire su '1 morir] ma non gli sa
di squisito r assemblea seduta, la vorrebbe almeno
per metà levata in piedi. Eh guà! a lui, che in
Montecitorio sta sempre seduto a correggere le
bozze del Platone, un pò* di varietà non dee di-
spiacere. Ma seduta io vidi nella mia imaginazione
la Legislativa, e forse fu di fatto, per un segno
della superiorità che quella assemblea di cittadini,
sentendo sé essere la patria e la legge, asserivasi
su la forza militare. La Legislativa comandava la
morte, come la Convenzione ordinò la vittoria; e
alle sentenze rispondevano i fatti. Quei cittadini,
commissari agli eserciti, disarmavano i generali
in mezzo ai loro reggimenti e li mandavano pri-
gionieri a Parigi: prendevano, a capo dei reggi-
menti, un fucile e marciavano su *1 nemico. Quei
cittadini potevano benissimo non moversi di posto^
438 gA IRA.
non movere collo o piegare costa, in presenza di
soldati che non avevano fatto tutto il loro dovere
e venivano a schiamazzare all' assemblea. Parla-
menti i quali non credano fermamente che un
generale, che ha la somma fiducia, i sommi onori,
i sommi onorari, in certi casi ha da vincere o da
morire, e se no, ha da pagar della testa; parla-
menti i quali in vece si facciano lusingatori, piag-
giatori, educatori delle gloriole, delle vanità, delle
intemperanze, delle prepotenze e delle impotenze
militari; tali parlamenti, dico, procurano alle loro
patrie le ignominie di Lissa, senza vendetta e
senza rivincita.
Del sonetto quinto il signor Cancogni dice che
è un' uscita violenta d' un sentimento di vendetta
dall' animo mio, e non s' accorge che il sonetto
rappresenta il sopravvenire a un tratto della no-
tizia in una piazza o in un club di Parigi e che
è il popolo o gli oratori del popolo che parlano
— " Udite, udite, o cittadini,... — ...gitta ultima
sfida L' anima a i fati a T avvenire e a noi —
E la non nata ancor gente ci grida „ — . Non
bada a queste piccolezze il signor Cancogni, e,
sempre per quell' idea sua che ne' dodici sonetti
su '1 settembre del '92 io, se non fossi stato so-
vraneggiato dal sentimento demagogico, avrei
dovuto inzeppare tutta, o almeno fino al '96, la
rivoluzione, lamenta che la vendetta non invocata
per i carnefici di Maria Antonietta e di Elisabetta
è stata solo invocata per 'Verdun, perché Verdun
9A IRA. 43^
ha addosso Tonta d* aver fatto (viltà!) la corte
al conte d' Artois, al futuro Carlo x, al fratello di
Luigi XVI. Si risponde: Verdun, ecco, fece qual-
cosellina d'altro: le sue fanciulle, o parecchie
delle sue fanciulle, presentarono fiori al re di
Prussia che varcava nemico le frontiere della
patria, che varcava conquistatore le porte della
città del patto carolingio: le sue fanciulle, o pa-
recchie delle sue fanciulle, ballarono con gli ufficiali
prussiani. Anche 1' onorevole M. T. lamenta che
quel sonetto " raccolga V eco dei furori giacobini
contro Verdun, che poi dovevano sfogarsi atro- .
cernente colla ghigl^iottina „: ed aggiunge " Né <^
dica il poeta: giustizia! che non è giustizia quella
che può destare cosi profonda pietà, imprimendo
un marchio di Caino sulla fronte dei giudici e
degli esecutori „. Alla pietà dell'onorevole M. T.
si risponde: Per le donne che abbracciano e sa-
lutano i nemici della patria io non ho tenerezze.
A coteste puttanelle di Verdun la mannaia credo
anch' io che fu troppo, ma oh che santo scoparle
a dorso d' asino per le strade! Cosi pensai fin da
ragazzo, quando vidi le " sfacciate donne fioren-
tine „ — ed erano gran dame e titolate — far festa
al maresciallo Radetzky.
Nel sonetto settimo 1' onorevole Bonghi scambiò
la bianca ragazza per la Francia personificata, e non
trovò in quel tratto limpida la locuzione. E avrebbe
avuto ragione, se non avesse sbagliato; ma non
ebbe torto dello sbaglio: io volli comprender
44° 9 A iR-^-
troppo in poche parole, e fu a danno della chia-
rezza. Ma r onorevole M. T., che in quelle parole
intese il paragone tra la Francia e V eroica da-
migella di Sombreuil, la quale costretta dai mani-
goldi per salvar la vita al padre bevve una tazza
di sangue umano, non so poi perché qualificasse
di barocco e sofistico il paragone. Sofistico, nel
modo suo di pensare, può essere: barocco, biso-
ryy^ì gyierebbe provarlo: ma questo non importa più
che tanto.
Nel sonetto nono il signor Cancogni domanda :
Perché quest' ultimo Capete, questo Luigi Capeto, deve egli
chieder perdóno a Dio « de la notte di san Bartolomeo »?
Perché deve egli pagare le colpe di Carlo ix di Vulois, della
reine mère, de' Guisa, de' fanatici cattolici del 1572 ? Forse
perché torme furibonde di popolo trascinarono quel disgraziato
e debole principe da "Versailles a Parigi e lo obbligarono ad
agonizzare fra il coltello e la paura nelle disabitate, nelle
« ree Tuglieri di Caterina », fino al di' dell'assassinio?
Più acutamente V onorevole M. T. :
Né più giusto concetto del corrispondere la pena alla colpa ha
il poeta nel nono sonetto, dove al re imprigionato nel Tempia
e circondato dall' onda del popolo furente fa chiedere a Dio
perdóno della notte di san Bartolomeo. L' opera dì sangue di
quella notte fu compiuta in pienissimo accordo col popolo di
Parigi, che era nel secolo decimosesto cattolico furioso e ve-
ramente «//ra / quindi sarebbe assurdo che questo buon popolo
ne facesse nei suoi discendenti giustizia sul!' erede del fiacco
e crudele re-poeta.
Si risponde: Tutt' altro anzi che assurdo. È la
Nemesi storica, che per simiU riazioni vendica il
9A IRA. 441
pervertimento provocato dall' alto in basso. L' ono-
revole M. T. non ha bisogno che io glie ne in-
segni : ritorni a sua scienza. Del resto il primo a
invocare la espiazione dovuta dalla casa di Francia
per i suoi regii delitti^ 1' augure del supplizio di
Luigi XVI, il profeta del terrore, fu Dante Ali-
ghieri :
Io fui radice della mala pianta
Che la terra cristiana tutta aduggia,
Si che buon frutto rado se ne schianta,..
O signor mio, quando sarò io lieto
A veder la vendetta che nascosa
Fa dolce 1' ira tua nel tuo segreto?
Cotesta espiazione o vendetta il poeta del media
evo fa per maggiore strazio che la chiegga a Dio
il capostipite dei Capeti, quand' era ancor recente
la santità di Luigi ix : ora da Filippo il Bello a
quel bastardo Borbone che tirava del fucile ai
muratori su i tetti e agli spazzacamini pe '1 di-
vertimento di vederli ruzzolare di cosi alto, i de-
litti dei Capeti tesoreggiarono tant' altra ira di Dio
e di popolo, da far attuare nelF età dei filosofi
sensibili e umanitari la tetra visione che dopo il
supplizio di Corradino e dei Templari balena
nella fantasia al poeta dell' inferno cattolico.
Del sonetto undecimo " Chi non vede — grida
il signor Cancogni — attraverso le ruote del mulino
di Valmy, in quel sangue cittadino che dà a que-
ste il movimento, la speranza onde il Carducci
incoraggia il bianco mugnaio, la speranza, dico.
442 (;a ira.
di un avvenire demagogico? „ Si risponde... o
meglio, al signor Cancogni che vede un avvenire
demagogico nella liberazione del territorio della
patria dall' invasione straniera e nel trionfo della
rivoluzione francese, cioè dell' uguaglianza civile,
della libertà del pensiero, del progredimento eco-
nomico, alla fine non si risponde: si rimanda alle
decime dell' abate, al servizio del marchese, si
rimanda al sant'uffizio e al bastone austriaco, o
meglio srraccomanda a un metodo igienico e die-
tetico che conferisca allo svolgimento del fosforo.
E ci si rivòlge all' onorevole M. T., il quale
scrive:
Negli ultimi tre sonetti invece non manca lo spirito epico, ma
guasto^ della retorica dei clubs e delle gazzette e degli storici
che ne raccolsero e tramandarono la tradizione. Certo la difesa
delle Argonne fu un lampo di genio militare che fa onore a
Dumouriez e a' suoi cooperatori, ma il cannoneggiamento di
"Valmy (la canonnade de Vahny, come la chiamano gli storici
francesi) fu in sé stesso ben poca cosa; e per decidere il duca
di Brunswick, dopo le spampanate del suo manifesto, a ritirarsi,
ci volevano altre ragioni: venissero poi dalla frammassoneria,
di cui lo stesso generalissimo degli alleati si trovava essere
gran maestro, ovvero, come molti asserirono, da un basso
mercato, di cui i diamanti della Corona, appunto in quei giorni
spariti, sarebbero stati il prezzo.
Io non avevo bisogno di questo passo per sa-
pere che l'onorevole M. T. conosce della storia
anche i più segreti aneddoti e i pettegolezzi. Ma
qui non era il caso. Fu la frammassoneria, furono
\ diamanti della Corona che fecero risolvere il
^A IRA. 443
duca di Braunschweig alla ritirata? Io non ci
credo: ma non disputo. La battaglia di Valmy
fu una canonnade ? E fosse. L' esercito del re di
Prussia da una parte, V esercito dell' imperatore
dall' altra, dovevano marciare su Parigi per rias-
settare le cose di Francia come innanzi all' '89:
avean chiamati mallevadori della " resistenza che
fosse fatta a loro o d' ogni nuova offesa recata
alla famiglia reale tutti i francesi: avevano mi-
nacciato di radere al suolo Parigi, e promettean
forche a mezzo mondo : la famiglia reale gli aspet-
tava salvatori, i ci-devant gli invocavano vendi-
catori, i principi e gli emigrati correvan tra loro
vestiti da ballo : era credenza di tutti che non in-
contrerebbero resistenza e che gli eserciti rivo»-
luzionari dinanzi a loro si squaglierebbero: tutti
ridevano di quegli eserciti che non aveano né
disciplina né organamento né generali. In vece la
battaglia di Valmy costrinse i Prussiani a una ri-
tirata ignominiosa; la battaglia di Jemmapes die i
Paesi Bassi ai Francesi. Legga, o, per dir meglio,
rilegga 1' onorevole M. T. questa pagina delle
Memorie di Wolfango Goethe scritta la sera del
2 ottobre 1792:
L'esercito passò il ponte (sul'Aisne): tutti i visi erano scuri,
chiusa ogni bocca, una sensazione come d'orrore. A mano a
mano che si avvicinavano i reggimenti nei quali sapevamo
d' avere dei* conoscenti e degli amici, correvamo incontro; e
abbracciamenti e discorsi; ma che questioni, e che lamenti, e
che vergogna, non senza lacrime!... Cosf passò tutto quel giorrto,
e io mi vidi innanzi la ritirata, non pure per qualche imagine
444 9^ IRA.
o a tratti, ma in tutta la sua realtà. Una scena cosi triste
dovea chiudersi anche più tristemente. Il re giunto da lontano
a cavallo co'l suo stato maggiore si fermò al ponte un pezzo
in silenzio, quasi volesse anche una volta abbracciar con la
vista e riandar co'l pensiero la campagna; ma al fine prese la
via di tutto il suo esercito. Nello stesso momento \l duca di
Braunschweig comparve su 1' altro ponte, s' indugiò un poco
e poi die di sprone.
Dunque? Dunque, (^a ira — ciò anderà —
cantava da due anni il popolo francese: (^a alla
— ciò andò — nel settembre del 1792. Questa
non può essere epopea, perché non v' entra leg-
genda: non sarà lirica, per difetto d' uguaglianza
da parte mia : ma storia è, storia, storia ! Se il si-
gnor Cancogni ci vede il trionfo della demagogia,
non so che farci, o, meglio, ho proposto il rimedio :
che r onorevole M. T. ci veda il trionfo della
frammassoneria, via, non è da lui: né meno il
padre Bresciani!
E con ciò vien risposto anche all' onorevole
Bonghi, il quale non vuol prendere per il suo verso
V Avanti del contadino francese nel primo sonetto
e la novella storia del Goethe nell'ultimo e ci vede
sotto chi sa che misteri. " A quel motto — egli
scrive — e a quella parola e permesso chiedere
che se ne surroghino altri, più pieni di senso; è
permesso pretendere dal poeta, che egli dica che
cosa la novella storia è stata, e che mai Vavanti^
a parer suo, possa ancora essere nell' avvenire „►
Ma perché 1' onorevole Bonghi mi vuol costringere
a spiegargli che V Avanti del contadino è contro i
9A IRA. 445
Prussiani e gli Austriaci invasori, e che il motto
del Goethe significa semplicemente questo che
vengo a dire? — Da poi che un gruppo di fan-
taccini e di cannonieri male in arnese e raccoz-
zati in fretta e in furia tra la marmaglia di Pa-
rigi e delle altre città rivoluzionarie ha non solo
fronteggiato, ma respinto, i soldati di Federico ii,
il genio dei tempi è mutato, e ne vogliamo ve-
dere di belle: per esempio, che un capitanuccio
còrso con un nome stravagante, il quale allora
tramava oscure cose in Sardegna e in Corsica,
di li a quindici o sedici anni assistendo in Ber-
lino o in Vienna alla commedia francese avrebbe
voluto vedersi sotto e intorno una platea di so*-
vrani delle vecchie razze.
IX.
Ma pur troppo sotto la deprimente preoccu-
pazione politica r onorevole Bonghi aombra, come
fosse un delegato di polizia circondato dalla spet-
tral visione dell' on. Depretis. Egli domanda : " Che
e' è egli nelle condizioni presenti d' Italia 0 di
Europa che ricordi i tempi alla cui ammirazione
ci richiamano, il cui ricordo risvegliano cotesti
dodici bei sonetti ?.... Che azione può essere
quella del poeta nell' evocare immagini siffatte
avanti agli occhi de' suoi concittadini ? „ E né
anche gli passa per la mente che gli si possa
rispondere con altre si fatte dimande: Che c^era
44^ 9^ i^A-
egli del 1799 nelle condizioni del granducato di
Weimar e dell' Impero, che ricordasse allo Schiller
la prigionia e il supplizio di Maria Stuarda? E
che azione più di recente, nel 1867, volle eserci-
tare su la monarchia austro-ungarica Roberto.
Hamerling componendo i)tì:;^/o;z e Robespierre^
una tragedia d' orribili evocazioni, la quale pur
non gì' impedi d' essere o di seguitare a essere
il poeta favorito delle dame di Vienna e dell' im-.
peratrice Elisabetta? Ma le dimande dell'onorevole
Bonghi, irragionevoli rispetto all' estetica e alla
critica letteraria, hanno il motivo del sospetto poli-
tico che è r anima della sua requisitoria " Adun-.
que, (;a ira ? — Non se ne dubita, poeta illustre,
ma ella è felice, se non è punto in pensiero di
dove ga aboutira „ : hanno la ragion d' essere in
queste massime e da questi giudizi, non tutti
per avventura storicamente giusti, dell' onorevole
M. T.:
Quando 1' anima umana è offesa nel suo sacro diritto al vero.
e al giusto in ogni cosa, non può per lei svolgersi il fiore del-
l'alta poesia. -E di necessità l'aduggia quel giacobinismo, che
già da molti anni in Francia accusato e condannato da liberali
de'più noti, ed ora sottoposto a terribile processo da un duce
dei positivisti, fra noi, gentil sangue latino, avvezzi a pascere
con orgoglio e delizia degli altrui rifiuti e sempre inclinati
alla servile imitazione, rifiorisce di novelle fronde e si prepara
per non lontani trionfi. I quali sembra che gli si augurino con
questo titolo che dal passato facilmente si trasporta al presente.
Io mi confesso temperatissimo, anzi scarso am-
miratore del signor Taine e del procedimento si-
9A IRA 447
stematico ond' egli; apparecchiatore troppo colo-
rito e incalorito per positivista^ dà per mezza
alla storia cosi delle lettere inglesi come dei ri-
volgimenti francesi. Ma con ciò che scrissi del
giacobinismo or è a pena un anno, se met-
tesse conto citare me stesso^ potrei appellarmi
dalle sentenze dell' on. M. T., dove mi registra
tra i pusillanimi sempre inclinati alla servile imi-
tazione, che usan pascersi con orgoglio e delizia
degli altrui rifiuti. Ma io non ho tempo a difen-
dermi dall' onorevole M. T.; debbo attendere al-
l' onorevole Bonghi, che senza requie m' incalza
chiedendomi fin con l' ironia il mio programma
politicò. " Ma forse il Carducci vede chiaro ciò
che a tanti è scuro „.
Cotesto forse no ; ma l' onorevole Bonghi è
uomo dotto, e non può avere intorno a quelli che
professan poesia i pregiudizi della stupida arcadia
dei politicanti. Io dunque, giacché l' onorevole
Bonghi par che lo desideri con tanta impazienza,
gli farò il mio programma politico : non mi costa
nulla, perché io non aspiro a nulla. Non aspiro
a esser ministro né della monarchia né della re-
pubblica, fion volli e non voglio essere deputato,
non sono né voglio essere capo o interprete di
verun gruppo di veruna associazione di verun
partito, perché non voglio essere il servo de' miei
capeggiati e l' instrumento degli interpretati. Vor-
rei (e questo con implacabile e implacata ambizione);
essère il signor tal de' tali asciutto asciutto, senza.
448 <;:a ira.
epiteti né aggettivi e co '1 men possibile di relativi.
Non potendo concedermi tanto, mi contento a
esser professore di lettere italiane al servizio dello
Stato, fin che piaccia alla maggioranza di tolle-
rarmi: quando non più, V onorevole Bonghi e i su'oi
amici sanno che io non fo richiami né querele,
né gagnolo né abbaio, né lecco le mani né mordo
le zampe per di dietro; mi tiro in disparte dietro
un pagliaio e abbaio alla celeste paolotta.
A proposito di cani. E' m' interviene, e parmi
assai lieto caso, come a queir uomo da bene, il
quale più per diletto suo che per mestiere usava
impagliare le spoglie di cotesti nobili animali, e
tanto piacere pigliava dell' opera e tanto si acca-
lorava a vedersi crescere e arrotondare e affigu-
rar tra le mani quelle care forme, che seguitava
a pur insaccare nelle pelli e paglia e stoppa e
altri ingredienti, e inzéppa che t'inzeppo, gli ve-
nian poi fatti de' cani lunghi, lunghi, lunghi. —
Cosi a me i discorsi.
Su, discorsi-cani, ai polpacci dei lettori ma-
ligni.
X.
Ecco ora il mio programma.
Io, non che augurare o invocare all' Italia ri-
volgimenti come quelli di Francia nel '89 nel '92
nel '93, credo tali rivolgimenti in Italia impossi-
bili, non pure per le troppe diverse condizioni
^A IRA. 449
di popoli di governi di tempi che tutti veggono
e sentono, ma perché in politica V imitazione non
riesce che a fantocciate, la cui ridicolaggine, di-
vertente fino a un certo segno, non vale il costo.
Non so se in Italia ci sia dei dilettanti di lanterne
o di ghigliottine: certi accademici comunardi che
beveano petrolio come gli arcadi le pure linfe
di Ippocrene, e che volevano impiccare gli altri
e alla disperata sé stessi, come tanti personaggi
di una commedia pastorale dove i montoni fos-
sero affetti d' idrofobia, cotesti accademici si ap-
pagarono a passare scrittori nei giornali mini-
steriali, e professori, credo, di lettere nelle scuole
del regno; nelle quali voglio sperare non fac-
ciano soverchio strazio dei membri del periodo
e non impicchino il senso comune alle forche
dei gerundi.
Io dunque delle paure espansive e attaccaticce
d' un presente male appreso non mi sento quel
tanto che basti per raggrupparle in nuvole di odii
e farle ricadere in pioggia di epiteti abbominosi
su la storia del passato. Il " (^a ira di canagliesca
ed atroce memoria, il truce e sguaiato ritornello
della ribalda canzone giacobina „, perdóni 1* ono-
revole M. T., è un po' troppo. " Canagliesca me-
moria „ sia pure. Mi saprebbe dire Y onorevole
M. T., che sa tanto di storia, quali e quanti mu-
tamenti sociali senza opera della canaglia ci narra
la storia? E quanti e quali rivolgimenti politici,
cui la canaglia non desse il muscolo del braccio
Carducci. 4. 29
450 QA IRA.
e la rabbia affamata, riuscirono? Les aristocra-
tes on les pendra: male, male, senza dubbio. Ma
r onorevole M. T. voglia un po' contare le rivolu-
zioni sociali, politiche, religiose, che passarono
senza vittime. Ahimè, tutta la storia umana è
un' orribile marea di sangue ; e la corrente che vi
passa in mezzo più rapida più profonda più nera
è di quello versato dai re dai nobili dai preti pur
fuori della guerra guerreggiata. I due versi che
suonan lanterne e impiccagioni furono, ben ri-
corda r onorevole Bonghi, solo più tardi aggiunti
alla canzone, che in principio cantava
Celili qui s' élève on 1' abaissera
Et qui s'abaisse on l' eleverà, ^/ ^
ove r onorevole Bonghi ha il torto di non vedere
e riconoscere altro che " il veleno della gelosia
tra le classi; il veleno di non volere chi è giù
tollerare niente che gli stia di sopra, e di non
e' essere altra méta alle società umane, che il non
lasciarci nulla che si elevi „. Oh no, questi due
versi sono il verbo della missione di Gesù: Chiun-
que s' innalza sarà abbassato, e chi si abbassa
sarà innalzato (Luca, xiv, ii). Che se vogliamo di-
scutere della civiltà di quella missione, discutiamo
pure, ma altrove; per ora stia fermo che la rivo-
luzione francese fu un moto storico altamente
cristiano, che la canaglia sanculotta strillando il
fa ira cantava le massime del Nazareno, il quale
anche affermava essere venuto in questo mondo
^A IRA. 451
à portare non la pace ma la spada. Per ciò veda
r onorevole M. T., che; se la ribalda canzone gia-
cobina ha degli accenti pur troppo feroci, — qual
è angolo della storia donde non si odano urli di
iene più spesso che ruggiti di leoni? — ne ha
pure di quelli che risuonano con evangelica sem-
plicità il sociale rinnovamento predicato da Gesù.
E altri ve ne ha che riecheggiano memorie e
speranze sublimi ai cuori umani: questo verso,
per esempio,
La Hberté triomphera.
Quando io penso, onorevole M. T. e onorevole
Bonghi, che al canto di cotesto verso furono ab-
bruciati gli infami titoli della conquista, della usur-
pazione, della sacrilega frode, io che ho tra' miei'
vecchi chi combatté i repubblicani francesi nelle
guerriglie di Carrara di Montignoso e di Cama-
iore, io il cui avo perde quel poco che aveva per
danni giacobinici, io, onorevole Bonghi e onore-
vole M. T., cosi digiuno come sono, mi sorprendo
a cantare di tutta lena
Ah ga ira, ga ira, ga ira;
e mi viene una matta voglia, in su questo mez-
zogiorno di luglio, in mezzo a questi libri di
crusca che mi guardano stupidi con tanto d' occhi
rossi e neri, e gialli spalancati come quelli dei
granch? dalle costole delle legature, di ballare la
carmagnola, e di abbracciare almeno in ispirito
452 (;a ira.
anche voi, onorevoli Bonghi e M. T., e tirarvi
per forza a tondo a cantare anche voi.
Ah ^a ira, ga ira, ca ira!
La liberté triomphera.
E guai per noi, se non avesse trionfato. Né voi,
onorevole M. T., sareste oggi senatore d' Italia,
né voi, onorevole Bonghi, sareste stato ieri o sa-
rete per avventura dimani ministro del re d' Italia.
E non venitemi fuori con le invenie del Botta
e del Balbo, che la rivoluzione francese calò tra
noi a turbare con orribile danno delle cose nostre
il placido svolgimento a cui i reggimenti politici
e la economia paesana avviavansi mercé le ri-
forme iniziate e promosse dai principi. Altro che
cataplasmi di riforme ci voleva a rifare il sangue
di quel vecchio popolo italiano, di frati, briganti,
ciceroni e cicisbei. E non venitemi fuori con i
tradimenti le violenze le rapine i sacrilègi e
degli itali ingegni
Tratte l'opre divine a miseranda
Schiavitude oltre 1' alpi, ecc.
Ma che altro fecero i Romani nostri padri e i
Veneziani nostri fratelli in Grecia? I famosi ca-
valli, se opera di Lisippo, i Romani non gli ave-
vano portati via da Corinto o d' altrove? e i
Veneziani alla lor volta non gli avevano portati
via di certo da Costantinopoli? Eh via.
Che slum tutti d'un pelo e d'una lana.
9A IRA. 453
Potevamo ben pagare con qualche Madonna spo-
gliata delle bacheche d' oro e di cattivo gusto
male affacentisi alla dolente imagine della povera
madre dell' internazionalista giustiziato; potevamo
ben pagare con del bronzo, con del marmo, con
dei quadri, con de' libri, che al fin fine ci furono
restituiti, potevamo ben pagare, dico, la conscienza
di noi stessi che i Francesi con la repubblica e
con l'impero ci resero. Essi ci spazzolarono, po-
niamo con la granata, dalla polvere delle antica-
mere e dalle macchie e dal tanfo di sagrestia:
essi ci armarono, ci disciplinarono, e con molte
pedate di dietro, se volete, e sorgozzoni davanti,
ci spinsero a guardare in faccia ed a battere i
nostri antichi padroni, i tedeschi e li spagnoli:
fecero un eroe — incredibile a imaginare — di
quel poltrone di Giovannin Bongé, il servitore di
quello stupido codardo bastardo spagnolo eh' era
il Gioviti signore. Essi ci avran rubato tutto quello
che volete — i principi nostrani ed austriaci di
prima e di poi ci regalarono forse? — ma ci la-
sciarono esempio di amministrazione sapiente, e
di strade e di ponti e di edifici pubblici solcarono
agevolarono adornarono il bel paese che prima
del '89 faceva a pena 14 milioni, e tra questi,
ottantaquattro mila frati, stando al computo più
modesto, e senza contare le monache.
Che Dante odiasse i Francesi, o meglio i reali
di Francia, lo capisco: un nepote di san Luigi lo
avea turbato dal suo nido, ed egli poi era ostinato
454 i?A* IRA.
a dire e fare tutto il contrario di ciò che dicesse
o facesse il suo comune. Che li disprezzasse e
gì' invidiasse, non senza odio, Nicolò Machiavelli,
lo capisco: erano stati troppo facili vincitori di
quei principi itaHani tanto a loro superiori nel-
r arte del dissimulare, delF avvelenare, del cor-
rompere e del tradire: più, avean ingannato i
Fiorentini su le cose di Pisa; e Nicolò, con tutta
l'unità d'Italia che si rimpastasse in pensiero,
era molto tenero della sua piccola e gloriosa re-
pubblica. Che gli odiasse Vittorio Alfieri, lo ca-
pisco anche meglio : a lui, nobile piemontese,
puzzavano quegli avvocatucci di Parigi che gli
aveano sequestrato, più ancora delle rendite e dei
libri, la sua repubblica classica. Vincenzo Gioberti
credo odiasse la Francia per fidecommesso. Ma
che noi, dopo il 1859 raccolti a stato uno che si
prèdica forte, dobbiamo avere il misogallismo per
instituzione nazionale, perché i Francesi si reg-
gono con altro modo di governo che noi, perché
a un tratto occuparono quello che a noi fu oiferto
più volte e non lo volemmo; questo non lo in-
tendo, non ne sento il bisogno, mi farebbe schifo,
se non mi facesse ridere, ma ridere verde. Abbiam
ragione di sospettare della buona vicinanza fran-
cese? Armiamo forte e facciam buona guardia.
Ma che si abbia a celebrare con solennità di com-
memorazione nazionale i Vespri siciliani, un ma-
cello barbarico: ma che s'abbia a ristampare,
non nel caso di una raccolta compiuta delle opere
9A IRA. 455
dell' autore, ma da sé, quasi protesta o come ecci-
tamento, il Misogallo dell'Alfieri, un libro, salvo
due o tre sonetti e qualche epigramma, di con-
torte declamazioni che fan torto a chi le scrisse
e non dan gusto a chi le legge: ma che in uh
giornale storico della letteratura italiana, diretto
e scritto da professori giovani e giovanissimi,
i quali per T arte per l' umanità per la coltura è
per la patria non hanno ancora avuto occasione
di 'fare oltre degli studi immaturi e indigesti, si
affermi che il Voltaire era " molto ignorante e
moralmente poco meno che abietto „ : tutto questo
potrebbe dar la misura di qual resto di ferocia
e di bassezza, di pedanteria e d' ignoranza incaro-
gnisca per anche nei bassi sedimenti dell' anima
italiana, se non fosse del nostro consueto colèra
sporadico che si sfoga in evacuazioni verbose.
Dopo ciò posso dir francamente che né auguro
né invoco alla patria una repubblica come la fran-
cese del '92 o dell' oggi : non come quella del '92,
perché gli uragani non s' imitano né si rifanno ;
non come quella dell' oggi, perché essa, per di-
fetto d' idee e di forza, per abondanza di cupi-
digie e d'imbrogli, è anche da meno del governo
parlamentare nostro, è un che fra la trapezitarchia
e la pornocrazia; e perché in fine sórse dalla di-
sfatta nazionale, e sarebbe un traditore della pa-
tria chi volesse la Marianna con tale una culla.
Dico di più : ora come ora, io non vorrei in Italia
la repubblica per solo amore della repubblica:
45^ ?A IRA.
perché un tale mutamento nelle condizioni del-
l' assetto del paese e de' suoi bisogni e con le
forze rispettive dei diversi partiti non potrebbe
non produrre un indebolimento almeno tempora-
neo al di dentro e 1' isolamento al di fuori; e
■questo isolamento e questo indebolimento ci da-
rebbero in soggezione della Francia; e io, tutt' al-
tro che nemico ai Francesi, non però vorrei per
nessuna guisa nessuna nuova repubblica cisalpina.
Dico anche di più : dubito forte che ora come "ora
la repubbhca possa riuscire o attecchire in Italia.
Il partito repubblicano storico, quello che fu un
grande onore e una gran forza della patria, ha
perduto dopo il 1870 molto di quella sua forza e
dell' intensità e dell' unione, per parecchie ragioni
che qui non debbo né voglio discorrere, ma spe-
cialmente per una. Venuta meno con 1' acquisto di
Roma r aspettazione delle eroiche avventure per
una compiuta rivendicazione nazionale, che poteva
anche essere una rivoluzione, non avverandosi
d' altra parte mai l' avvenimento delle barricate a
scadenza fissa, l' idealismo dell' azione mancante
fermentò in certe teste fino a volere una inocu-
lazione italica del comunismo parigino. Passata
r ebrietà tempestosa, spiccò per altro in secco un
partito socialista misto, con parecchie idee buone
e giuste che han da passare prima o poi nella
legislazione, ma con teoriche non accettabiH in
solido mai da nessun governo o partito politico
^nel senso greco della parola), con intendimenti
9A IRA. 457
e procedimenti per lo meno molto arruffati, quando
non urtanti per istolide e cattive declamazioni.
Cotesto nuovo partito venuto su dagli elementi
più irrequieti e forse anche dalle forze più gio-
vani del repubblicanismo, cacciato e accaneggiato
da prima, ora è cercato ad alleanze che non
promettono di essere né fide né durevoli né frut-
tuose. Ai repubblicani almeno sono cagione di
maggior debolezza, quando fan loro perder più
sempre terreno nella maggioranza legale del paese,
che è, secondo il genio italiano, conservatrice e
tira (non s' illuda nessuno) più a dare indietro che
a spingersi innanzi, senza eh* e' ne acquistin però
nelle turbe, le quali, se mosse o mo ventisi, cre-
dono di accontarsi meglio coi socialisti. E i so-
cialisti intanto affrontano il partito repubblicano
storico, lo punzecchiano, lo assillano, lo urtano,
lo sospingono, lo minacciano. E al caso vorranno
molto più di quello che ora mostrin di chiedere,
vorranno tutto, vorranno almeno quello che i re-
pubblicani politici non potranno mai dare. Di che,
o la repubblica si farà sùbito dittatura o si verrà
alla guerra civile, e di conseguente anche alla
dittatura di qualunque sia la parte che vinca,
perché V anarchia non esclude la dittatura, anzi.
A me la dittatura non par mica abbominevole,
come le porte d* inferno : ma la vorrei dei giusti
e dei forti, e di tali non ne vien su dal detrito
delle rivoluzioni sociali, dopo che V odio ha forni-
cato con la cupidigia nel pattume della Hcenza.
45^ 9 A IRÀ.
Per tutte queste cagioni io né auguro alla patria
una repubblica alla francese né V affretto dalla ri-
voluzione; e gli onorevoli M. T. e Bonghi hanno
torto non d' aver paura, si d' averne de' miei so-
netti. Hai paura de mosconi y Che ti pungano i cal-
zoni; Hai paura delle zanzare, Che ti pinzino il
grembiale cantava la donna di servizio a certa
bambina che è un tirannello co '1 guscio in capo, e
pure a solo un motto di mosconi allibisce, e vuole
andare in braccio a nascondersi nel seno della
mamma. Ma, se questa può essere una prova del-
l' azione che la poesia esercita ancora su gli animi
degli italiani, e se possono i miei endecasillabi
somigliarsi a zanzare e i sonetti a mosconi, gli
onorevoli M. T. e Bonghi non sono da vero bam-
bini; e giudicheranno a mente fredda qual colpa
abbia io del fatto, che i partiti da oltre un ven-
tennio governanti non seppero risvegliare nella
nazione il sentimento fondamentale d' una esi-
stenza vigorosa e tranquilla.
A questa nazione, giovine di ieri e vecchia di
trenta secoli, manca del tutto l' idealità ; la reli-
gione cioè delle tradizioni patrie e la serena e
non timida conscienza della missione propria nella
storia e nella civiltà, religione e conscienza che
sole affidano un popolo d' avvenire. Ma idealità
non può essere dove uomini e partiti non hanno
idee, o per idee si spacciano affbcamenti di pic-
cole passioni, urti di piccoli interessi, barbagli di
piccoli vantaggi : dove si baratta per genio 1' abi-
9 A IRA. 459
lità, e per abilità qualche cosa per avventura di
peggio; dove tromba di legalità e alfiere dell' au-
torità è la vergogna sgattaiolante a faccia fresca
tra articolo e articolo del codice penale. E pure
le virtù e gli ingegni non mai furono esaltati in
Italia come a questi ultimi anni ; e se i vicoli non
che le piazze delle cento città paiono oramai
scarsi ed angusti ai monumenti della nostra gloria
defunta, io dubito forte non le cave di Carrara e
di Serravezza abbian marmo che basti a monu-
mentare le grandezze viventi. Ogni mattina il
sole ha da rallegrarsi su la faccia d' un nuovo
grand* uomo, che sorge a uso e consumo di questo
o quel partito, di questo o quel crocchio; e i fat-
tori e i compari, abburattatoselo tra loro, lo danno
a palleggiare all' ammirazione del pubblico. A ogni
ombra che vediamo passar lunga presso il Cam-
pidoglio o nelle piazze della Signoria e di San
Marco o sotto i Portoni di Milano o per ogni
viuzza di qualunque villaggio, noi ci gridiamo —
Vedete omaccioni che fanno ancora in casa no-
stra — ; e non ricordiamo che quando i pigmei
proiettano lunghe le ombre è 1' ora del tramonto,
infelici! Ubriacarsi con 1' acqua io credevo fosse
una fantasia o una scusa degli ubriachi di vino:
ora veggo che è la verità del popolo italiano. Oh
se una volta scotessimo via 1' abitudine delle
sbornie acquatiche, e, da poi che non può esser
grande ognun che voglia e al primo momento, ci
460 ^A IRA.
contentassimo a essere schietti, coraggiosi e one-
stamente gagliardi!
Allora i ministri dell' estero, o dilettanti ex-
mazziniani che si spassassero il giorno a legger
romanzi, o avvocati musicanti che si spassin la
sera a strimpellar la Sonnambula, non avran più
due facce: al di qua dall'Alpi, di padri e salvatori
della patria; al di là di pitocchi che fan tuttavia
la coda ai gabinetti d' Europa, come usa, o usava
una volta, in tempo di carestia, alle botteghe dei
fornai, per avere quella libbra di pane che basti
quel giorno all' Italia per non morire di fame : e,
ove ne sia offerto loro di più, non faranno come
certi cani magri spelati che se la danno a gambe
da chi mostri di gittar loro un tòzzo. Allora nella
politica interna, a riparare il difetto di quella
idealità che dicevo, non si vedrà questo usuale
spreco del fatto e del nome della dinastia, onde
la corona, scudo ne' duelli e paralume ne' giuochi
dei partiti, è da chi men dovrebbe esposta di
continuo agli ammacchi di dentro e agli smacchi
di fuori.
L' idealità di una nazione non sta in questo,
che ogni allegra brigata, volete di profumieri
volete di salumai, raccolta a far baldoria, non
creda di finir bene la festa se non batte il tele-
grafo con un dispaccio al sovrano, che in quel-
r ora e in quel caso viene a dir cosi — Sire,
abbiamo cenato bene e ora pigliamo il cognac:
buona notte. — L' idealità d' una nazione, la re-
9A IRA. 461
ligione cioè della patria, ha per fondamento, per
focolare alimentatore, una o più realità: ciò sono
una graduale trasformazione e ascensione delle
classi inferiori verso il meglio; un ordinato e sano
svolgimento delle forze economiche nelle classi
mezzane; un' aristocrazia almeno del pensiero,
della scienza, dell' arte, in una coltura superiore
di genio altamente nazionale. Ora che fecero di
questo e per questo i governanti italiani? La
plebe, dove non indifferente o brutalmente incon-
sapevole, è malcontenta e nemica: aristocrazia
non ce n' è di veruna guisa: la coltura e la lettera-
tura rendono imagine della borghesia che le im-
partisce e le subisce, e nella copia delle scuole
farraginose e della produzione efimera danno ar-
gomento di paura, non pure per il difetto e la
nullità del pensiero, ma per la negazione assoluta
d'ogni pensiero: gente, direste, che sente e fun-
ziona, non pensa.
E alla letteratura e alla scuola senza pensieri,
al governo e alla politica senza idee, risponde la
vita senza convinzioni. La borghesia, che molto,
a dir vero, pagò e di persona e di borsa per la
riconstituzione della patria, dati giù i bollori, è
ricascata nella morbidezza stracca dell' apatia, e
non se ne leva che per isvaghi e chiassate, pro-
curati eccessi di morbosa vitalità che la frollano
sempre più. La salutata Niobe delle nazioni, di-
scesa dal Sipilo doloroso, è tornata la schiava e
la cortigiana dei tempi imperiali e papali, vuole
462 9 A IRA.
circences e carnasciali) per rifarsi del tempo della
espiazione gira in volta con i martiri figliuoli e
coi pedagoghi menando un gran ballo masche-
rato da capo d' anno a San Silvestro. Si scio-
pera per i centenari e per gli anniversari, per
i vivi e per i morti, per i santi e per i dannati,
per le nascite, per le nozze, pe' funerali. Ogni
occasione è buona — tutti d' accordo in questo,
monarchici e republicani, anarchici e conserva-
tori — per non lavorare e per far baldoria.
Vostro eroe, o cittadini, non è Vittorio Ema-
nuele o Garibaldi; è Michelaccio. Per i centenari
si vanno a dissotterrare de' morti che furono vivi
cosi cosi; e degli sfolgoranti, come il sole, a tutto
il mondo, si sbaglia il giorno che nacquero. Ma
intanto ci divertiamo a dire e udire stupidaggini
gloriosissime in versi sciolti e in periodi mal le-
gati; e si mangia e si beve e si balla, e della
gloria antica il paese avvantaggia le risorse mo-
derne; cioè gli osti trionfano a spese dei comuni.
Le commemorazioni dei grandi uomini e dei
grandi fatti della patria si mutano in pugillati
di accademie politiche invereconde, o diventano
agone agli sfringuellamenti di baccanti pusilli,
che un popolo serio dovrebbe seppellire a furia
di scapaccioni nella vanità loro irrequieta. Su le
bare si battono le mani agli oratori fioriti. E quando
lan galantuomo è allettato e comincia a peggio-
rare, ecco sùbito gli amici suoi politici e letterari
a darsi.attomo per il trasporto della salma e a
9A IRA. 463
comporre il discorso da improvvisare impallidendo
e piangendo dinanzi alla sepoltura: se risana,
servirà per un'altra volta. E come se i funerali
dei nostri amici e i banchetti delle commemora-
zioni patriottiche e le colazioni dei congressi scien-
tifici non bastassero alla nostra affettuosità e alla
nostra eloquenza, cioè alla innata nostra istrionia
e alla ciarla ereditaria, quando capita una buona
alluvione o un bel terremoto, non ci lasciamo di
certo scappar l' occasione. Allora tutte le mani
scioperate si fanno una mano sola, e dall' Alpi a
Capo Passare chiede limosina di prose di rime
di autografi; e tutte le penne e le matite sciope-
rate divengono una penna o una matita sola per
fare ah oh ih iiìi in prologhi, in musiche, in boz-
zetti, in macchiette. Le mani in vece e le gambe
delle signore e delle signorine si moltiplicano
vorticosamente a percuotere pianoforti e pianciti
suonando e ballando per il dolore e per la pietà.
E come se, oltre centenari e congressi e terre-
moti, non bastassero alla espansività nostra nel-
r ozio e al nostro appetito le esposizioni le inau-
gurazioni i carnevaloni, hanno anche inventato
il Pellegrinaggio Nazionale con la riduzione del
settantacinque per cento. E quando i pellegrini
avranno adorato la tomba e sciolto il vóto, perché
non si potrà organizzare una gitarella a Napoli
magari al nulla per cento per mandarli allo scoglio
di Frisio a confortare i singhiozzi coi maccheroni e
a mescere alle lacrime patrie il Lacrima Christi?
464 ?A IRA.
E cosi, mentre una gente superficiale e sen-
suale anfaneggia a vuoto tutto 1' anno in un falso
patriottismo, in un falso idealismo, in una falsa
coltura, in una falsa felicità (falsa e crudele e
infame da vero, però che le grandi migliaia dei
lavoratori emigrano per fame, lasciandosi dietro
la maledizione e la vendetta fatale su questa na-
zione d'arcadi buffi e spietati), la gente seria e
laboriosa cura i suoi campi, i suoi interessi, i suoi
studi privati, e non cura gli affari pubblici, in-
differente del governo, diffidente, con gran di-
sprezzo, della politica e di chi la fa. E cosi, a
poco per volta, mancati o sazi di nausea gli
uomini integri che avanzano dei varii partiti, la
cosa pubblica cadrà tutta alle mani dei procac-
cianti, pronti già a farsi della politica mestiero e
rendita.
Dopo di che, non ho più voglia di dire tutto
il male che pensavo del parlamento. Certo che, a
giudicarlo dal valor suo concettuale, da ciò che
ammira come eloquenza, da ciò che gusta come
spirito, da ciò che crede politica fina, e più dalle
prede di vóti che il ministero esercita su quel
suo cabotaggio di piccolo corso, ci sarebbe da
disperare: ma in fondo è un collegio di buoni
ragazzi, che vogliono, come i loro mandanti, più
figurare e divertirsi che lavorare: onde venti
giorni di discorsi ed emendamenti, e ordini del
giorno a tonnellate, e dieci leggi votate in dieci
minuti: folla agli scandali, deserto ai bilanci:
9 A IRA. 465
ianno forca, burlando il maestro. Oh fate forca,
fate forca allegramente^ onorevoli : già di cotanta
eloquenza non una parola echeggerà nell' av-
venire.
Il peggio è che parrebbe non avessero amore
di patria. Battagliano con de' nomi e per dei
nomi, e dietro le loro baruffe fa capolino un
mostro che sale sale da Monte Citorio, su per
la cupola di San Pietro, in vetta al Gran Sasso
d'Italia: ivi s'impianta, e sur un violino bislungo
e sbilenco, con un arco che ha la corda di pelo
di lupo e di pelo d' asino, suona, suona, suona,
alternando furiosamente, tra orribili scrosci di
risa, le calate; e ora l' una cocca tócca il Tir-
reno e poi r altra l' Adriatico. È il diavolo o il
regionalismo? Certo, quello che suona è l'antì-
fona del diavolo : De malo in peius, venite, udo-
re mus.
E gli onorevoli Bonghi e M. T. hanno paura
di dodici sonetti.
Io ho paura d'altro: ho paura che, se con si
fatta gente non si fondano le repubbliche, né
meno si afforzino le monarchie: ho paura che
intanto abbiamo quel che ci meritiamo. Machia-
velli Depretis e Tacito Chauvet: ho paura che
avremo nell' avvenire anche di peggio.
Luglio-novembre 18S3.
Carducci. 4. 30
AGLI ELETTORI
DEL
COLLEGIO DI PISA
LETTERA E DISCORSO
La lettera
dal Resto del Carlino, Bologna, 9 maggio 1 886.
Il discorso
dal Corriere dell'Arno, Pisa, 20 maggio 1S86;
in fascicolo intitolato
G. C. AGLI ELETTORI DEL COLLEGIO DI PISA,
Pisa, Vannucchi, 1886,
Al Comitato democratico elettorale
del Collegio di Pisa.
Cari signorI;
o non mi sono sentito mai né oggi
mi sento necessario alla patria; e
per ciò non mi proposi io mai a rap-
presentante della nazione, e le offer-
temi candidature rinunziai più d' una volta^ con-
tento a servire la patria, com* è mio dovere e
piacere, in altri modi e officii. Oggi che la can-
didatura mi è proposta da molta parte di un po-
polo che io amo, non che per le virtù sue, per
le sue gloriose memorie e per le memorie mie
care; e da poi che un nobile amico e un gran
cittadino. Agostino Bertani, con V ultima lettera
che egli scrivesse poche ore innanzi la morte,
mi sollecitò che accettassi; io obbedisco alla
voce che mi viene d' oltre la tomba, obbedisca
47° AGLI ELETTORI
alla voce che mi suona di riva al mio mare.
E obbedisco alla voce, che mi comanda dentro,
del dovere. Però che io credo che questa non più
amministrazione giustamente costituzionale ma
governo ostinatamente personale danneggi e per-
verta r Italia : si che, se il mio nome può dare
pur un minimo colpo al minimo dei puntelli di
cotesta oppressione barocca, vada pure il mio
nome.
Da molto tempo e in troppi scritti ho fatto le
esposizioni de' miei sentimenti italiani e de' miei
pensieri politici; e le ho fatte sempre molto can-
didamente, senza preoccupazioni del vantaggio e
del danno che me ne potesse venire nel favore
più di questo che di quel partito. Io sono, se vo-
gliamo dirlo con denominazione inglese, un radi-
cale) ma radicale sono proprio nel senso inglese,
cioè non un dilettante di rivoluzioni per amore
delle rivoluzioni. Io voglio lo svolgimento di tutte
le riforme democratiche richieste dalla necessità
storica dei tempi, ma con tutte le guarentigie del-
l'ordine politico e sociale e secondo la tradizione
italiana.
Se con queste idee e per i vóti di quelli che
le partecipano sarò eletto rappresentante della
nazione nel Collegio di Pisa, io me ne terrò molto
onorato e farò possibilmente il mio dovere. Se no,
io rimarrò grato lo stesso ai cittadini che mi re-
putarono aon indegno di quell' onore, e me ne
resterò contento lo stesso nella solitudine, non
DEL COLLEGIO DI PISA. 47I
nel riposO; de' miei studi. Contento lo stesso:
perché tanto, questo governo ha da cadere. Il
popolo italiano, che non senza scrolli tollerò
r amministrazione d' un Camillo Cavour, il quale
lasciava per testamento a' suoi successori, di rado
eseguito, il regime della Hbertà ; il popolo italiano
non può di certo sopportare più a lungo la dit-
tatura bizantina che ogni giorno più lo diminuisce
di forza, di consiglio, di dignità.
Bologna, 8 maggio 1886.
vostro affezionato e riconoscente
G. C.
DISCORSO AL POPOLO
NEL TEATRO NUOVO DI PISA
19 maggio 1886.
E la mia voce suona esitante e quasi
tremante di commozione, prima è
pe '1 rispetto che la maestà del po-
polo impone a cui non vuole né
adularlo né ingannarlo, poi è per un profondo
sentimento che nella presenza di questa città mi
percuote, misto d'una mestizia e dolcezza di me-
morie e d' una espansione di gratitudine e amore.
Dopo trent' anni che io mi partii da voi, dopo il
fluire d' una tanta generazione, dopo il rinnova-
mento d'una patria e il mutamento d'una società,
voi vi ricordate ancora di me; e me nato di
questa provincia, in questa provincia cresciuto, in
questa alma città informato alla vita intellettuale,
voi, o signori ed amici, richiamate d'oltre Apen-
nino, proponendomi al più solenne officio che cit-
tadini possano commettere a un cittadino. Grazie,
o signori ! Grande è l' onore, più grande la bontà
474 A<^LI ELETTORI
vostra : farò d' essere meno indegno dell' uno e
dell'altra; parlandovi onesto e verace [applausi].
In cinquant' anni di vita ho esperimentato che
la miglior furberia è sempre 1' onestà, che la ve-
rità è il più squisito machiavellismo [applausi
replicati J. Puro d' ogni speranza ambiziosa e
d'ogni codardo infingimentO; però che, se la po-
litica può fare a meno di me, anch' io posso
fare a meno della politica, e anche fuor di Mon-
tecitorio la mia parola può senza spesa della
nazione risuonare alto lo stesso e per tutto,
io credo dovere esser creduto quando affermo
che ad accettare la propostami candidatura mi
mosse un' alta idea di dovere, il dovere di com-
battere come dannoso alla patria questo sistema
di governo che ora si appella al giudizio degli
elettori [bene, bravo].
Che la questione si ponga apparentemente
intorno a un nome, non è peccato di piccolezza
d' animo e mancanza d' idee in noi, è peccato di
mente corrotta e di trasmodanza incivile in altri.
Dopo il vóto del cinque marzo sciogliere la Camera
con tante esitazioni a quel modo, può forse esser
difeso come atto costituzionale, atto politico non
fu di certo. Con la relazione che chiedeva il de-
creto di scioglimento il presidente del Consiglio
fece peggio che promovere un plebiscito intorno
al suo nome: egli, senza metter fuori principii e
criterii nuovi di governo, egli, con una saldezza
di propositi pili singolare che ammirevole, mani-
DEL COLLEGIO DI PISA. 475
festò al popolo italiano la sua intenzione di con-
servare quel suo sistema irresponsale, che gli
permette di governare con qualunque indirizzo e
con qualunque maggioranza. Voi, o signori, con
un Comitato da prima de' miei maremmani, poi
con questo vostro general Comitato pisano, mi
annunziaste che volevate pur co '1 mio nome com-
battere quel sistema. Or dunque, eccomi. Com-
battiamo [applausi^.
Dichiaro anzitutto che io nelF onorevole De-
pretis rispetto la onestà della vita e la beneme-
renza dei lunghi servigi alla patria; ma reputo
mio diritto e mio dovere discutere in tutto e per
tutto, con franchezza antica, il ministro. Né ripe-
terò il giudizio di Camillo Cavour che in lui de-
nunziava un uomo fatale alla monarchia: troppo
glie ne intronarono le orecchie gli antichi accu-
satori, che ora lo salutano e acclamano presidio
e scudo delle instituzioni. Anche raccontano che
ad un avversario di destra il quale gli rimprove-
rava — Tu sei nel fango fino agli occhi — egli
con tranquillità cinicamente eroica rispondesse
— No, soltanto fin qui — , e toccava co '1 dito la
sottosporgenza del labbro inferiore onde gli cola
la barba veneranda \ applausi fragorosi]. Non so
se vero il motto; ma certo e vero e profondo è
il disprezzo che il freddo vecchio ha dell' ele-
mento su cui adopera le sue arti. Con quale
profitto della nazione vediamo.
Il passaggio dell' agenda delle strade ferrate
47^ AGLI ELETTORI
air esercizio privato potè nel concetto di molti
esser utile e buono, ma le Convenzioni cosi dette
ferroviarie offesero in guisa gì' interessi pubblici
e il senso morale, che per farle mandar giù si
andava sussurrando occorrere e sùbito i milioni
della cessione per riparare al disavanzo immi-
nente. E il disavanzo non fu riparato, e la poli-
tica finanziaria dell'amministrazione Depretis tra-
montò co '1 dissesto economico nella legge del ca-
tenaccio.
Legge di giustizia e di prosperità doveva
essere la perequazione dell'imposta fondiaria;
ma il modo del recarla in atto ne limitò e allon-
tanò i benefizi, senza un riguardo a sollevare,
quel che v' è di peggio in Italia, i risentimenti
regionali.
La riforma delle leggi su l' istruzione superiore
doveva infondere nella coltura italiana un aere di
vitalità più fresco e più schietto, collocando l' in-
segnamento in regione più alta e con più libera
circolazione : fu trascinata dalla Camera al Senato,
e mandata a languire in un limbo d' ipotetica di-
scussione, dal quale né si seppe né si volle rilevarla
mai : 1' onorevole Depretis lasciò crescere, a con-
solazione della scienza e della ricchezza nazionale,
la spampanata fioritura degl' Instituti superiori e
delle Università di prim' ordine. La legge che
doveva opportunamente e utilmente ripartire tra
il governo e le province la spesa per le scuole
secondarie e rialzare la condizione e la dignità
DEL COLLEGIO DI PISA. 477
degl' insegnanti fu rimandata di dilazione in di-
lazióne alla sepoltura [applausi]. Dopo tante ciarle
crudeli su l' istruzione elementare, si fini con una
elemosina ai maestri martiri, che gettata su lo scio-
gliere della Camera ebbe Tana d'un tentativo di
corruzione elettorale [applausi].
In fine i provvedimenti per V agricoltura, vita
dell'Italia, riuscirono a un'accademia; le leggi
sociali, pacificazione dell' avvenire, a una com-
media; tutto che rimaneva di buono e di bello
del programma di Stradella divenne Molto chiasso
per niente, se pure è lecito applicare alla nega-
zione depretisina il titolo d' una creazione shake-
speariana. Di Agostino Depretis la storia d' Italia
ripeterà severamente ciò che la satira cantò di
quel cardinale: cioè, che
Il mal lo fece bene
E il ben lo fece male. [Risa: acclam azioni].
Ahimè, che lo scherzo mi si aggela su le
labbra, ripensando all' alleanza con le potenze
centrali. L' Italia fii costretta a sacrificare parte
delle sue libertà interne, a far getto della sua
idealità storica, a rinnegare la realtà nazionale, a
mettere la sua firma democratica sotto concetti e
progetti medievali e feudali, senza un correspet-
tivo né di guarentigie per il presente né di pro-
messe per r avvenire. Al nipote di Carlo Alberto
si fece indossare la divisa di Radetsky.... [Scop-
piano applausi e grida fragorose; la testa di un
478 AGLI ELETTORI
ispettore compare dietro l'oratore, il Carducci si volge
e protesta. Tutto il teatro è pieno di grida j di proteste
e di fischi. Dopo qualche minuto V ordine si rista-
bilisce, e il Carducci ripiglia^ Al nipote di Carlo
Alberto si fece indossare la divisa di Radetsky,
perché poi gli si dicesse che non gli si rendeva la
visita perché a Roma non è in casa sua. E i dotti
di Berlino dicono che Roma è dell' Europa, e gli
slavi del littorale istriano danno la caccia agli
italiani, e Vienna ci comanda di non chiamare
orde i suoi bravi che sciabolavano gì' inermi per
le vie di Padova e di Milano. Almeno la codardia
ci desse il guadagno d' una condizione di pace.
No: il bilancio della guerra in questi ultimi anni
crebbe di sessanta milioni. E cresca pur ancora;
e cresca, e più, quello della marina. Ma con
altro governo che sappia valersene. Con questo,
a che ? [ Applausi ] .
Il governo di Agostino Depretis non è un go-
verno d'avventure. Chi ve l'ha detto? Quel vec-
chio ha delle audacie spaventevoli. Quando le
Convenzioni minacciavano d' andare a picco, egli
lanciò la spedizione di Massaua. [Bene]. Ahimè,
sante anime dei morti per la patria su i piani lom-
bardi, su le acque dell'Adria, su le vette delle Alpi
ancora non nostre, perdonate voi a quella mag-
gioranza che si lasciò illudere da una frase, da
una sconcia frase secentistica — Le chiavi del Me-
diterraneo sono nel Mar Rosso. — [Gli applausi
interrompono il discorso per qualche minuto]. Nel
DEL COLLEGIO DI PISA. 479
Mar RossO; o sciagurati, e' è la dispersione dei
milioni italiani che potrebbero fecondare le terre
inseminate della penisola, e' è la tomba delle vite
italiane che potrebbero rischiarsi in bene altre
glorie o rivendicazioni, e' è la ragione della de-
bolezza d'Italia. — Ogni anno ormai conta una
nuova strage d' italiani su le terre africane : la
ultima, quella di Harrar, è una provocazione in
tutte le regole della barbarie, una provocazione
piena di ferocia e di disprezzo. E l' onorevole
Grimaldi disse a Catanzaro pur V altro ieri, una
politica d' energia in Africa essere una follia.
Vero è che mesi fa l' onorevole Robilant, per
rialzare la dignità dell' Italia e divergere certe
fissazioni, minacciò di tutti i suoi fulmini le re-
pubbliche americane, accennando alla Colombia.
Ma ben presto V onorevole Robilant depose i
suoi fulmini, e la Colombia ride e spartisce. Per
ammenda, a bloccare la Grecia e' è anche delle
nostre navi. [Tutto questo passo è interrotto quasi
ad ogni parola da applausi^
Il positivismo dell'onorevole Robilant all'estero
è il rispecchiamento dello scetticismo dell' onore-
vole Depretis all' interno. Gli accordi tra partiti
si fanno contro un nemico comune, la reazione,
o nei solenni momenti della patria, sotto 1' idea
del sacrifizio e del dovere, non co '1 riguardo del-
l' interesse e dell' utile. Il trasformismo è brutto
vocabolo di più brutta cosa. Da che 1' onorevole
Depretis tradì (il vocabolario italiano non mi
480 AGLI ELETTORI
suggerisce parola più propria) tradì il suo partito
e introdusse il cavallo di Troia nella vecchia Si-
nistra; da che circondando di stolte paure la
monarchia e d* artifizi aleatorii la Camera infeudò
a sé il potere; da che fece della sua politica un
attaccapanni (la similitudine è dell' onorevole
Bonghi, che oggi violento difende quello che ieri
violento assaliva, ma io mi permetto di com-
pierla), un attaccapanni onde ciascun deputato
credesse poter riprendere il soprabito con dentro
almeno un portafoglio [applausi, ilarità]] da che
continua il giuoco del pipistrello (la compara-
zione è volgare; ma che cosa vi può esser più
di sublime o d'elegante con questo governo?),' e
agli uccelli mostra 1' ala del programma di Stra-
della e ai topi V orecchie del diciannove maggio,
e rimanda gli onorevoli Zanardelli e Baccarini e
volta le spalle all'onorevole Minghetti; da che
questo desultor (lo dico in latino, perché comincia
a pesarmi dover dire tanto male d' un vecchio ),
da che questo desultor di principii e di uomini
da Acton passa a Brin, da Ferrerò a Ricotti, da
Mancini a Robilant, da Baccelli a Coppìno, da
Baccarini a Cenala, da Zanardelli a Ciannuzzi
Savelli a Ferracciu a Pessina a Taiani; da che
tutto questo avviene, l' Italia, come non ha più
fermezza all' interno, cosi non ha più forza al-
l'estero; come dentro è corrotta, cosi apparisce
abietta al di fuori [applausi replicati']. In tre anni,
tre crisi; solo perché l'onorevole Depretis si man-
DEL COLLEGIO DI PISA. 481
giasse o rimangiasse undici ministri e undici se-
gretari generali. E la bandiera italiana, tutta an-
cora radiante del martirio e de' miracoli i de' nostri
padri e fratelli, è fermata là sulle soglie del
tempio suo, su le soglie del Pantheon; e un que-
sturino sequestra la ghirlanda d' una città italiana
su la tomba del primo re d'Italia [applausi]) e
un generale italiano ritorna da una impossibile
ambasceria presso un despota barbaro, perché
piove {applausi].
Ah in verità che par di sognare: par di so-
gnare un qualche brutto capitolo di storia bizan-
tina o di vivere sotto il governo d' una corte
borbonica in decadenza.
k
Oh non per questo dal fatai di Quarto
Lido il naviglio dei Mille salpò.
Oh giornate di sole, di libertà e di gloria del 1860 !
Oh lotte di titani tra Garibaldi e Cavour nel 1861 !
A che siam divenuti ! È successa all' epopea del-
l' infinitamente grande la farsa dell' infinitamente
piccolo, la farsetta affaccendatella dei pulcinelli
gravacciuoli. Quanto ha da durare ancora? Quanto
piacerà al popolo italiano [applausi]. Il quale
— non senza dolore e vergogna arrischio questa
comparazione — mi assomiglia un po' troppo quel
personaggio di Molière che ammonisce la moglie
multivola. — Io ti dico sempre le medesime cose,
perché tu fai sempre le medesime cose; e finché
tu farai le medesime cose, io ti dirò le medesime
Carducci, 4. 31
482 AGLI ELETTORI
cose. — Oh ma il popolo italiano non è un Pierrot,
e smetterà, spero, di dire; di dire e di tollerare.
[Approvazioni ed ilarità}.
E ora brevi parole di me: brevi, come sta
bene a un semplice milite qual sono io: ma fran-
che, come si addice ad uomo libero che parla ad
uomini liberi. Io non ho bisogno che gente, il cui
modo di scrivere accusa la bassezza dell' animo e
la turpitudine della vita, insegni a me la fede del
giuramento [Applausi, grida " Abbasso il Fan-
fulla ! „ ] : io- non ho esitato e non esito di giu-
rarmi obbediente alla monarchia italiana, anche
per la semplicissima ragione che cotesta monar-
chia la ho creata un po' anch' io, co '1 mio vóto,
nel plebiscito del 1860; in quel glorioso anno in
cui Giuseppe Mazzini sollecitò ad accettarla come
segnacolo e suggello dell' unità, in cui Giuseppe
Garibaldi le conquistò l' Italia e la conquistò al-
l' Italia. La monarchia è oggi in Italia la legittima
depositaria della rappresentanza della Sovranità
popolare; ma la Sovranità popolare sta su tutto
e su tutti, indiscutibile principio d'ogni autorità
e d'ogni funzione politica; la Sovranità popolare
che non abdica mai, che nessuna forza può se-
questrare, che nessun uomo può impersonare.
Giuseppe Mazzini nei mesi ultimi della sua
vita profetò, che, da poi che la monarchia s' era
trasportata a Roma, la ci durerebbe per più ge-
nerazioni : il che certo non arrideva al gran trium-
viro; ma il vero vinceva con la sua forza storica
DEL COLLEGIO DI PISA. 483
il banditore e V assertore supremo dell' idea uni-
taria. Io dirò di più. All' Italia resta ancora da
vincere il papato. Questa è suprema questione
dinanzi alla quale non giova indebolirsi e sper-
dersi in questioni minori di forma. Un re d' Italia
al Quirinale preme già con la mirabilità del fatto
quindici secoli di Roma cosmopolita e di nega-
zione d' Italia, e avvezza gli occhi dell' Europa
monarchica e cattolica alla irradiazione della terza
Roma. Ma triste quel giorno che si parlasse di
conciliazioni ed accordi! che una fantasticheria
medievale intendesse a trasmutare i cittadini in
sudditi! che una politica dissennata credesse raf-
forzare il principio monarchico con rassettamenti
orleanesi! La base della monarchia italiana è de-
mocratica, il plebiscito : il vertice è l' idealità della
patria una. E io credo di rendere al re d' Italia
il massimo onore, quando io lo veggo in fantasia
su r Alpi giulie a cavallo, capo del suo popolo,
segnare con la spada i naturali confini della più
gran nazione latina [Lunghi ed entusiastici ap-
plausi^.
E qui, o elettori, o cittadini di Pisa, o italiani,
lasciate che nel nome santo d' Italia io rechi a
questa mia prima patria toscana il saluto della mia
seconda patria, la forte, la buona, la generosa Ro-
magna [applausi]. Or sono dieci anni al parlamento
italiano mandavami la Romagna; oggi intendono
mandarmivi molti di voi. Dalle rive dell'Adriatico
ove mori Dante alle rive del Mediterraneo ove
484 AGLI ELETTORI DEL COLLEGIO Di PISA.
nacque Galileo siamo tutti cittadini d' una grande
patria. Viva V Italia ! sempre e su tutto l' Italia !
r Italia neir irraggiamento delle due grand' idee
ond' ella informò la civiltà del mondo, giustizia e
libertà\ l'Italia incoronata con segno di vittoria
su le Alpi ! r Italia sospingente i suoi pacifici o
tonanti navigli sul Mediterraneo ! l' Italia co '1 suo
popolo di agricoltori, quali die il Lazio il Sannio
la Sabina e 1' Etruria ! l' Italia co '1 suo popolo d' in-
dustriali quali li dierono i comuni del medio evo !
l' Italia co '1 suo popolo d' artisti, quali gli die il
Rinascimento. Viva l'Italia una, indivisibile, eterna,
come Roma sua madre! E come il poeta latino
cantava volgendosi al sole, a questo nume anti-
chissimo di nostra gente che guidò la emigra-
zione dei nostri maggiori su la fatale penisola ove
la civiltà del mondo fu costituita, cosi oggi io su '1
nobile fiume d' Arno che risuona ancora le ar-
monie della più alta poesia umana, in conspetto
del Mediterraneo che fu via della civiltà, ripeto
— O sole, tu non possa veder mai nulla più
grande e più bello d' Italia e di Roma ! [Seguono
applausi lunghissimi, eckeggianii].
NOTE
l) al DISCORSO AGLI ELETTORI DI LUCO,
pagine 321-331.
Gli accenni alle approvazioni e interruzioni furono ripro-
dotti con fedeltà storica di su '1 giornale // lavoro.
2) al 9A IRA.
pag. 446 ultime due righe
e pag. 447 prime quattro righe.
Vedi in questo stesso volume, pag. 161, 162. Scrissi senza cono-
scere il libro del sig. Taine su la rivoluzione.
Alla storia, qualunque siasi, del Ca ira può servire una
lettera che l'autore credè dover pubblicare più tardi e ad altro
proposito nella Cassetta dell' Emilia, del 16 nov. 1889. Eccola.
Ill.ino sig. Direttore,
Di ciò che fu pubblicato questa mattina a difesa delle mie
Terze odi barbare nella Gazzetta io sono gratissimo allo scrit-
tore ed a Lei. Ma altra e antica e profonda gratitudine e ve-
nerazione, e l'onestà, mi comandano, non di rettificare, ma
di pregarla a far sapere all'egregio scrittore cose che a lui
non erano note.
Terenzio Mamiani m'incoraggiò principiante, mi fece quel
che sono, mi onorò sempre, fino agli ultimi suoi giorni, della
488 NOTE.
sua benevolenza e degli amorevoli consifrli suoi. L' M. T. che
nella Rassegtta Nazionale fece appunti, civili sempre, ma se-
condo il pensiero politico suo, al ^a ira, non fu il gran patriota
e letterato Mamiani; e né anche, come io sospettai rispondendo,
r on. senatore Marjo Tabarrini; fu un conservatore cattolico,
che io non ebbi né ho l'onore di conoscere,
L' on. Bonghi del Qla ira scrisse ciò ch'egli nel rispetto
politico pensava; ma fu largo poi di tali giudizi su le Rime
nuove e su altre cose mie, che io non posso non andarne con-
tento pensando alla coltura superiore e all'acuto ingegno del-
l' illustre uomo.
Ciò per la verità, e anche per il debito mio. Gratissimo
mi confermo di nuovo a Lei e al fervente difensore, che mi
dispiace di non conoscere.
Bologna, 16 novembre 1889'
3) al DISCORSO AL POPOLO NEL TEATRO NUOVO
DI PISA.
Gli accenni alle approvazioni e interruzioni furono ripro-
dotti fedelmente, e, salvo uno non esatto, per intiero, dal Capitan
Fracassa di Roma, 20 maggio 1886.
INDICE
Ricordo d'infanzia pag. i
Primo passo „ 5
Le risorse di San Miniato al tedesco „ 13
Prefazioni „ 39
Raccoglimenti „ 49
Juvenilia „ 63
Polemiche sataniche „ 85
Levia Gravia „ 117
Giambi ed Epodi . „ 145
Critica e arte „ 175
Novissima polemica „ 289
Per la poesia e per la libertà ... „ 319
Eterno femminino regale ..... „ 333
Rapisardiana • . „ 359
?A IRA ,,385
Agli elettori del Collegio di Pisa . „ 467
Note » 4^5
Finito di stampare '
il di r marzo MDCCCXC
nella tipografia delia ditta Nicola Zanichelli
in Bologna.
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3 co
CD
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University of Toronto
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THIS
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Under Pat. "Ref. Index File"
Made by LIBRARY BUREAU
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